Scala, l’eterno ritorno della Bohème di Zeffirelli

Per celebrare i 100 anni dalla nascita del grande regista riecco l’allestimento nato nel 1963 dell’opera di Puccini Cantano Rebeka, De Tommaso, Micheletti e Lungu

Era il 1963. La sera del 31 gennaio. Franco Zeffirelli non aveva ancora quarant’anni, li avrebbe compiuti di lì a qualche giorno, il 12 febbraio. Sul palco del Teatro alla Scala andava in scena La Bohème di Giacomo Puccini. Protagonisti Mirella Freni e Gianni Raimondi. Serata di quelle che oggi chiamiamo (giustamente) storiche. Herbert von Karajan dal podio dà l’attacco all’allegria sonora che apre il secondo quadro del melodramma. E sul palcoscenico, appena il sipario di velluto rosso del Piermarini si alza veloce, si materializza il Quartiere Latino di Parigi. Parte l’applauso. Che saluta la folla che gira tra le bancarelle. «Se dovesse cadere uno spillo non arriva a terra» dicevano i macchinisti, vista la gran ressa di coristi e comparse. Un asinello tira il carretto dei giocattoli di Parpignol. Un attimo. Le bancarelle scorrono veloci in quinta ed ecco il Caffé Momus. Tavolini e sedie, un bancone pieno di bottiglie e bicchieri. Sopra ci sono le case di Parigi. E altra folla che cammina. Poi entra Musetta, su un calesse trainato da un cavallo nero. «Ohhh…». Immagine fedelissima alla didascalia del libretto di Illica e Giacosa. «Un crocicchio di vie: nel largo vi prende forma di piazzale: botteghe, venditori di ogni genere; da un lato il Caffè Momus». Immagine potente. Moderna, modernissima per il teatro lirico del 1963. Immagine che ha fatto la storia del teatro.

«Perché quella Bohème è stato l’allestimento più fortunato della mia carriera» diceva Franco Zeffirelli andando con la mente a quella sera del 31 gennaio, quando andava in scena per la prima volta il suo allestimento dell’opera pucciniana. Che oggi, a sessant’anni è ancora in repertorio al Teatro alla Scala. Nessun sovrintendente ha mai osato commissionare a un regista una nuova versione… alla Scala Bohéme è solo quella di Zeffirelli, con la soffitta con i muri ammuffiti e le tele dei quadri di Marcello. Il Quartiere Latino che ad ogni aprirsi di sipario fa partire l’applauso. La Barriera d’Enfer del terzo quadro immersa in un’alba livida di neve – Zeffirelli mise un velatino in proscenio, per dare l’idea dell’aria umida e per sfocare le immagini. Andata in scena, quella Bohème 234 volte (questi i numeri di Milano, ai quali si devono aggiungere le repliche in tournée). Domenica 26 marzo la replica numero 235. Ultima di questa ripresa che la Scala dedica alla memoria del regista fiorentino, «Nel centenario della nascita di Franco Zeffirelli» c’è scritto in evidenza, in carattere rosso, sulle locandine della Scala che, sino al 31 agosto, ospita al Museo teatrale la mostra Zeffirelli, gli anni alla Scala a cura di Vittoria Crespi Morbio.

Oggi sul palco la magia del Quartiere Latino e la poesia malinconica e struggente della Barriera d’Enfer sono le stesse di sempre, anche se la ripresa di Marco Gandini non sempre riesce a restituire questa poesia delle piccole cose e lo scavo psicologico (sì, anche se tanti pensano che il regista fosse solo un decoratore, in realtà scolpiva sulla musica i caratteri) dei personaggi che Zeffirelli (che ancora nel 2012 e nel 2015 aveva partecipato al riallestimento) tratteggiava con piccoli gesti, tutti sulla musica – un esempio per tutti, quando Mimì sviene Rodolfo per farla riprendere le spruzza in faccia gocce d’acqua che nella musica senti nei pizzicati degli archi e ad ogni pizzicato Zeffirelli metteva un gesto delle dita…

In questa ripresa scaligera sul podio c’è la sudcoreana Eun Sun Kim, guida della Los Angeles Opera, qui, però in evidente difficoltà tanto nel restituire Puccini oltre i puccinismi (i tic che accompagnano le partiture del compositore ci sono tutti) quanto nel tenere insieme buca e palcoscenico: spesso l’impressione è che il podio aspetti i cantanti, rinunciando a tenere le fila del discorso musicale. E la teatralità del melodramma inevitabilmente ne risente. Direzione monocroma, volumi dal forte in su con l’effetto che spesso le voci si perdono nel mare sonoro che sale dalla buca.

Cosa che non succede all’istrionico Luca Micheletti che è un intenso Marcello. Voce piena, timbratissima, piena di sfumature di vita, il baritono dipinge un altro bel ritratto della sua galleria di personaggi lirici – che si aggiungono a quelli teatrali della sua carriera da attore di prosa – restituendo, in panni ottocenteschi, la figura modernissima di un giovane di oggi, incapace di prendere in mano la propria vita. Rodolfo ha lo squillo generoso di Freddie De Tommaso, mentre a dare corpo a Mimì sono Marina Rebeka (musicalissima, ma la voce va e vien a seconda dell’angolo del palco in cui canta) e Irina Lungu (che canta anche Musetta alternandosi con Mariam Battistelli). Alessio Arduini è un efficace e ben centrato Schunard, Jongmin Park colora di scuro il suo Colline.

«La mia Bohème va ancora in scena e ogni volta che si apre il sipario sul Quartiere Latino mi dicono che scatta l’applauso» ci raccontava orgoglioso qualche anno fa Zeffirelli rivelando poi che la versione di Aida che preferiva era «quella in miniatura fatta per Busseto nel 2001». Aida che da allora ha fatto il giro dei teatri italiani, grandi e piccoli. E a febbraio è tornata sul palco del Filarmonico di Verona città dove, in estate, l’Arena rimetterà in scena tre allestimenti storici del regista fiorentino nato il 12 febbraio 1923, Carmen, Madama Butterfly e Traviata titolo al quale Zeffirelli stava lavorando (supportato dalla sua squadra di collaboratori) nel giugno 2019, quando morì – era il 15 giugno e mancava meno di una settimana alla prima dell’opera verdiana.

«Quante cose ho fatto. Mi stupisco guardando indietro» ripeteva spesso Zeffirelli, celebrato qualche giorno fa anche dal Teatro dell’Opera di Roma, città dove aveva scelto di abitare, anche se la fondazione che porta il suo nome aveva voluto nascesse nella sua Firenze, città della quale diceva: «Firenze se ti è amica ti esalta, ma se ti è ostile è capace di distruggerti». Sul palco del Costanzi il suo allestimento, datato 1992, di Pagliacci di Leoncavallo, che il regista (e scenografo e costumista, bellissimi i suoi bozzetti e i suoi figurini) aveva deciso di ambientare tra i palazzoni della periferia di una grande città. Nino Machaidze e Brian Jagde protagonisti, Daniel Oren sul podio.

«Molti mi chiedono come ho fatto a fare tutto quello che ho fatto. Una ricetta non c’è, sicuramente occorre darsi basi solide, avere una vita che poggi su un’etica che possa orientare tutto quello che si fa» ci raccontava Zeffirelli che all’anagrafe era Gian Franco Corsi (il padre lo riconobbe solo quando aveva 19 anni) ma aveva quel cognome per volere della madre che glielo diede pensando agli “zeffiretti” cantati da Ilia nell’Idomeneo di Mozart. «Ho avuto una vita piena, nonostante sia partita in salita: figlio illegittimo, una mamma morta quando avevo solo sei anni, cresciuto da una zia» ricordava spesso. Una vita piena. Molta prosa, Shakespeare a Londra, Schiller e Pirandello in Italia. Il cinema da Romeo e Giulietta a Fratello sole, sorella luna e Gesù di Nazareth, «il mio capolavoro, ci ho messo dentro la mia fede di uomo che ha sempre riposto la fiducia nel Signore». E poi la lirica. Che ancora oggi, dopo cento anni dalla sua nascita, lo celebra.

Nelle foto @Brescia/Amisano Teatro alla Scala La Bohème

Articolo pubblicato in gran parte su Avvenire del 26 marzo 2023