Carmen, femminicidio in Arena

A Verona De Ana porta il sociale nell’opera di Bizet Protagonista Anna Goryachova. Dirige Ciampa

Le reti metalliche che Hugo De Ana mette sul palco nel terzo atto, quando il libretto indica invece le montagne dove si accampano i contrabbandieri, una certa impressione la fanno. Fanno venire in mente altre reti. Altre gabbie. Altre recinzioni per separare i confini. Quelle che la cronaca di oggi ci racconta quotidianamente, dal Messico a Betlemme. Separazioni che parlano di mondi a parte. Di chi è (messo) ai margini. Le camionette e le gip, i militari che fanno della violenza uno strumento di potere, potrebbero essere una fotografia di una zona qualsiasi di confine del nostro mondo.

Almeno sulla carta, almeno nelle intuizioni da cui ha preso avvio, la Carmen che venerdì 22 giugno ha inaugurato il festival lirico numero novantasei dell’Arena di Verona ha il sapore di una denuncia sociale. Distanziata nel tempo, certo. Perché De Ana, regista, scenografo e costumista argentino molto attivo in Italia, sceglie come cornice la Spagna dei primi anni Trenta, quella – come tutta l’Europa di allora – sull’orlo del baratro: di lì a poco sarebbe arrivata la dittatura del generale Franco, preannunciata da tensioni sociali. Che ci sono anche nell’Ottocento del racconto di Mérimée messo in musica da Georges Bizet. Che ci sono ancora oggi. Carmen diventa allora, ancora una volta, una denuncia di stranieri respinti, di lavoratori senza diritti, di donne uccise da chi a parole dice di amarle. E ascoltate di fonte a una poltrona vuota sulla quale a inizio serata sono state messe 32 rose rosse – tante sono state le donne vittime di femminicidio nei primi sei mesi del 2018 – le parole di Don José che pugnala la donna che ama suonano ancor più sinistre e inquietanti. De Ana prova a mettere il tema, i temi, sul tavolo. O meglio, sul palco dell’Arena. Ma poi non affonda il colpo. Non propone una lettura di vera denuncia sociale e politica in tempi di respingimenti. Si ferma a una cornice, quella della Spagna anni Trenta, appunto, che con grande maestria ricostruisce nei dettagli e insieme nella grandiosità (molte le concessioni alla spettacolarità come i fuochi d’artificio o le proiezioni sulle gradinate) che il pubblico chiede ad uno spettacolo in Arena.

L’altra sera erano 12mila, tra loro il presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati, il ministro dei Beni e delle attività culturali e del turismo Alberto Bonisoli e quello per la Famiglia e le disabilità Lorenzo Fontana (già vicesindaco di Verona). Serata fiume, patita appena dopo le 21 (i metal detector ai varchi di ingresso hanno inevitabilmente rallentato l’accesso all’anfiteatro) e chiusa ben oltre l’1.30 di notte a 18 gradi di temperatura. Aperta dalle parole del neosovrintendente Cecilia Gasdia che ha ringraziato tutti i lavoratori della fondazione Arena per l’impegno dimostrato in questa ripartenza dell’istituzione dopo il commissariamento; che ha ricordato a cinquant’anni dalla morte il maestro Tullio Serafin, il direttore che nel 1913 portò per la prima volta con Aida la lirica sotto le stelle a Verona; che ha dato il la all’Inno di Mameli con il messaggio del presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Chiusa, la lunga serata, da dieci minuti di applausi.

Una Carmen più sindacalista che donna fatale, più pasionaria che passionale quella immaginata da De Ana con i partigiani che fronteggiano i militari, con i contrabbandieri guardati a vista da inquietanti figure che li seguono dall’alto con le torce, con Micaela che arriva in bicicletta, come una staffetta, a cercare Don José. E, naturalmente, con i toreri: un’arena nell’Arena, nella quale si consuma la corrida e un toro morto viene trascinato i cerchio dai cavalli, apre e chiude il nuovo allestimento del regista argentino (lo spettacolo inizia dalla fine, dalla fucilazione di Don José) che manda in pensione dopo ventitrè anni quello di Franco Zeffirelli. Ma l’estetica di De Ana è anche un po’ (tanto) zeffirelliana, nel taglio cinematografico della visione d’insieme e soprattutto nella chiara citazione dell’allestimento del regista fiorentino nei grandi manifesti che nel secondo atto evocano la taverna di Lillas Pastia. Cornice a volte un po’ troppo folkloristica come nel quarto atto con i coriandoli sparati in aria durante la sfilata dei toreri (sulla quale, come per la Marcia di Radetzky al Concerto di Capodanno di Vienna il pubblico batte le mani a ritmo di musica) che prima hanno un effetto kitsch, ma poi straniante, decadente e allo stesso tempo poetico nel loro librarsi in volo spinti dal vento nel drammatico duetto finale tra Carmen  e Don José.

Che sono Anna Goryachova e Brian Jadge. Lei voce scura e seducente, lui timbro squillante e sicuro. Protagonisti di una lettura intima, quasi belcantistica della partitura di Bizet, mai urlata ed esibita, ma a volte senza il piglio che in alcuni momenti occorrerebbe per far salire la temperatura emotiva. Compito nel quale, invece, riesce bene Mariangela Sicilia, interprete raffinata e intelligente, che regala mille sfumature a Micaela con la sua voce nella quale c’è una malinconia che arriva dritta al cuore. Alexander Vinogradov offre la sua voce profonda al torero Escamillo. Ruth Inesta e Arina Alexeeva sono Frasquita e Mercedes, Davide Fersini ed Enrico Casari Dancairo e Remendado, Luca Dall’Amico e Biagio Pizzuti Zuniga e Morales.

Lettura raffinata (a volte quasi fin troppo per gli spazi aperti areniani dove non tutti i dettagli si avvertono) quella che offre dal podio Francesco Ivan Ciampa, che restituisce un quadro fatto di tempi e volumi insoliti, fraseggi originali che a volte, però, scontano uno scollamento tra orchestra e palcoscenico.

Nelle foto Ennevi Arena di Verona la Carmen di Georges Bizet

La mia intervista sul quotidiano Avvenire alla sovrintendente Cecilia Gasdia