Parma, in galera con Luisa Miller (e Verdi)

Diario Verdiano. 4

In San Francesco al Prato, ieri carcere oggi invece cantiere l’opera che Lev Dodin ambienta tra i ponteggi per i restauri Roberto Abbado sul podio. Cantano Dotto, Lagha e Vassallo

Un po’ ti manca l’aria, seduto su una tribuna fatta di tubi Innocenti e sospesa a mezz’aria. Tubi sopra la testa, tubi sotto i piedi, tubi ai lati. Tubi che ingabbiano tutto San Francesco al Prato a Parma. Edificio in restauro, chiesa della seconda metà del XIII secolo, passata attraverso la soppressione borbonica prima e napoleonica poi, trasformata in carcere e ora cantiere in vista della restituzione al culto nel 2020. Il carcere appunto. Uno dei luoghi dove abita, nascosta, la sofferenza della società contemporanea. Chiusa in cella. Costretta al silenzio. Come Luisa, che solo in punto di morte potrà gridare la sua innocenza dopo che tutti, a causa di un raggiro, l’hanno creduta infedele.

Luisa Miller claustrofobica quella del Festival Verdi di Parma che, dopo aver portato l’opera per tre anni nello spazio del Teatro Farnese, per l’edizione 2019 ha trasformato, rendendolo palcoscenico per la lirica, un altro luogo artistico della città, la chiesa di San Francesco, appunto (e già si annuncia per il prossimo anno nello stesso luogo il Macbeth in versione francese). Sino a poco tempo fa sprangata perché carcere, è stata restituita alla città grazie ad uno stop ai lavori di restauro curati dalla diocesi. L’assonanza, il perché di una Miller nella chiesa che era un carcere può risultare facile da intuire: nel melodramma si parla di carcere, perché il padre della protagonista viene imprigionato dal potere (il torbido Conte di Walter) per i suoi giochi, per costringere la ragazza a firmare un foglio dove dice di non aver mai amato Rodolfo (che è il figlio del Conte e che per la ragion di stato deve sposare la Duchessa Federica, come nei classici drammi, reali o inventati, a sfondo politico). Ma il regista Lev Dodin va oltre questa semplice suggestione. E si lascia ispirare dal luogo, dalla chiesa, appunto. Colloca l’azione, come fosse un’installazione, nell’abside di San Francesco e rilegge la partitura facendola diventare una sorta di oratorio sacro (coristi disposti sui tre livelli delle impalcature, mai partecipi fisicamente dell’azione, protagonisti, statici, al centro). Il mondo è quello contadino che torna speso nell’immaginario del regista del Maly di San Pietroburgo (scene e costumi di Aleksandr Borovskij). Che trasforma la Miller in una liturgia sull’amore oppresso, incarcerato e ingabbiato dal potere. Come la chiesa di San Francesco, chiusa nei ponteggi sopra i quali Dodin colloca assi di legno quasi ad evocare un Globe shakespeariano. La storia che Verdi prende da Schiller richiama in qualche modo il teatro elisabettiano che c’è nell’azione scenica statica e nella carneficina finale che il regista ha voluto come tragico finale: Rodolfo, che avvelena Luisa credendola infedele, versa il veleno in tutte le ampolle di vino che berranno tutti i commensali (Conte di Walter e Wurm compresi) del banchetto nuziale, cadendo riversi sul lungo tavolo bianco. Tavolo che, con semplici cavalletti ed assi, viene costruito (con una precisa ritualità) nel corso dei tre atti dell’opera: all’inizio è una pedana dove Luisa e Rodolfo si incontrano, poi diventa scrivania dove la ragazza scrive la sua lettera, infine, elegantemente apparecchiato, si rivela macabro banchetto/cimitero.

Il pubblico (pur se seduto in una platea costruita ad hoc nella navata centrale, tribuna sospesa compresa) è dentro l’azione, circondato anche lui claustrofobicamente dai ponteggi, illuminato dalle luci (di Damir Ismagilov) che si colorano dei sentimenti dei personaggi. Sconfitti dalle logiche del potere che, in nome della sicurezza, mette da parte il sentimento. Ancora una volta torna il potere, filo rosso del Festival Verdi 2019. E della riflessione del primo Verdi, quello dei cosidetti anni di galera (carcere?). Primo, ma che in Luisa Miller sta passando chiaramente ad una fase più matura. Partitura cantiere di nuove idee, dunque, dove gli accenti più eroici lasciano spesso spazio ad una musica più meditativa, a tratti sperimentale, che guarda avanti. Su questa si concentra dal podio Roberto Abbado (direttore musicale del Festival Verdi) che, alla guida dell’orchestra del Comunale di Bologna, offre una lettura raffinata, a tratti anche troppo, della partitura (presentata, come tutte quelle sul leggio del Festival, in edizione critica): Luisa è sperimentale, rivela già tratti della maturità verdiana, certo, ma è anche intrisa di cabalette e strette che avrebbero richiesto più piglio perché volendo ripulire troppo il primo Verdi da queste sue peculiarità si rischia, forse, di non rendergli appieno giustizia.

Francesca Dotto, nei panni di Luisa restituisce puntuale la scrittura verdiana fatta di belcanto e intrisa di dolore, sempre. Amadi Lagha ha squillo e volume per avere la meglio sulla parte di Rodolfo, dove ci sono tutti i tenori verdiani che verranno. Franco Vassallo è una sicurezza nella parte di Miller grazie a colore, gusto e tecnica messi a servizio della musica. Incisiva Martina Belli come Federica, sinistro al punto giusto Gabriele Sagona come Wurm. Svettante nei dialoghi con il coro (che è quello del Comunale di Bologna guidato da Alberto Malazzi) Veta Pilipenko che è Laura. Qualche difficoltà per Riccardo Zanellato a restituire i colori cupi del Conte di Walter. Tutti inquietanti nella fissità che chiede loro Dodin. Tanto che alla fine l’aria che sembra mancare tra i ponteggi è più che mai necessaria.

Nelle foto @Roberto Ricci Luisa Miller nella chiesa di San Francesco a Parma