Colonia, il mondo di Poppea ha perso la bussola

All’Oper Köln l’opera di Monteverdi diretta da George Petrou Regia “da prosa” di Ted Huffman che scava a fondo nel testo Protagonisti Elsa Benoit, Nicolò Balducci con Laurence Kilsby

Lei in sottoveste color perla. «Pur ti miro…» gli canta guardandolo negli occhi. Lui pantaloni dello smoking, camicia bianca aperta sul petto nudo. «Pur ti godo…» le risponde cingendole la vita. «Più non peno, più non moro… o mia vita, o mio tesoro…» si dicono reciprocamente con quelle che dovrebbero essere parole d’amore, ma che si impregnano di amarezza, di disillusione… perché quelle promesse (ne sei sicuro, sicurissimo…) non saranno mantenute di certo, viste le fondamenta sulle quali vengono costruite. Si impregnano, quelle parole, anche di dolore. Perché quel mirare, quel godere, «Pur ti miro… pur ti godo…», sono costati cari. Perché è alto il prezzo da pagare (l’hanno pagato altri, non loro, dunque per loro va bene così…) è alto il prezzo da pagare per dire all’altro che è «mia vita… mio tesoro…». Quel prezzo non l’hanno pagato Poppea e Nerone, lei in sottoveste color perla, lui pantaloni dello smoking, camicia bianca aperta sul petto nudo. Perché alla fine (il duetto arriva al culmine dell’opera e si spegne, mentre si riaccendono le luci in sala, in un silenzio raggelante… lontano anni luce da un trionfale lieto fine… non ne ha davvero il sapore… viste le fondamenta sul quale si edifica), perché alla fine, tirata la riga dei conti e fatte le somme, sono stati altri a pagare. La moglie di lui, Ottavia, ripudiata. Il marito di lei, Ottone, mandato in esilio con l’amica (e complice… per amore) Drusilla. E poi c’è Seneca. Che è morto.

Perché «Or che Seneca è morto… cantiam cantiam Lucano…», canto (isterico nella sua insistita coloratura tutta in alto di tenore e controtenore) che diventa orgia, orgia dei sensi, orgia invasata della smania di potere… anche orgia dei corpi (bellissimi), quello di Poppea che si mette in mezzo tra quello di Nerone e quello di Lucano… Ted Huffman (il regista) non lascia dubbi… Poppea, Nerone e Lucano si scrutano, si attraggono, si accarezzano… sul tavolo dove si è decisa la morte di Seneca (e dove lui ha bevuto dopo aver dato l’annuncio ai discepoli di doversi suicidare), lungo, dolcissimo, preliminare tutto sulla musica di Monteverdi. E poi, inevitabilmente, fanno sesso, sesso a tre. Chiaramente, inequivocabilmente. Anche discretamente, uscendo dalla porta dalla quale (tutti) erano entrati all’inizio. Lei si toglie la sottoveste color perla, Nerone la camicia bianca, Lucano i pantaloni. E restano nudi. Mentre la musica si spegne e le luci in sala si riaccendono. A dirci che quello che accade ora (mentre ci viene dato il tempo della pausa… una bretzel, un calice di vino nel foyer dello Staatenhaus) non deve interessare noi che siamo lì, nella Saal 2 della casa “in fiera” dell’Oper Köln, per L’incoronazione di Poppea di Claudio Monteverdi, Die Krönung der Poppea c’è scritto sulle locandine, rigorosamente in tedesco.

Sesso a tre (ma in scena non c’è nulla di volgare, nulla di gratuito… tutto è accennato, delicato, fatto intuire… misuratissimo) sesso a tre a metà della storia, quando «Seneca è morto» e quando le trame di Nerone si stanno per compiere, ripudio, esilio… incoronazione di Poppea, nuova imperatrice al posto di Ottavia. Forse si decidono dietro quella porta nera. Piani che a noi non devono importare. Per ora. Li vedremo compiersi in quel finale «Pur ti miro…», mesto e sinistro. Quando tutti sono lì, attorno a Nerone e Poppea che si dicono il loro «Pur ti stringo, pur t’annodo… o mia vita o mio tesoro». Tra sedie e tavoli accatastati (unico elemento della scena, un palco nudo dove va in scena la vita nella sua durezza, di Johannes Schütz) ci sono tutti quelli che hanno pagato il prezzo di questa (falsa) felicità. Ci sono Ottavia, Ottone, Drusilla… c’è Seneca, che pure «è morto». Spettatori, come noi, dell’Incoronazione di Poppea. Di Claudio Monteverdi e (non meno) di Francesco Busenello, autore di un libretto dove ogni parola ha un senso, un andamento musicale (il recitar cantando dal quale tutto ebbe inizio), un peso specifico calibratissimo, un significato profondo sul quale meditare… La vertigine assoluta della dichiarazione d’amore di Nerone a Poppea… «Io non posso da te viver disgiunto se non si smembra la unità del punto» da far girare la testa. E la morale della Nutrice… «Nacqui serva, e morirò matrona… Se rinascessi un dì, vorrei nascer matrona e morir serva. Chi lascia le grandezze
piangendo a morte va. Ma, chi servendo sta, con più felice sorte,
come fin degli stenti ama la morte» cosa che nessun filosofo potrebbe dire meglio.

Spettatori. Loro come noi. Attori. Loro come noi. Perché sul palco si mette in scena la vita. Il palco nudo. Come in una prova, con le mezze luci in sala mentre inizia la musica. E mentre dalla porta nera che affaccia sui camerini entrano tutti, Poppea, Nerone, Ottavia, Ottone, Seneca, Drusilla, il Valletto, Lucano… i soldati, i familiari… Arnalta, la Nutrice e la Damigella (che sono una persona sola, un tenore, John Heuzenroeder, carattere perfetto per le due caricature tragicomiche, un po’ meno per la Damigella con l’effetto che la scena con il Valletto, che Monteverdi vuole delicata, vaporosa, sensuale, trasparente… perde la sua consistenza e il suo senso). Entrano i cantanti “che fanno…” Poppea, Nerone, Ottavia… cantanti “che fanno…” alla Pirandello dei Sei personaggi, alla Testori degli Scarrozzanti… “che fanno…” i personaggi. Tutti in scena. Sempre. Dall’inizio alla fine, illuminati o messi in penombra da Bertrand Couderc. Uno specchio per truccarsi, gli stand con i costumi (moderni, eleganti, disegnati da Astrid Klein) da cambiarsi a vista. Si inizia. Con una scommessa. Quella, a tre, tra Virtù, Fortuna e Amore… tre donne di oggi, una androgina in un tailleur rosa shocking e parrucca sfacciatamente bionda, Amore che vuole dimostrare che «’l mondo a’ cenni miei si muta» raccontando la storia di Nerone e Poppea.

Storia modernissima. Reincarnata in un oggi (la drammaturgia, sociale, politica è di Antonio Cuenca Ruiz) dove la virtù è «dissipata, disusata, abborrita, mal gradita, avvilita… già regina ora plebea» altra vertigine del libretto di Busenello. Un mondo che ha perso l’orientamento. Dove l’ago della bussola, grande, che incombe sulla scena (iconico marchio di fabbrica della Poppea di Huffman, coprodotta da Colonia insieme ad Aix-en-Provence, al Palau de les Arts di Valencia, Opéra de Rennes e Opéra de Toulon), gira come smagnetizzato, incapace di ritrovare il nord… di ritrovare un senso ai fatti della vita. A Ted Huffman bastano qualche tavolo e qualche sedia e quel grande tubo cilindrico mezzo bianco e mezzo nero che incombe sulla scena, fatto con i tubi arancioni delle fognature, ago di una bussola smagnetizzata… che non indica più la direzione ad un mondo dove il trash (rifiuto, scarto che scorre nelle fogne) detta legge, postato (con gli opportuni filtri che lo fanno sembrare oro luccicante) sui social, per catturare like… Un trash sconfinato nella politica, nella società, persino nella religione… A Huffman basta poco per restituire una storia senza tempo che “avviene” in scena senza orpelli, solo con la forza della recitazione. Perché in controluce alla Poppea di Monteverdi e Busenello vedi un mondo che quotidianamente tv e giornali ci raccontano… in controluce a Nerone vedi i dittatori di oggi, che “suicidano” gli oppositori per spianarsi la strada del consenso, che fanno guerra, che plasmano lo stato in base alle loro esigenze… in controluce a Poppea vedi chi (uomo o donna, non importa il genere) non guarda in faccia a nessuno pur di arrivare dove vuole (in Italia le chiamavano Olgettine ai tempi di Silvio Berlusconi… ma ogni parte politica ha le sue/i suoi…). In controluce a Ottone, che si lascia convincere da Ottavia a uccidere (senza riuscirci) Poppea, vedi i tanti (a volte ingenui) idealisti che si muovono sui tani fronti aperti oggi, l’ambiente, la pace, i diritti… e il gioco dei parallelismi, dei controluce può continuare…

Regia sull’amore. Regia politica (e il teatro tale deve essere, politico, che parla alla società dei temi che oggi la attraversano) quella di Huffman. Regia, tutta modellata sull’azione, sul gesto, sui rapporti tra i personaggi, nessuna sovrastruttura, solo la parola del recitar cantando. Regia. Come se nelle mani avesse un testo di prosa… e in Monteverdi (certo, come in Mozart, in Verdi…) la parola è fondamentale, scolpita nella musica, modellata sul suono. Un suono che dal podio (e dal cembalo) George Petrou restituisce antico, filologico, ancorato sulla partitura (a scapito di un’invenzione per la quale in Monteverdi c’è comunque spazio) che arriva intatta nella sua bellezza compiuta – Poppea è la più perfetta, la più matura della trilogia monteverdiana, già proiettata in avanti, germe e laboratorio del melodramma che verrà. Suono affidato ai puntualissimi musicisti della Gürzenich-Orchester Köln e a un continuo (dallo spiccato spirito “greco”, messo insieme da Petrou, che in alcune repliche ha ceduto podio e cembalo ad Alessandro Quarta e Bradley Wood) tra cembalo, orgel, regal, viola da gamba, tiorbe, liuti e l’arpa barocca “italiana” di Chiara Granata.

Regia tutta sulla parola grazie agli interpreti (molti quelli che hanno viaggiato tra i teatri che coproducono questa Poppea) che sono cantanti e attori bravissimi. Giovani. Molti giovanissimi. Come Nicolò Balducci, classe 1999, controtenore che è un Nerone dalla voce timbratissima e intonatissima, svettante in acuto, avvolgente e al tempo stesso tagliente, ideale per disegnare la fredda lucidità dell’imperatore nel perseguire il suo piano. Giovanissimi come Laurence Kilsby, classe 1998, tenore, impegnato come Soldato e Familiare di Seneca, ma soprattutto come Lucano, parte racchiusa in una scena, scena cuore dell’opera per la quale occorre un signor cantante, che tenga testa al protagonista… e Kilsby lo è, voce bella, agilità, tecnica da custodire e conservare intatta come oggi. Poppea ha la pasta vocale morbida e lucente di Elsa Benoit, capace di restituire con il giusto distacco (e per questo modernissima), ma anche con un inaspettato tocco di malinconia in una voce educatissima la donna che viene incoronata (più dal potere che dall’amore). Incisiva, vivace e vitale, presentissima e convincente Camille Poul, che si sdoppia tra Amore e Valletto. Alberto Miguélez Ruoco, controtenore anche lui, restituisce un ritratto a tinte tenui e delicate di Ottone. Dolente, ma non rassegnata, l’Ottavia di Adriana Bastidas-Gamboa, voce piena, dal colore scuro e avvolgente quella dell’artista dell’ensemble dell’Oper Köln. Di casa anche Lucas Singer, un Seneca dalla presenza vocale e scenica autorevole e composta, e l’istrionico John Heuzenroeder. Dell’internationales Opernstudio dell’Oper Köln fanno parte Maria Koroleva, Drusilla (e anche Fortuna) puntuale e molto musicale, Armando Elizondo e William Socolof, efficaci vocalmente e scenicamente.

Tutti lì, Ottavia ripudiata, Ottone esiliato, Seneca morto, tutti lì, nel finale, mentre in sala si riaccendono le luci e ci tirano dentro l’azione. Tutti attorno a Nerone e Poppea che si dicono il loro «Pur ti miro, pur ti godo… o mia vita o mio tesoro» – ma negli occhi, inevitabilmente, hai quella scena, discreta, delicata, ma chiara, inequivocabile, del sesso a tre, che getta un’ombra sinistra su quelle promesse (viste le fondamenta sul quale si edifica). Si riaccendono le luci e ci tirano dentro l’azione, Spettatori, noi come loro, di una storia senza tempo. Storia di una (falsa) felicità costruita su macerie umane.

Nelle foto @Matthias Jung L’incoronoazione di Poppea all’Oper Köln