Facchinetti, l’opera lirica mi ha ridato la carica

La stilista bergamasca che ha lavorato per Gucci e Valentino debutta come costumista in Don Carlo di Verdi a San Gallo Una nuova avventura iniziata grazie al regista Nicola Berloffa «Nella moda si è perso il sogno per assecondare il mondo»

«Per me inizia una nuova avventura». La voce un po’ di emozione la tradisce, mentre stringe mani nel foyer di cemento e marmo. E fa un certo effetto vedere il sorriso stupito di Alessandra Facchinetti, lei che con Gucci e Valentino ha sfilato sulle passerelle più importanti del mondo. Inizia da San Gallo, Svizzera tedesca, la nuova avventura della stilista italiana, quella come costumista. «Questo Don Carlo lo custodirò per sempre nel cuore» racconta Alessandra accanto al padre Roby Facchinetti. «Non potevo mancare» dice il tastierista dei Pooh che, per una volta, si è seduto tra il pubblico. Ricambia il favore perché Alessandra ha seguito tutte le tappe della tournée di addio dei Pooh: «È stata la fine di un’epoca, anche per la nostra famiglia, volevo essere vicino a papà che ci ha insegnato la passione, la dedizione e l’impegno. Anche grazie a lui, stare oggi su un palco per me è come tornare a casa» racconta la stilista. In camerino i cantanti che hanno dato corpo al melodramma di Verdi – titolo inaugurale della stagione del Theater di Sankt Gallen con la regia di Nicola Berloffa – rimettono sugli appendiabiti  i costumi disegnati da Alessandra Facchinetti che, mentre il teatro si svuota, racconta che «desideravo da tempo misurarmi con il teatro».

E come è nata, Alessandra Facchinetti, questa avventura?

«Lo scorso allo Sferisterio di Macerata ho visto la Madama Butterfly di Puccini con la regia di Nicola Berloffa. Amici in comune ci hanno presentato e Nicola mi ha proposto di collaborare. Non ci ho pensato due volte perché da tento pensavo al costume, ma il lavoro non mi lasciava le energie necessarie. Ho un carattere curioso e aperto al mondo, disponibile a esplorare strade diverse».

Ma lei conosceva il mondo dell’opera? In casa sua si ascoltava la lirica o solo il pop dei Pooh?

«Conoscevo l’opera da spettatrice, ma non mi definirei melomane. Il bisnonno paterno, però, era musicista, direttore di un coro polifonico a Bergamo e cultore dell’opera e anche il nonno materno era un grande appassionato di lirica, la sua collezione contava più di 4mila vinili: il sabato mattina in casa sua si ascoltava musica tutto volume. Oggi ascolto musica di tutti i generi, diciamo a seconda dell’umore di cui si tinge la mia giornata, dalla classica al pop, dal jazz alla musica black».

Come ha affrontato il lavoro sui costumi di Don Carlo?

«Da stilista solitamente faccio un’analisi sociologica, qui, invece, c’è stata un’analisi psicologica. Mi sono immersa totalmente nella musica di Verdi, un lavoro di scavo insieme a Nicola che è stata la parte più interessante del lavoro. Forse anche per il mio approccio cerebrale. L’indicazione registica era quella di lasciare da parte la Spagna del Cinquecento del libretto per portare le vicende a fine Ottocento, all’epoca della decadenza delle grandi monarchie. Abbiamo pensato a una complessità nella struttura dei costumi per dare una lentezza dei movimenti che conferisse maggior drammaticità all’azione. Ho scelto il nero come colore dominante, un nero che, però, è ricco e non annulla. C’è tanto marrone. E ci sono anche dei colori, intensi e profondi, ma freddi perché l’aria è triste e decadente. Il lavoro ha preso forma sulla carta, ma si è evoluto anche dall’incontro con i cantanti. Per Elisabetta sono partita dal costume dell’ultimo atto, un sangallo di velluto nero quasi gotico, e sono tornata indietro costruendo un’immagine del suo dolore. Solitamente lavoro su abiti femminili, qui mi sono confronbtata anche con il costume maschile. Filippo è un sovrano che perde potere nel corso dell’pera e qusto lo si percepisce anche nei dettagli del costume che si spoglia progressivamente. Don Carlo è un po’ dandy, elegante, ma in linea con la severità della monarchia».

Quale il valore aggiunto che una stilista può dare all’opera?

«Forse una rilettura, pur se molto rispettosa della musica, più contemporanea delle forme e delle linee, asciugate con l’occhio di oggi. Quelli che ho disegnato sono costumi quasi indossabili. Sono rigorosi, stile che da sempre caratterizza il mio lavoro nel tentativo di asciugare e ripulire certi sfarzi. Mi sono ritrovata molto nella parte di ricerca, cosa che, forse non avrei pensato potesse accadere in teatro. Quando disegno i miei modelli attingo all’arte figurativa, alla fotografia. Cerco sui libri l’ispirazione. È stato così anche in questo caso, con una rigorosa ricerca storica».

Cosa porta a casa da San Gallo?

«Una grande ricarica a livello creativo, ma soprattutto umano. Ho ritrovato un calore che nella moda non c’è, una serietà che nel mio mondo spesso latita: la moda deve essere in sintonia con il mondo di oggi e seguirne i tempi e spesso lo fa a discapito di valori estetici e di qualità. Si è perso il sogno che è quello per il quale ho iniziato a fare questo mestiere».

Allora ha chiuso con la moda?

«Il capitolo non è assolutamente chiuso vorrei, però, farlo in modo diverso, in modo da coltivare in parallelo le mie passioni, prima fra tutte quella del teatro».

Per quale altra opera le piacerebbe disegnare i costumi?

«Da bergamasca penso a un titolo di Donizetti, magari nel teatro dedicato al compositore quando riaprirà: perché no una Lucrezia Borgia?».

Intervista pubblicata in gran parte su Avvenire del 30 ottobre 2018

Nelle foto @Iko Freese i costumi di Alessandra Facchinetti per Don Carlo al Theater Sankt Gallen