Al Teatro Municipale di Piacenza l’ultima opera di Puccini riproposta per il centenario della morte del compositore Allestimento modenese del 2003, sul podio Marco Guidarini
Giacomo Puccini avrebbe potuto intitolarla benissimo Liù. E forse, chissà, il compositore toscano ci ha anche pensato, sensibile com’era al fascino fragile delle donne fragili (tutte creature effimere, la cui vita dura il tempo di un melodramma le eroine di Puccini, Anna e Manon, Mimì e Butterfly, Angelica e, appunto, Liù). Avrebbe potuto intitolarla Liù e non Turandot, come poi è stato (diventando un marchio subito identificabile), calco quasi perfetto della Turandot di Carlo Gozzi, la fiaba teatrale alla quale Puccini si ispirò per la sua ultima opera – calco perfetto nel titolo perché il racconto musicale di Puccini ha l’ossatura dell’originale, ma poi segue una drammaturgia tutta sua. Drammaturgia che, oltre la fiaba, vuole raccontare la violenza sulle donne, la sete di potere, il sacrifico d’amore. Il sacrificio di Liù, appunto. Che Giuseppe Frigeni mette al centro della “sua” Turandot. Spettacolo datato 2003, nato per Modena e ripartito, ora, proprio da Modena, in questo “recupero” di un progetto programmato per il 2020, stroncato sul nascere dal Covid – andò in scena solo al Regio di Parma, titolo inaugurale di Parma capitale italiana della cultura (altro progetto archiviato causa pandemia). Recupero nell’anno pucciniano, per i cento anni dalla morte del compositore regia, scene, coreografia e luci sono firmate da Figgeni (regfia e coreografia sono riprese da Marina Frigeni) mentre i costumi sono di Amélie Haas-
Turandot partita da Modena, approdata sul palco del Municipale di Piacenza, nel tour dei teatri dell’Emilia Romagna. Turandot, anche se al centro c’è Liù. Liù che suggerisce a Calaf – e diciamolo, il personaggio tanto popolare per il suo Vincerò, non ne esce bene, determinato a risolvere gli enigmi per avere non tanto il cuore, ma il trono di Turandot… Liù che suggerisce a Calaf la soluzione degli enigmi, il «sangue», la «speranza» e «Turandot». Succede nel cuore dell’opera, la scena della prova collocata da Puccini al centro del racconto. Liù suggerisce, Calaf risolve. E ricambia l’aiuto con il suo ruvido «tu non sai nulla, schiava» quando tutti vogliono sapere il suo nome… «il nome mio nessun saprà»… E lei, Liù, muore. Si uccide per non dire il nome dell’uomo che ha sempre amato in segreto. E resta lì, cadavere, testimone muto dell’amore che si scioglie tra Calaf e Turandot.
Turandot. Anche lei non ne esce bene. A parte l’antipatia che trasuda dal libretto… lancia un gioco (mortale, perché se perdi ti tagliano la testa) che come premio ha la sua mano, uno lo risolve e lei non vuole mantenere la parola… A parte l’antipatia, alla fine questa Turandot resta a terra, prostrata e non trionfante, mentre Calaf (che l’ha usata) prende il potere. Questa Turandot. La Turandot secondo Frigeni. Spettacolo lineare, essenziale, quasi in forma di concerto (il coro è sempre ai lati della pedana su cui si svolge l’azione, ci sale solo alla fine per cantare il suo «Gloria a te…!»), dove ci sono suggestioni di altre Turandot. Un po’ Ronconi (la bellissima, essenziale versione senza scene per il Regio di Torino) e un po’ Bob Wilson, nei controluce efficaci e nell’azione raggelata chiesta agli interpreti. Lineare, essenziale, ma nulla di più. Niente scavo su chi potrebbe essere oggi Turandot, niente riflessione su tematiche forti, che pure ci sono, come la violenza sulle donne (i soprusi subiti dall’ava, la principessa Lo-u-Ling), la gestione del potere (Turandot è una tiranna, il padre Altoum non può nulla di fronte alla sua roulette russa degli indovinelli…)… Fiaba, certo, ma anche vita. Perché le fiabe la raccontano sempre. Anche con la loro ruvidezza, la loro dose di paura. Perché la sofferenza tempra e fa crescere. Turandot, fiaba teatrale che, però, innesca un cortocircuito tra realtà e finzione nella trasposizione in musica (su libretto di Giuseppe Adami e Renato Simoni) che Giacomo Puccini ha fatto della fiaba di Gozzi. Turandot ultima opera del compositore toscano, lasciata incompiuta e poi completata da Franco Alfano con Arturo Toscanini che alla prima del 26 aprile del 1926 al Teatro alla Scala posa la bacchetta al termine della scena della morte di Liù.
Liù, come avrebbe potuto intitolarsi, forse, Turandot. Che a Piacenza ha visto Marco Guidarini sul podio dell’Orchestra dell’Emilia Romagna Arturo Toscanini (ponte ideale, nel nome del direttore di Parma, con la prima del 1926). Direzione puntuale, attenta alla scrittura pucciniana, a servizio del canto. Mettere insieme un cast per Turandot non è serto semplice (anche se il titolo non manca nei cartelloni dei teatri), perché ci vogliono le “voci”. Che vuol dire trecnica, canto, intelligenza musicale… non solo torrenti di suono (quante Turandot urlanti, quanti Calaf stentorei si ascoltano…). Leah Gordon ha volume e acuti (a volte l’intonazione traballa, però, il canto non è abbastanza sfogato e sostenuto) per disegnare una Turandot che piace al pubblico. A Calaf offre il suo squillo (ma non sempre sostenuto e sfogato a dovere) e la sua esperienza di interporrete Angelo Villari che però, arriva forse affaticato al fatidico Nessun dorma, smorza e accorcia gli acuti, quasi intimorito di fronte a una hit diventata ormai pop come il Vincerò. L’applauso di ordinanza (quasi riflesso incondizionato del pubblico alla melodia che tutti hanno canticchiato almeno una volta) c’è, ma qualcosa poi non riparte, così la scena della morte di Liù passa via e il duetto con Turandot perde smalto (certo, la scrittura di Alfano non è molto ispirata). A Liù, che doveva essere Vittoria Yeo, ha dato voce (a tratti fragile come il personaggio) Jaquelina Livieri.
Matteo Mezzaro, Pong, guida il terzetto dei sapienti (Ping è Fabio Previati, Pang Saverio Pugliese), mentre Giacomo Prestia mette la sua lunga militanza scenica nel restituire un Timur provato dalla vita. Vita che resta sullo sfondo di questo spettacolo, lineare, essenziale. Vita che si può solo immaginare in controluce. Che si può osservare, quasi si fosse spettatori delle vite degli altri, come fa il coro (uniti il Lirico di Modena e quello del Municipale di Piacenza, insieme alle voci bianche del Comunale di Modena). Ma con le quali non ci si sporca le mani. Come dovrebbe essere. Anche nelle fiabe.
Nelle foto @Rolando Paolo Guerzoni Turandot