All’Oper Köln La Passion de Simone di Kaija Saariaho sulla Weil Il vedovo della compositorice finlandese e il direttore svedese raccontano il rapporto con la musicista scomparsa nel 2023
«C’è l’assenza. Ma c’è anche e soprattutto la presenza». La voce si incrina. Ma è un attimo. «Sì, perché per me Kaija sarà sempre come un angelo che sta qui dietro la mia spalla». La testa si gira leggermente. Gli occhi si illuminano. Quell’angelo che Jean-Baptiste Barrière evoca, seduto a un tavolo della cantina dell’Oper Köln, è Kaija Saariaho. Compositrice finlandese, classe 1952, scomparsa proprio due anni fa, il 2 giugno 2023. «Kaija era mia moglie. Cosa mi è rimasto di lei? Tante, tantissime cose, voglio dire, abbiamo vissuto insieme per quarantatré anni. Una quantità di tempo enorme. Abbiamo fatto così tante cose che inevitabilmente mi manca, ma è presente con me ogni singolo giorno. E ogni singola decisione che devo prendere la prendo pensando a quello che avremmo fatto insieme». Barrière, anche lui compositore, anche lui con una fede incrollabile nella musica elettronica, parigino, classe 1958, a lungo direttore dei dipartimenti di Ricerca musicale e di Pedagogia dell’Ircam di Parigi, Barrière è a Colonia per la prima de La passion de Simone, opera in «quindici stazioni» del 2006 dedicata alla figura di Simone Weil, la filosofa e mistica francese, nata in una famiglia di origine ebraiche, convertitasi al cristianesimo, che lasciò l’insegnamento per lavorare come operaia e vivere sulla sua pelle la condizione degli ultimi, morendo poi di tubercolosi. «Per Kaija quella di Simone Weil era una figura fondamentale: quando lasciò la Finlandia per andare a studiare in Germania gli unici libri che si portò via erano gli scritti della Weil».
Dietro la cantina dell’Oper Köln c’è la Saal 3, enorme. Perché l’Opera è ancora nelle strutture fieristiche dello Staatenhaus, a due passi dal Reno. Lì, nella Saal 3, ci sono tanti busti di Simone Weil. E ci sono le parole della scrittrice. «Nichts, was existiert, ist vollkommen der Liebe würdig. Darum muss man das lieben, was nicht existiert». Non esiste nulla che sia completamente degno di amore. Ecco perché devi amare ciò che non esiste. «Gewalt entwürdigt alles, was in irgendeiner Weise mit ihr in Berührung kommt». La violenza degrada tutto quello che con essa entra in contatto. «Der Stille zuhören können: Die Aufmerksamkeit auf die Abwesenheit von Lärm richten». Saper ascoltare il silenzio: concentrare l’attenzione sull’assenza di rumore. Le ha messe in scena queste parole, cuore del suo (riuscitissimo) allestimento, la regista Friederike Blum. Al centro le parole. Al centro la musica di Kaija Saariaho. Anche fisicamente. Perché l’orchestra (qui viene proposta la versione da camera, senza elettronica de La passion de Simone) è inglobata nella scena. Sulla quale il pubblico si aggira, entrando nell’azione.
«Sono stato al fianco di Kaija per quasi vent’anni. L’ho conosciuta a Stoccolma che ero un adolescente, avrò avuto sedici anni. E da allora abbiamo collaborato in diverse occasioni. L’ultima proprio con La passion de Simone con Anne Sofie von Otter». La partitura sottobraccio, Christian Karlsen scende dal podio. Ferma gli orchestrali della Gürzenich-Orchester. Dà le ultime indicazioni dopo la prova generale. «Kaija era il tipo di compositrice che leggeva una poesia e poi iniziava a immaginare la musica. Kaija mi ha raccontato che quando aveva sette anni chiese a sua madre perché il cuscino del suo letto sul quale dormiva emettesse dei suoni. Perché aveva sempre il suono della musica, la sua musica, nella testa. Ma da bambina pensava che fosse il cuscino su cui dormiva a produrre il suono, come un altoparlante». Sorride Karlsen ripensando alla compositore finlandese. «Avevamo un progetto meraviglioso, ma il covid ci ha fermati. Poi Kaija ci ha lasciati» racconta il direttore d’orchestra svedese, classe 1985. Cammina verso la cantina. Un abbraccio intenso tra Barrière e Karlsen. «Christian ha fatto un grande lavoro» dice il marito della Saariaho. Anche Karlsen si siede. La partitura sempre tra le mani. Concorda anche lui. «Simone Weil era incredibilmente importante per Kaija».
Per questo ha deciso di dedicare un’opera alla filosofa e mistica francese?
Barrière. «Quando Kaija era una ragazza che cercava di trovare la sua strada, soprattutto nel mondo della musica, erano i primi anni Settanta e lei non voleva tanto un modello da seguire, ma cercava piuttosto qualcosa che desse senso alla vita. E ha trovato questo qualcosa negli scritti di Simone Weil. Cerchiamo, però, di essere chiari su questo. Kaija non era una persona religiosa, ma percepiva il bisogno di spiritualità che c’è in ogni uomo. E ha trovato in Simone Weil quel tipo di tensione, quella ricerca di spiritualità che stava inseguendo. Non pensava che Simone fosse perfetta, al contrario. E questo è ciò che rende interessanti i personaggi che incontriamo nella vita e nella musica. La sua vita potrebbe essere riassunta con una frase di Samuel Beckett Fail, fail again, fail better, fallire, fallire di nuovo, fallire meglio… Perché per tutta la vita ha cercato di fare il bene, ma ha sempre fallito in un modo o nell’altro. Eppure ha continuato fino al punto della disperazione. Lo dice bene il libretto che per Kaija ha scritto Amin Maalouf dove Smone Weil non è indicata come un modello, ma la sua vita, le sue scelte diventano domande per mostrare che la cosa più importante è provare e andare oltre e riprovare, a costo della propria vita».
Karlsen. «Forse la figura di Simone Weil non è la prima che ti viene in mente se pensi a un soggetto per un’opera lirica. Ma Kaija si è ispirata alla letteratura per per molti dei suoi brani. Simone Weil era incredibilmente importante per lei. Ha letto i suoi scritti per tutta l’adolescenza e quelle parole l’hanno trasformata. E penso che da allora ha pensato che quello su Simone Weil sarebbe stato per lei il pezzo della vita. E nel momento in cui ci sono state le condizioni giuste lo ha fatto, consegnandoci la sua opera più personale e, per molti versi, anche una delle più importanti del suo catalogo. Simone Weil è un’ebrea convertita al cattolicesimo che per tutta la sua vita ha cercato di trovare un’identità. E lo ha fatto uscendo dalla sua zona di comfort, lavorando in una fabbrica per un anno, lei, una persona fragile, piccola, minuta alle prese con un lavoro pesante. Un pellegrinaggio continuo, quello della Weil, alla ricerca della verità. Una figura nella quale penso Kaija si rispecchiasse. Penso non fosse facile per una donna negli anni Settanta provare ad affermarsi come compositrice, era come camminare sul ghiaccio con il pericolo che si potesse rompere. Così andare in posti dove non ci si aspetta che una donna possa andare – la fabbrica per la Weil, ad esempio – diventa una sorta di pellegrinaggio alla ricerca della verità, senza sapere cosa ci sarà dietro il prossimo albero, ma sapendo di essere sulla strada giusta, in cammino verso la tua verità. In questo senso penso che Simone Weil sia stata un’ispirazione per Kaija».
Un melodramma o un oratorio sacro La passion de Simone?
Karlsen. «Ogni volta che dirigo questa pagina, sapendo che l’ho eseguita con Kaija Saariaho a fianco, tutti mi chiedono quale sia la sua natura, se sia un’opera o un oratorio? E io rispondo che è una cosa a sé. È un’opera nel senso che seguiamo le vicende di una persona, di Simone, raccontiamo la sua vita dall’inizio alla fine. Passiamo attraverso tutte le tappe della sua esistenza, abbiamo una scena in cui lei è in fabbrica, abbiamo la resistenza… e la seguiamo sino nel Regno Unito, dove morirà… e siamo lì con lei quando muore sola, senza che nessuno se ne accorga. E ci interroghiamo se un gesto del genere, se una morte del genere abbia senso. Ricordo di aver parlato proprio di questo con Kaija perché in prova Anne Sofie von Otter disse: Non sono d’accordo con le sue azioni. Sono molto discutibili. E Kaija diceva: Sì, sono d’accordo. Sono molto discutibili. Ma questo pezzo non è per esaltare le sue azioni, non è fatto per trasformare Simone Weil in un’eroina, in un esempio da seguire. È più… una lotta con lei, un corpo a corpo perché ci accorgiamo che ci parla di qualcosa di più grande».
Eppure La passion de Simone è strutturata in quindici stazioni, come fosse una Via Crucis…
Karlsen. «È vero, non sono scene, non sono atti, ma stazioni. Quindi in un certo senso Kaija avvicina la figura di Simone Weil a quella di Cristo, il senso della vita che la scrittrice stava cercando. Tanto che si può pensare che la sua morte sia un tentativo di conformarsi alla figura di Cristo, perché questo era l’unica cosa che la mistica francese desiderava, cercare di fare la stessa esperienza di Cristo sulla croce. Ci è riuscita? Forse nell’ultima ora l’ha fatto anche se la sua famiglia ha visto in questo gesto estremo una volontà di suicidio. Tornando alla musica e alla forma La passion de Simone tiene insieme racconto e riflessione, narrazione e meditazione sull’uomo…»
Come accade nelle Passioni di Bach…
Karlsen. «Sì, ma le Passioni di Bach sono profondamente intrise del senso religioso della fede protestante, mettono una sorta di distanza, di oggettività tra dio e l’uomo, mentre qui, nella Passion de Simone noi siamo tirati dentro la vicenda, siamo fratelli e sorelle di Simone, come dice la prima frase che viene cantata in scena… Simone grande soeur».
Kaija Saariaho ha definito quest’opera il suo testamento musicale. Perché?
Barrière. «Certo, l’ha fatto molti anni prima di ammalarsi, quando ancora la morte non era incombente. Penso che La passion de Simone sia un testamento di Kaija perché raccoglie tante delle sue idee sulla vita, sulla creazione, sul pensare e naturalmente sulla musica. E per questo, tra le quasi duecentocinquanta partiture che ha scritto, è il pezzo di mia moglie che mi è più caro perché è il più personale, racconta chi era lei come persona e ancora una volta lo fa in una forma davvero originale. Questa pagina è davvero un suo testamento. Perché se qualcosa è rimasto – e sono molte le pagine di Kaija che sono rimaste nella storia della musica – è veramente qualcosa di vicino a lei, un riflesso della sua personalità, la personalità di una donna e di una musicista che si preoccupava delle cose importanti, di fare del bene e allo stesso tempo di essere totalmente vera musicalmente, trovando una forma così originale per mettere in scena storie. Credo che sia questa l’eredità che Kaija lascia alla musica contemporanea».
Karlsen. «L’eredità di Kaija è unica perché lei è stata unica, ha intrecciato il suo percorso con quello di tanti compositori, ma non è stata mai una copia di qualcuno. La sua musica è una cosa a sé. Non è la continuazione di qualcosa. È qualcosa da cui partire, una cosa nuova. Come era capitato con Debussy e Musorgskij. Non c’era nessuno prima di Debussy e Musorgskij. Certo, possiamo dire che Kaija si è ispirata a Wagner, ma la sua musica non suona affatto come quella di Wagner. È lei, originale. Come pochissimi altri compositori ha una cosa sua, e tratta il materiale in un modo originale».
Cos’era la musica per Kaija Saariaho?
Barrière. «Nel suo scrivere musica mia moglie penso che cercasse qualcosa di espressivo e comprensibile per la gente, ma al tempo stesso senza fare alcuna concessione sul linguaggio. Kaija era totalmente libera esteticamente. Nella musica ha trovato la sua strada, la sua personalità. Nella musica ha fatto sintesi del mondo e delle cose che erano veramente importanti per lei. Per Kaija era fondamentale che la musica esprimesse qualcosa. Non era una formalità. Questo non significava tornare alla tonalità in modo rivoluzionario, ma voleva dire andare oltre, non limitarsi ad un linguaggio specifico, adeguarsi a questa o a quella scuola di pensiero, ma significava trovare il proprio modo di esprimere le cose che voleva comunicare. E questo è quello che ha fatto. Per me il successo della sua musica sta proprio in questo: ha sviluppato un suo linguaggio, che è al tempo stesso accessibile e completamente suo».
Karlsen. «Dico sempre che la musica di Kaija Saariaho è un po’ una realtà parallela. La compositrice scrive questa musica che è quasi magica, pensiamo all’accordo che apre La passion de Simone, è quasi una magia. Capita come capita nelle Cronache di Narnia di C. S. Lewis, si apre l’armadio e si entra in un altro mondo dove tutto è diverso dalla realtà, ma dove tutto, allo stesso tempo, ha anche un senso compiuto. E forse questo mondo è ancora più vero della nostra vita normale e del caos che regna nel nostro mondo, specie in questo momento. Quindi penso che la musica di Kaija sia incredibilmente umana perché cerca l’emozione umana nel suo senso più profondo. Simone Weil nei suoi scritti dice che la Grazia non è qualcosa che si può chiedere, ma bisogna aprirsi al Mistero e lei ci verrà incontro. E questa è anche la sua esperienza di Dio… vale anche per la musica di Kaija Saariaho. Ti si apre, ti si rivela, ti offre un tempo di riflessione… un momento nel quale non devi occuparti di ciò che Donald Trump ha scritto su X o sta gridando… la musica della Saariaho, come fa tutta la grande arte, è una zona priva di grida in cui ci si occupa di qualcosa che è più grande della vita quotidiana».
Una musica, uno spazio di riflessione oggi più che mai necessario.
Barrière. «Per me La passion de Simone è una pagina senza precedenti dal punto di vista della forma, non esiste una forma simile nella storia della musica. È un pezzo incredibile da tutti i punti di vista, non solo per il soggetto, ma anche per la forma dove si racconta la vita di qualcuno, ma al tempo stesso non si finge che questo qualcuno sarà l’eroe finale: perché il personaggio della Weil aveva così tanti difetti, ha fatto così tanti errori, ma stava davvero, veramente provando a cambiare la sua vita e il mondo, era in ricerca. L’opera cita il pensiero della Weil, descrive la sua vita e allo stesso tempo prende una distanza da essa per far capire che non siamo di fronte a un modello da imitare, quanto piuttosto a un personaggio dal quale lasciarci interrogare, un personaggio che ha attraversato il suo tempo e ha davvero cercato di lottare per ciò che ha trovato importante. Un pezzo incredibile questa Passion de Simone così ambizioso in termini di forma perché ti dà da pensare e ti fa entrare così profondamente nella musica. Ogni volta che lo ascolto rimango sempre stupito di non trovare alcuna citazione, di non trovare facili scorciatoie, ma di essere condotto dritto al punto. Anche se in scena, praticamente non succede nulla – e questo è il nodo problematico di ogni messinscena. L’unica cosa che sta accadendo è la musica. E la musica ti dà il tempo di pensare a ciò che è appena successo, a ciò che è stato detto. E questo lo trovo molto moderno e necessario oggi».
Karlsen. «Perché ascoltiamo? Chi deve dire cosa è importante? Chi sa indicare quello che devi trovare nella tua vita? Ti racconterò una piccola storia. Kaija non riusciva a comporre quando era lontana da casa. O almeno questo succedeva negli ultimi anni della sua vita, almeno nei ventidue anni in cui l’ho conosciuta io. Diceva che ci voleva molta concentrazione per scrivere. E dopo ogni viaggio le ci volevano sempre alcuni giorni per ritrovare questa concentrazione. Era incredibilmente profonda nelle sue scelte, come un pittore o uno scultore. Era come Michelangelo. Ricordo di aver visto per la prima volta la sua Madonna nella Cattedrale di Bruges. È una cosa piccola. Se ne sta lì in un angolo. E puoi benissimo passarci davanti senza accorgertene. Poi la guardi e ti rendi conto che è proprio magnetica, non riesci a spiegarti perché sia così, ma è quasi inebriante. E questo capita anche con la musica di Kaija, capita di fronte a capolavori dell’arte che sono stati prodotti da qualcuno che si è concentrato su qualcosa di incredibilmente profondo. Su qualcosa che riguarda la vita umana e l’uomo e il mondo. Kaija lo ha fatto e lo si percepisce, specialmente nei lavori della maturità. Che ci parlano ancora oggi incredibilmente».
Sino a qui la musicista Saariaho. Ma che donna era Kaija nella vita di tutti i giorni?
Karlsen. «Era una persona incredibilmente calorosa. Incredibilmente affettuosa. Era molto divertente. Rideva molto. Ed era anche incredibilmente una donna con un profondo senso di giustizia, si batteva per le persone e per ciò che era giusto. Cosa incredibile in un mondo come quello della musica, ha sempre difeso i colleghi. Ha sempre difeso la sua musica, se stessa. Era una persona incredibilmente onesta e corretta. Nel senso migliore. E penso che questo si possa sentire anche nei suoi lavori. Non cercava di piacere a tutti i costi… lei ti invitava, ti tendeva una mano, se volevi potevi accettare l’invito, ma non ti obbligava. Insieme ci siamo divertiti molto. E quando è morta… è stato… è stato… sì, è stato molto difficile. È molto difficile. Perché manca qualcuno che è una figura importante e un esempio come essere umano, qualcuno che in realtà cerchi di essere… perché incarna quei valori a cui tendi anche tu».
Barrière. «Kaija era un’artista che lavorava molto seriamente e che dunque si concentrava sul lavoro. Lavoro che a un certo punto della sua vita, una volta cresciuti i nostri figli dei quali si è presa cura con amore, era la cosa più importante. Ma era ben organizzata in tutto quello che faceva e lavorava in determinate ore per poi fermarsi e occuparsi del resto della sua vita. Kaija è sempre stata una delle rare compositrici che non era mai in ritardo quando scriveva. Era sempre in anticipo. Tutte le opere che le venivano commissionate erano pronte un anno prima del debutto. Era una persona determinata, davvero concentrata sul lavoro e sapeva molto bene cosa voleva fare artisticamente e musicalmente e nella vita. E lo ha fatto sempre… sino a quando la malattia glielo ha impedito».
La voce di Jean-Baptiste Barrière si incrina. Ma è un attimo. Arriva Lavinia Dames. Che è la protagonista de La passion de Simone dell’Oper Köln – dove l’ha applaudita anche Anne Sofie von Otter, storica interprete della pagina della Saariaho, a Colonia per un’altra prima mondiale, Die letzten Tage der Menschheit di Philippe Manouri, Gli ultimi giorni dell’umanità, kolossal che mette in scena il testo “irrappresentabile” di Karl Kraus, debutto il 27 giugno. «Incredibile» le dice Barrière abbracciandola. Ha ancora indosso il costume di scena disegnato da Lise Kruse. Pantaloni di un azzurro intenso, top giallo. I colori dell’Ucraina… che resiste. Come Simone Weil. Che grida il suo bisogno di giustizia e pace. Lo stesso che forse, oggi, Kaija Saariaho avrebbe messo in musica.
Nelle foto @Matthias Jung La passion de Simone all’Oper Köln