Scomparso a 82 anni il musicista milanese che ha fatto la storia con le sue interpretazioni al pianoforte e le sue battaglie civili
«Sono un non credente. Le domande sul domani? Mi limito a dire che credo nella scienza». Schivo, come lo vedevi quando con il suo passo deciso, ma sempre sul crinale, entrava sul palcoscenico, veloce verso il suo pianoforte… schivo Maurizio Pollini si faceva silenzioso, chiudendosi ancor di più a riccio quando gli facevi la domanda delle domande. Quella sulla vita oltre la morte. Claudio Abbado, l’amico di sempre, nel suo ultimo tratto di vita aveva ritrovato – lo aveva raccontato lui stesso – una dimensione spirituale. Quella dimensione che il pianista milanese metteva nella musica. Andando veloce, a testa bassa verso il pianoforte. Dove sul leggio non c’era nessuna partitura. Erano tutte nella sua testa le note di Frederic Chopin e di Ludwig van Beethoven, ma anche quelle di Luigi Nono, Pierre Boulez e Karl Heinz Stockhausen.
Gli amici di sempre di Pollini che si è spento sabato 23 marzo a Milano. Ottantadue anni compiuti il 5 gennaio. Una malattia che lo ha visto spegnersi progressivamente. L’ultima volta in pubblico, a fine novembre, alla Fondazione Prada per la Norma di Vincenzo Bellini diretta da Riccardo Muti. Che vedendolo in prima fila mollò la bacchetta e gli corse incontro. «Maurizio, non mi hai detto che saresti venuto». Un lungo abbraccio, dal calore partenopeo, che Pollini prese senza fiatare. Schivo, appunto, nel suo essere antieroe. Pur avendo segnato la storia del secondo Novecento con le sue interpretazioni.
Milanese, classe 1942, figlio della buona borghesia meneghina, il padre Gino, architetto razionalista, la madre Renata, sorella di Fausto Melotti. Il talento innato. Gli studi prima con Carlo Lonati e poi con Carlo Vidusso al Conservatorio di Milano. Il secondo posto al Concorso di Ginevra, il primo al Pozzoli di Seregno, ma soprattutto la consacrazione nel 1960 con il trionfo allo Chopin di Varsavia e la profezia di Arthur Rubinstein, «Questo giovane suona tecnicamente meglio di tutti noi». Tecnica infallibile quella di Pollini sposato da sempre con la collega pianista Marilisa Marzotto, conosciuta a 11 anni, proprio a lezione di pianoforte. Sempre a fianco del marito, in platea nei teatri nelle sale da concerto in tutto il mondo, dal Teatro alla Scala di Milano – che ha annunciato la scomparsa di Pollini e che martedì 26 ospiterà la camera ardente del pianista – alla Carnagie hall di New York, dal Musikverein di Vienna alla Philharmonie di Berlino. Dove era spesso accanto all’amico Abbado.
«È difficile per me parlare di Claudio. Mi manca e non riesco a farmi una ragione della sua assenza. Tutto è avvenuto troppo rapidamente. L’ho visto anche prima che morisse, provato nel fisico, ma con tanta grinta e desiderio di progettare nuove avventure musicali» diceva Pollini parlando del direttore milanese. Con il quale ha scritto una pagina fondamentale della storia del Novecento musicale. Fatto di grandi interpretazioni, naturalmente. Ma anche di impegno civile. Perché l’immagine più potente di Maurizio Pollini, immagine fisica di una foto in bianco e nero, ma soprattutto immagine politica scritta nei complessi rapporti internazionali, l’immagine più potente è quella della sera del 19 dicembre 1972 sul palco della Sala Verdi del Conservatorio di Milano. Pollini, trentenne, scuote la palatea della Società del Quartetto, platea borghese come il mondo nel quale Pollini era cresciuto, con una lettera contro la guerra in Vietnam. Poche ore prima i mille morti nei bombardamenti degli Stati Uniti su Hanoi, stigmatizzati in quelle poche righe (che Pollini non riuscì a terminare di leggere, così come dovette uscire di scena senza poter suonare una nota…) firmate da lui, Abbado, Luigi Nono, Bruno Canino, Giacomo Manzoni, Piero Farulli, Paolo Borciani… tutti compagni di Pollini nel fare della musica anche un momento civile.
I concerti nelle fabbriche ai tempi della Scala di Abbado, anni Settanta, anni di lotte, anche armate come racconta la storia. Lotte portate avanti n musica da Pollini. «Ma in politica non mi metterei mai» diceva, nella consapevolezza «che la politica intesa come interesse per la vita pubblica deve essere tra le priorità di ogni cittadino». Sensibile ai temi ambientali Pollini, «se non azzeriamo le emissioni di gas la terra morirà. Come rimanere indifferenti?». Sensibile alla necessità della pace. «Occorre dire con forza, oggi più che mai, un fermo no a tutte le forme di violenza» raccontava il pianista, scomparso, in silenzio, mentre sul mondo si allunga l’ombra della guerra, la Russia e l’Ucraina, il Medioriente…
Silenzio, come si dice in questi casi, anche nel mondo nella musica. Unito nel cordoglio e nel ricordo di un grande musicista. «Quando ascolto le mie incisioni di qualche anno fa lo faccio come se fossero opera di un’altra persona. Con un certo distacco» sorrideva Pollini che con la sua storica casa discografica, la Deutsche grammophon che lo ha visto spesso ai primi posti della classifica ei dischi pop più venduti con il suo Chopin, ha lasciato traccia della sua arte. Che dal vivo era imprevedibile. Infallibile nella tecnica (certo, le ultime esibizioni qualche ruggine la denunciavano), cangiante nell’interpretazione, nel rileggere, anche in modo diametralmente opposto, a distanza di anni, la stessa pagina. Studiata e ristudiata da Pollini nel silenzio della sua stanza. Perché, rifletteva, «quando si suona una musica si è assolutamente giovani. Si deve esserlo. Un musicista può essere anziano d’età, ma quando si siede al pianoforte deve metter da parte l’anagrafe. Altrimenti è finito». Giovane ora, eternamente, Pollini. Con il suo Chopin, il suo Beethoven , il suo Nono (con il quale amava giocare a tennis) e il suo Stockhausen.
Articolo pubblicato su Avvenire del 24 marzo 2024