Scala, la luce di Mahler nell’Ottava di Chailly

La Sinfonia dei mille mancava dal Piermarini dal 1970 Chailly la dirige con 370 musicisti  scaligeri e della Fenice

Un rombo, come di vento che si abbatte gagliardo. È lo Spirito che soffia all’inizio dell’Ottava sinfonia in mi bemolle maggiore di Gustav Mahler. Un accordo di organo – e chi lo suona sta due piano sotto l’orchestra, nel ventre del teatro, collegato con il podio con un circuito video – e il coro che a tutta forza invoca «Veni! Veni creator spiritus». Orchestra piena. Pienissima. E lo senti il vento, che è come quello che ti sbatte in faccia sugli scogli mentre gli spruzzi d’acqua ti bagnano il viso. Lo senti nella forza della musica di Mahler nella platea del Teatro alla Scala. Pienissima per l’occasione – tre repliche tutte esaurite tra abbonati alla stagione sinfonica e ascoltatori che non si sono lasciati sfuggire l’occasione. Perché la pagina – la cosiddetta la Sinfonia dei mille per l’organico sterminato che richiede, doppio coro, voci bianche, grande orchestra – torna dopo 53 anni al Piermarini. La riporta Riccardo Chailly che dirige l’Ottava per l’ottava volta nella sua carriera: tre volte a Milano, due ad Amsterdam, una a Lipsia, una a Lucerna.

Il mondo invoca lo Spirito. Oggi potremmo dire invoca la pace. La chiede con forza in quell’«Accende lumen sensibus», carnale nelle intenzioni di Mahler. Incarnato nella lettura di Chailly. Perché la fede passa anche attraverso l’esperienza sensoriale, di vita. «A…» e una breve, ma interminabile pausa prima del «…ccende lumen», a dire il timore e il tremore con il quale l’uomo chiede a Dio – che Mahler qui nomina esplicitamente – il dono dello Spirito. «Infondi l’amore nei nostri cuori». Non solo. «Pacemque dones protinus», donaci la pace finalmente. Sottolineato chiaro dal gesto di Chailly. Che in quel 1970, cinquantatré anni fa, l’ultima volta che l’Ottava si è sentita alla Scala (ci ha provato Claudio Abbado a riportarla per il suo ritorno, nel famoso concerto in cambio di alberi da piantare in città, ma poi si cambiò il tiro, troppo complessa e si fece la Sesta di Mahler), in quel 1970 Chailly aveva 17 anni. E c’era. «Una mattina entrai alla Scala dove Seiji Ozawa stava provando l’Ottava. Non diceva una parola, si toccava la tesa per dire “da capo”. Ricordo ancora l’emozione viscerale di ascoltare quella musica che non conoscevo. Alla fine corsi da Ricordi a comprare la partitura». La stessa sulla quale oggi ha ripercorso quel viaggio unico nella storia della musica che è l’Ottava di Mahler. Una partitura che ha un andamento inconsueto per una sinfonia che penseremmo solo musicale: l’Ottava è tutta modellata sulla parola, prima l’inno del Veni Creator di Rabano Mauro, poi la scena finale del Faust di Johann Wolfgang Goethe.

Quella scena che Mahler descrive in musica nell’incipit della seconda parte della sinfonia, mettendo in musica – qui e più avanti quando “racconta” il volo della Mater Gloriosa – anche le didascalie. «Burroni montani. Foresta, rupi, solitudine. Santi anacoreti, distribuiti in gruppi sul versante del monte, tra i dirupi» lo scenario che è l’anticamera del paradiso. Anticamera, purgatorio grigio. Perché qui non c’è la luce sfolgorante del paradiso – quella ridondante del Mefistofele di Boito o quella trasparente e tersa del Fausti di Gounod, quella inqueta della Damnation de Faust di Berlioz o quella tutta intellettuale delle Scene del Faust di Goethe di Schuumann, per limitarci alle partiture che hanno tradotto in musica il capolavoro dello scrittore tedesco. Anche se Chailly spiega che «oltre alla grandezza dell’invenzione musicale, qui Mahler mette una luce che nessun’altra delle sue sinfonie ha, il compositore per una volta pensa in modo positivo e trascende la negatività che solitamente permea le sue pagine».

È vero. Ma quella dell’Ottava sembra quasi una luce riflessa. Quella che arriva da una fessura. Perché il paradiso è oltre. È oltre l’umano che a noi è dato sperimentare. È là dove il Doctor Marianus ci invita a guardare, nel suo Blicket auf, nel suo invito ad alzare «lo sguardo verso colui che salva». Mahler ce lo racconta così il Paradiso, attraverso gli occhi di chi ha vissuto, ha sofferto, ha peccato, ma alla fine viene salvato per grazia, perché la sua ricerca è stata sempre tesa all’Infinito. Quella grazia che per il Doctor Marianus, per Faust, invocano la Magna Peccatrix, la Mulier Samaritana e la Maria Aegyptiaca, le peccatrici del Vangelo toccate a loro volta dalla grazia, perdonate da Cristo che ha posato su loro il suo sguardo. La Magna Peccatrix, la Maddalena che con le sue lacrime ha lavato i piedi al Signore e glieli ha asciugati con i suoi capelli e li ha profumati con un balsamo preziosissimo. La Samaritana che ha attinto acqua al pozzo della vita, un’acqua che disseta per l’eternità. La Maria che era tra le donne che hanno trovato il sepolcro vuoto. Insieme a una delle penitenti – un tempo chiamata Margherita, ci dice Mahler – invocano la Mater Gloriosa. Uno dei momenti più alti dell’Ottava.

Chailly la dirige con una partecipazione totale, immerso completamente nel mondo mahleriano che domina con grande intelligenza musicale e che restituisce trascinando nella sua lettura tutti i 370 musicisti stipati sul palco, avvolto dalla nuova conchiglia acustica in okumé, un legno delle foreste tropicali dell’Africa occidentale, fono riflettente, anti repellente e tra i più ignifughi, un esercito musicale: i 129 musicisti dell’orchestra del Teatro alla Scala, le 105 voci del coro scaligero diretto da Alberto Malazzi e le 72 del coro del Teatro La Fenice di Venezia diretto da Alfonso Caiani insieme ai cinquanta ragazzi delle voci bianche scaligere (perfette, intonatissime, commoventi) di Bruno Casoni e i solisti Ricarda Merbeth, Polina Pastirchak, Regula Mühlemann, Wiebke Lehmkuhl, Okka van der Damerau, Klaus Florian Vogt, Micael Volle e Ain Anger – meglio le donne che gli uomini e poi il lusso di avere una fuoriclasse come Regula Mühlemann per dire, con la sua voce di luce e cristallo, la frase (una sola, trenta secondi nel mare dell’ora e venti della sinfonia) della Mater Gloriosa, «Vieni! Levati alle più altre sfere, se ha presentimento di te ti seguirà» lanciata dall’alto della gradinata del coro.

«Una pagina emotivamente molto coinvolgente e il rischio è di farsi travolgere da questa onda emotiva. Non me lo posso permettere perché devo tenere insieme questo vasto organico, tenuto conto che l’ultimo corista, collocato in fondo al palco in decima fila, è distante dal podio più di trenta metri. Per questo mi impongo di tenere una certa distanza perché l’Ottava è un pezzo che stordisce acusticamente ed emotivamente. Chi ascolta, invece, può lasciarsi andare a questa emozione» riflette Chailly raccontando poi che «ogni volta mi commuovo ascoltando la purezza e la luce del Gloria del primo movimento affidato al coro di ragazzi. Quando poi Doctor Marianus dice Blicket auf, ci invita ad alzare in alto lo sguardo, è un momento in cui ci si stacca dalla terra, passaggio che prelude al finale, quando in 370 eseguono un pianissimo sulle parole Alles vergängliche e quando Mahler ci porta in una dimensione ultraterrena, facendoci guardare oltre la vita».

Facendoci guardare oltre la fessura di luce che la musica di Mahler ci rivela. Nella sua scrittura contrappuntistica, che Chailly tiene in punta di bacchetta. Nel disegno delle voci spinte all’insù in acuti vertiginosi (le note svettanti della Merbeth e della Pastirchak), dispiegate come ali sicure che ti portano in alto (l’impasto morbido e avvolgente della Lehmkuhl e della Van der Damerau) o avvolte di mistero per introdurci all’Infinito (i colori bruniti di Volle e di Agner). Nel racconto, tutto umano, seppur fatto con parole alte e intrise di spiritualità: il Veni Creator è un inno liturgico avvolto da incenso e fumo di candele, il finale del Faust una pala d’altare affollata di figure tutte protese verso l’alto. E così li restituisce Chailly, nella loro diversità che nel disegno musicale di Mahler diventa unitarietà – gli ottoni che aprono la sinfonia tornano alla fine con il tema inconfondibile del Veni Creator e con il suo soffio di vento. Sigillo di un viaggio che è anche un perenne ritorno. All’uomo.

Nelle foto @Brescia/Amisano Teatro alla Scala l’Ottava di Mahler diretta da Riccardo Chailly