Scala, più diva che donna la Norma di Py

Dopo 48 anni torna l’opera di Bellini diretta da Fabio Luisi Protagonista Marina Rebeka accanto a Vasilisa Berzhanskaya Contestato duramente il regista francese che porta la vicenda nella Milano risorgimentale e gioca con il teatro nel teatro

Restano nelle orecchie, sonori, come mai si erano sentiti… restano nella memoria, unanimi, come mai erano stati mettendo d’accordo platea e loggione… restano alla fine della Norma di Vincenzo Bellini i fischi, i dissensi i buu e i ripetuti «Vergogna!» che hanno accolto, alla sua uscita in proscenio, Olivier Py. Stranianti, perché il regista francese li ha accolti con un sorriso (di sfida?)… non lasciando il campo (la ribalta) e costringendo tutti alla ritirata, dopo otto risicati minuti di applausi… perché i fischi non smettevano, mentre cantanti, direttore e regista andavano avanti e indietro dal proscenio. Forse cantanti e coro e direttori (do’orchestra e di coro) se ne sarebbero meritati altri… di applausi. Ma il sipario nero ha messo un punto al ritorno della Norma al Teatro alla Scala.

Ed eccola qui, la prima notizia, che supera colore e folklore da loggionisti (che quasi sempre lascia il tempo che trova, ma che a volte, come questa, ci azzecca…). La prima (e ottima) notizia è che «si-può-fare». Scandito chiaro. A voce piena. Norma al Teatro alla Scala si può (ancora) fare. La Norma di Vincenzo Bellini. Che al Piermarini debuttò nel 1831… dunque Norma “è” la Scala, come Nabucco “è” la Scala (e il titolo verdiano, qui, non è messo a caso). Lo senti subito, con Nabucco come con Norma. Bastano le prime note della Sinfonia (di Norma in questo caso, ma succede lo stesso con Nabucco) perché qui queste opere “suonano” in modo unico, come non succede da nessun’altra parte. Emozione a fior di pelle. Tanto che canteresti ogni nota, ogni parola del libretto (Felice Romani si rifà a Norma ou l’infanticide di Alexandre Soumet, dramma andato in scena nell’aprile del 1831… norma debutterà il 26 dicembre dello stesso anno). canteresti ogni nota, ogni parola del libretto… «Nella città dei Cesari tremendo echeggerà… Sgombra è la selva… Sì fino all’ore all’ore estreme… In mia man alfin tu sei… Dhe! Non volerli vittime…». Non capisci perché, ma è come se le sapessi, queste parole e queste note, da sempre. Così che quando risuonano al Piermarini, ti senti “a casa”.

Mancava dalla Scala dal 28 gennaio 1977 Norma. Troppo tempo. Allora la cantava Montserrat Caballé, lontana anni luce dalla Norma più Norma di tutte, Maria Callas… il cui fantasma (inevitabile) aleggia ancora. Più di quarantotto anni dall’ultima Norma, durante i quali sono stati scacciati altri fantasmi (tutti legati – sarà un caso? – alla Divina), quello di Traviata (dopo che l’ha riportata nel 1990 Riccardo Muti è ora regolarmente in cartellone), quello di Medea (tornata, in versione francese, poco più di un anno fa)… non quello di Norma. Fino al 27 giugno però. Quando l’opera – “opera più opera” di tutte (è vero sono tante le “opere più opere”…) perché bella, bellissima, ma soprattutto per strane e inspiegabili alchimie da sempre nel cuore dei melomani come nessun altro titolo – il 27 giugno, quando l’opera di Bellini è tornata in scena. Per restarci sino al 17 luglio (e si spera in ritorni costanti ora che il tabù è stato rotto).

Norma alla Scala si può fare. La certezza a un’ora precisa, le 20.34. «Sediziose voci, voci di guerra» intona Marina Rebeka. «Pace v’intimo». Preghiera oggi tremendamente necessaria. E poi Casta diva cantata davanti a una luna di cartone. Silenzio. Assoluto. Tensione. Palpabilissima. Poi l’applauso che dice che Norma al Teatro alla Scala si può (ancora) fare. E via con «Ah bello a me ritorna…», ritmo e sentimento, reminiscenze di antiche conoscenze e attualità bruciante di un popolo che grida «Guerra… strage… sterminio… vendetta».
Anche per questo era necessario che Norma tornasse. Per dire e per dirci quanto fa male la guerra. Se già le drammatiche immagini di Gza, dell’Ucraina, del Myanmar non ce lo dicessero chiaro. Merito di chi Norma l’ha messa in cartellone (l’ex sovrintendente Dominique Meyer… coraggio non da poco con un titolo così…) e di chi l’ha varata (l’attuale sovrintendente Fortunato Ortombina… coraggio ad aver sposato l’idea). Con le luci e le ombre del caso. Perché a fare i sovrintendenti nei foyer dei teatri o nei commenti sui social si è capaci tutti… tutti avremmo i cast ideali, i registi giusti, i direttori perfetti… ma poi la vita (paradosso perché nel teatro si mette in scena qualcosa di palesemente costruito) è altro. Allora bene che Norma sia tornata. Merito di chi ha raccolto la sfida… direttore, regista (certo, anche lui…), cantanti.

Impresa non facile, senza dubbio. Ma Norma, ora lo sappiamo, si può fare. Prima notizia, che supera il folklore da loggionisti. Che la sera della prima è comunque arrivato, puntuale. Quasi “educato”, perché inaspettatamente è scoppiato solo a fine serata e non ha contrappuntato la recita, come forse ci si sarebbe potuti aspettare visti i tanti, troppi precedenti scaligeri di contestazioni in corso d’opera. Alla fine di tutto una risata, sonora, ha seppellito Norma. Non la Norma di Bellini, non la Norma di Fabio Luisi e di Marina Rebeka. Ma la Norma di Olivier Py, il regista, accolto da una valanga unanime di fischi, buuu e urla di «Vergogna!» quando si è presentato in proscenio. Mai sentito così tanto e così unanime dissenso alla Scala. Ultime note. «Padre addio… incomincia eterno amor…». Norma e Pollione si avviano al rogo, ma le fiamme non ci sono. Ci sono piuttosto cecchini che li fucilano. Come succedeva ai patrioti che, ai tempi in cui Bellini scriveva la sua opera, a Milano lottavano contro l’invasore austriaco – il generale Radeyzky arrivava nel capoluogo lombardo dalla Boemia proprio nel 1831. Partono le schioppettate e giù la risata dall’alto.

Sigillo irriverente (ma azzeccato… e forse anche necessario) allo spettacolo confuso e sghembo di Py. Brutto? Forse nemmeno… sicuramente non in appiombo sulla partitura e sulla vicenda. Ansia da prestazione, forse, di fronte e un monumento (musicale, ma soprattutto della memoria) come Norma Che Py ambienta nella Milano risorgimentale (l’idea di una Norma ottocentesca non è certo nuova… se ne sono viste tante), dentro e fuori il Teatro alla Scala (stessa collocazione del Nabucco, bellissimo, che Arnaud Bernard ha ideato qualche anno fa per l’Arena di Verona…  stessa collocazione, ma non stessa potenza). Teatro alla Scala, il Tempio, dove Norma è “sacerdotessa” dell’arte, attrice o cantante (chi lo sa… dallo spettacolo non si capisce) che deve interpretare Medea, la maga che uccide i figli di Giasone mentre lei, Norma, risparmia quelli di Pollione. Norma, primadonna scaligera, con un teschio in mano, teschio dorato, come Amleto (e si moltiplicano i riferimenti e anche la confusione) e una chioma rossa alla Milva (stessa estetica, e forese anche stessa parrucca, che Py aveva scelto qualche anno fa per la sua Thäis di Massnet sempre incarnata da Marina Rebeka). Un po’ cant-attrice brechtiana (lo staniamento che Py mette nel suo spettacolo fa pensare al drammaturgo tedesco che la Pantera di Goro cantava nei suoi recital strehleriani) e un po’ soubrette da rivista – si presenta in scena, prima del fatale Casta diva, scendendo le scale come Wanda Osiris, abito lungo e dorato e, al posto delle rose che la Wandissima lanciava, «il sacro vischio» che Norma viene a mietere. Norma è la primadonna, Adalgisa è l’attrice giovane che alla fine prenderà il posto della diva – «Dhe! Non volerli vittime…» canta Norma supplicando il padre Oroveso di proteggere i suoi figli, e dietro i boys (pantaloni neri, petto nudo ostentato durante tutta l’opera) “investono” del nuovo ruolo Adalgisa… e così via. Tra bandiere italiane e aquile austriache.

Teatro nel teatro, immaginario tipico del regista francese – estetica, nelle scene e nei costumi di Pierre-André Weitz e nei mimi che contrappuntano sempre e comunque l’azione in coreografie che poco c’azzeccano di Ivo Bauchiero, simile, appunto, alla Thäis scaligera sempre firmata da Py. Teatro nel teatro con i mimi che doppiano il racconto mettendo in scena, con maschere del teatro greco, la tragedia di Medea. Teatro nel teatro con il primo duetto tra Norma e Adalgisa in un camerino, davanti a specchi incorniciati da lampadine. Teatro nel teatro in una scenografia (bellissima) complessa, di ferro e legno, montata su un girevole: nel primo atto la facciata (in bianco e nero, come in un’incisione) del Piermarini; nel secondo, dopo che nell’intervallo il pubblico ha visto sul palco una gigantografia della Scala bombardata, un luogo frammentato, spezzato, sghembo e fuori asse… come il mondo di Norma, andato in frantumi per il tradimento di Pollione. Mondo fuori asse… come la mente della sacerdotessa che vorrebbe uccidere i figli (mal gestiti in scena, però, in un continuo duellare di spade giocattolo) avuti dal generale romano. Teatro nel teatro, immaginario tipico di Py, che stavolta, però, non torna con il racconto di Bellini e del librettista Felice Romani. Restano tanti perché… restano tante idee non concluse…

Chiara, granitica, invece, l’idea che Fabio Luisi (senza bacchetta, curiosamente) disegna dal podio. Una Norma che è sì belcanto, non potrebbe essere altrimenti, ma che ha già in sé i fermenti rivoluzionari – detto musicalmente non (solo) politicamente – che verranno. Nella Norma del direttore genovese senti il Verdi di Nabucco (arriverà nel 1842, ma scalderà i cuori dei patrioti allo stesso modo) e di Traviata (strano, forse, ma certi respiri richiamano il mondo creato da Verdi raccontando Dumas). Non solo, ci senti anche certi squarci novecenteschi quando l’anima di Norma si affaccia sull’abisso del male. Ritmo sostenuto (nei duetti, però, la tensione si scioglie e si aprono oasi liriche), suono corposo (a volte anche troppo) nel quale, però, il coro di Alberto Malazzi e gli interpreti riescono sempre ad aprirsi un varco.

Lo fa Marina Rebeka che, al netto di un poco incisivo In mia man alfin tu sei (ma è alla fine e la stanchezza di una Norma in versione pressoché integrale, proposta nell’edizione critica di Roger Parker,  si fa sentire), vince (puro con un isolato, ma sonoro contestatore) la sfida con una Norma ieratica, attraversata da un dramma tutto interiore, svettante in acuto (meno presente quando la tessitura va in basso) e scenicamente accattivante. In sintonia con la lettura (teatro nel teatro) di Py, nel suo disegnare una diva sul viale del tramonto, disillusa dalla vita e dagli affetti… una Norma che non combatte, ma che va incontro al suo destino di predestinata. Tutto muscoli e acuti il Pollione monolitico di Freddie De Tommaso, in linea con i tenori eroici che hanno dato voce all’antieroe (come si fa a entrare in empatia con lui, nemmeno alla fine quando sceglie il rogo… qui le schioppettate… ti fa tenerezza…). Squillo (ma il do sopracuto è omesso), forza, per un personaggio bidimensionale… Tutta sfumature, intenzioni, mezzevoci da brivido, invece, l’Adalgisa di Vasilisa Berzhanskaya, la migliore (e non per nulla la più applaudita) di tutti, voce di velluto e seta, temperamento di fuoco. Capace, la Berzhanskaya (che canta anche la parte di Norma) di tenere testa alla Rebeka nei lunghi e appassionati e musicalissimi duetti tra le due donne.

Efficace, per colore della voce e intenzioni musicali, il Flavio di Paolo Antognetti, come puntuale è la Clotilde di Laura Lolita Pereśivana. Centocinquantesima volta sul palco della Scala per Michele Pertusi, autorevole Oroveso che mette da parte la vendetta. E nel pianto cerca la pace. Anche per questo era necessario che Norma tornasse.

Nelle foto @Bresxcia/Amisano Teatro alla Scala Norma

Articolo pubblicato in parte su Avvenire del 29 giogno 2025