Chailly, ecco il mio Attila antieroe tormentato

Il direttore milanese inaugura con Verdi la stagione della Scala «Un uomo debole e perdente lontano dall’immagine storica» Con il regista Livermore un vivace confronto in nome dell’arte

Non aspettatevi il barbaro che raccontano i libri di storia. Feroce, sì, perché uccide. Anche spietato. «Ma tormentato, pieno di dubbi e incertezze. Un uomo che corre in solitaria verso un baratro di morte». È questo l’aspetto di Attila che affascina di più Riccardo Chailly. «Che è poi lo stesso risvolto del personaggio che interessava a Giuseppe Verdi quando ha deciso di mettere in musica, reinventandola, la vicenda del re degli Unni» racconta il direttore d’orchestra milanese che il 7 dicembre alle 18 inaugura la nuova stagione del Teatro alla Scala proprio con Attila. «Secondo tassello della trilogia giovanile verdiana, proseguimento di un percorso iniziato con la Giovanna d’Arco del 2015 e che si chiuderà tra due anni con Mabcbeth. E se un ciclo si chiuderà, non finirà cero la riflessione su Verdi: arriveranno anche i capolavori della maturità».

Cosa significa, maestro Chailly, proporre un’opera come Attila oggi, nel nostro contesto sociale dove i timori di nuovi invasori vengono branditi da certa politica?

«Significa dire ancora una volta l’attualità di Verdi. La scelta del compositore di raccontare la vicenda di un condottiero barbaro che viene ricordato dalla storia per il panico e il terrore che portava con sé non deve, però, trarre in inganno facendo pensare ad un personaggio tutto d’un pezzo: non era l’aspetto che interessava a Verdi che nella sua musica tratteggia un Attila debole e perdente. Solo, perché tutti lo tradiranno, Odabella, Ezio e Foresto, coalizzati per avere vendetta. Una vendetta che è la vergine romana a compiere, unico omicidio nelle opere di Verdi compiuto da una donna. Una vendetta che guida tutte le azioni di Odabella che salva il re da un avvelenamento per poi ucciderlo di sua mano per vendicare la morte del padre. I timori e le incertezze di Attila sono raccontate con i colori scuri dell’orchestra, la cosiddetta tinta verdiana che il compositore chiedeva ai suoi esecutori».

Un messaggio che la musica lancia in un giorno nel quale tutti guardano alla Scala, evento non scolo artistico, ma anche sociale.

«Da milanese so l’importanza del 7 dicembre, una tradizione iniziata nel 1951 con I vespri siciliani, sempre Verdi, con Maria Callas. Un avvenimento che oggi raggiunge tutto il mondo anche grazie all’amplificazione della tv che trasmette l’opera in diretta. Al di là di Aida, che ho diretto nel 2006, mi interessa accendere le luci su un Verdi alternativo, prima Giovanna d’Arco, ora Attila. Arriveremo a Macbeth il cui mondo sonoro mi ha sempre affascinato. Titolo, quello ispirato a Shakespeare, che non sarebbe quel capolavoro che è senza Attila, una partitura sperimentale dove Verdi si inoltra in un percorso dove l’orchestra assume progressivamente un ruolo sempre più centrale, uno spessore sinfonico inedito, quasi un commento ai fatti che succedono in scena e ai sentimenti che vivono i personaggi».

Attila rivela, dunque, il Verdi che verrà?

«Indubbiamente. Certo è un Verdi di 33 anni, ancora con le forme chiuse di arie e cabalette della tradizione. Ma la scrittura orchestrale è quella dei grandi capolavori, presente, in ogni battuta del racconto scenico. L’opera inizia già con tinte scure che dicono che Attila è destinato a perdere: l’arpeggio discendente di fagotti e violoncelli che apre il preludio presenta le stesse note che, trasportate una quinta sopra, canteranno i druidi nella festa del secondo atto ammonendo Attila: O re fatale è seder co’ lo stranio. È significativo che queste siano le uniche note del preludio che poi tornano durante l’opera».

Essere sceso a patti con lo straniero… Come non pensare alla cronaca che quotidianamente i giornali ci raccontano. Oggi chi potrebbe essere Attila?

«Nelle sue nevrosi, nelle sue insicurezze, nelle sue presunte certezze è un personaggio atipico per i tempi che stiamo vivendo dove l’uomo forte è quello che domina, uomini tutti d’un pezzo che, in realtà, nascondono gradi interrogativi. Mi affascina la fragilità di Attila che Verdi racconta con tre profili timbrici, con tre caratteri diversissimi tra loro: una sonorità militare, una ecclesiastica e una soprannaturale. Piani che si intrecciano, si sovrappongono, si spezzano interrompendosi a vicenda per dare proprio quel senso di incertezza che spiazza: pensiamo a quello che è il momento spiritualmente più alto, la fine del primo atto quando il canto mistico da fuori scena arriva a interrompere il canto di guerra. Un canto che annuncia Papa Leone, un basso scuro: Verdi ha voluto così dipingere la forza della Chiesa che ha il coraggio di sfidare l’invasore e impedire la devastazione. In questo duetto tra due bassi trovo l’anticipazione di un altro grande duetto tra due voci profonde, quello tra Filippo e l’Inquisitore nel Don Carlo».

Ci sono poi le cinque battute scritte da Gioachino Rossini come introduzione al terzetto finale.

«Tutte le volte che faccio qualcosa che esce dalla consuetudine esecutiva dico che è un’utile alternativa, che va conosciuta e ascoltata almeno una volta. Per quel che riguarda queste cinque battute ora che le ho eseguite non potrei più farne a meno. Una passaggio per me imprescindibile ogni volta che dirigerò Attila. L’edizione critica redatta nel 2012 da Ricordi lascia agli interpreti la possibilità di eseguire o meno queste cinque battute, note sublimi che danno un senso di sospensione prima di una della pagine più belle di questa partitura. Il fatto che Rossini nei suoi ultimi anni dedichi del tempo a Verdi dice ancora di più la grandezza del compositore di Busseto, stimato già allora da illustri colleghi».

La regia di Davide Livermore porta le vicende dal quinto secolo del libretto all’Italia della lotta partigiana. Regia ricalibrata dopo il caso della scena controversa con l’abbattimento di una statua della Madonna: non ci sarà, al suo posto cadrà un idolo d’oro.

«Livermore parte sempre dalla musica. Una nuova produzione è tale perché dovrebbe proporre qualcosa di nuovo, appunto. Una creazione artistica, poi, non può prescindere dalla discussione e dal confronto tra chi è coinvolto. Fare teatro essendo consenzienti su tutto non porta a nulla di innovativo e veramente creativo. Discussioni ne abbiamo avute, non lo nascondo, ma siamo arrivati a un punto di vista comune attraverso la mediazione».

Intervista pubblicata sul quotidiano Avvenire del 7 dicembre 2018

Nelle foto @Brescia/Amisano Teatro alla Scala Riccardo Chailly e Attila di Giuseppe Verdi