Il ricordo del più grande e più amato tenore del Novecento Gli inizi a Milano con la musica leggera e l’avanspettacolo poi l’opera lirica in tutto il mondo accanto a Maria Callas
«Ho debuttato nell’opera nel 1946. Cantanti si nasce e non c’è nessuna scuola che insegni a farlo». Me lo aveva raccontato lui, con quella sua voce piena, squillante, avvolgente, capace di raccontare una storia, di portarti dentro un sentimento, seduti su un divano di casa sua, a Santa Maria Hoé, in provincia di Lecco. Gli avevo telefonato, al numero fisso, per chiedree un’intervista per i suoi ottant’anni. Aveva detto subito sì. E davanti alle locandine, alle foto di scena di una starordinaria carriera mi aveva detto: «Saper parlare al pubblico saper trasmettere emozioni attraverso la mia voce è stata la mia fortuna». Lui che lo ha fatto cantando Verdi, Puccini, donizetti, Bizet, Massenet… Ma fa strano pensare che Giuseppe Di Stefano aveva iniziato come cantante di musica leggera. Giuseppe Di Stefano il tenore, il più grande tenore lirico del Novecento – anche Luciano Pavarotti ha sempre detto che Pippo è sempre stato il suo modello, ammirato più di Caruso e Gigli da Big Luciano. Pippo, il tenore più amato di sempre, che da giovane si esibiva nei locali milanesi e sui palcoscenici di avanspettacolo con il nome di Nino Florio, canzonette, pianobar mentre era in convalescenza, congedato con un colpo di fortuna dall’esercito prima della Campagna di Russia.
Genio e sregolatezza in una voce unica, calda e passionale come la Sicilia dove Pippo nacque il 24 luglio 1921. A Motta Sant’Anastasia, a pochi chilometri da Catania, dove il padre Salvatore era carabiniere e la mamma Angela sarta. Giuseppe Pippo Di Stefano nasceva cento anni fa. In Sicilia, appunto. Terra che nel 1927 la famiglia Di Stefano lascia per cercare fortuna a Milano dove il padre smette la divisa di carabiniere e lavora prima come calzolaio poi come tranviere (morirà nel 1943), mentre la mamma continua a cucire. Pippo frequenta il seminario, studia alla scuola magistrale e, dirà qualche anno dopo, pensa anche al sacerdozio. Le prime lezioni di canto pagate dall’amico Danilo Fois, le audizioni con Gino Marinuzzi e il baritono Luigi Montesanto (che sarà poi il suo agente), nel 1941 la chiamata alle armi in piena Seconda guerra mondiale, ma il congedo (per scarse attitudini militari e per le non buone condizioni di salute) prima della partenza del suo battaglione per la Campagna di Russia. Una scelta, quella del tenente Giovanni Tartaglione, che salva la vita a Pippo che, tornato a Milano si esibisce al ristorante Odeon, al teatro-cinema Cristallo. L’8 settembre 1943 Pippo va in Svizzera dove resta sino alla fine della guerra. Il ritorno a Milano, lo studio del canto.
E in poco tempo nasce la leggenda. Quella che ho respirato vent’anni fa, a Santa Maria Hoé, il paese in provincia di Lecco dove Pippo passava sei mesi l’anno mentre gli altri sei li passava in Kenya, dove nel 2004 subì un’aggressione che gli fu fatale e dalla quale non si riprese mai sino alla morte, avvenuta il 3 marzo 2008 a Santa Maria Hoé dove Giuseppe Di Stefano riposa accanto alla madre Angela e alla figlia Luisa, nata dal primo matrimonio con Maria Girolami, scomparsa a 22 anni nel 1975. Proprio a Santa Maria Hoé avevo incontrato Di Stefano alla vigilia del suo ottantesimo compleanno: era il luglio del 2001 e il tenore mi aveva aperto le porte della sua casa, un museo pieno di ricordi come la locandina del debutto a Reggio Emilia il 20 aprile 1946 con Manon di Massenet, come il ritratto con dedica di Arturo Toscanini o come la foto della mitica Traviata della Scala con Maria Callas e la regia di Luchino Visconti.
Una casa meta di continue visite da parte degli ammiratori che lui accoglieva, faceva sedere in giardino e intratteneva con i ricordi di una vita: «Mi contattano da tutto il mondo: scrivono, mandano regali, foto dei figli» mi aveva detto mostrando con orgoglio cartoline lettere e anche regali stravaganti come il PippOrologio: «Un orologio da parete – spiegava – dove a ogni ora corrisponde un mio storico personaggio. Quello che ho amato di più? Riccardo del Ballo in maschera di Verdi, ma ogni volta che cantavo Tosca e Bohéme non riuscivo a non emozionarmi». Quel giorno sul pianoforte di casa Di Stefano c’era lo spartito di Che gelida manina dalla Bohéme.
Giuseppe Di Stefano e Maria Callas nella Traviata del 1955 al Teatro alla Scala
«Ho debuttato nell’opera nel 1946, ma ho sempre cantato e non mi stancherò mai di farlo. Cantanti si nasce – sosteneva – e non c’è nessuna scuola che insegni a farlo: saper parlare al pubblico saper trasmettere emozioni attraverso la mia voce è stata la mia fortuna». Il debutto nel 1946, appunto, a Reggio Emilia con Manon di Massenet nei panni di Des Grieux, ruolo che lo vedrà debuttare lo stesso anno al Liceu di Barcellona, nel 1947 all’Opera di Roma e alla Scala. Tempo un anno e anche il Metropolitan di New York apre le porte a Pippo che canta il Duca di Mantova del Rigoletto di Verdi. In casa c’era la locandina di quella sera del 1948. Perché conservava tutto Di Stefano. Le sue incisioni, sue e di Maria Callas, quelle con il marchio della Voce del padrone, le teneva sotto chiave, in una vetrinetta come fossero gioielli di famiglia da mostrare agli amici più cari.
«Conobbi Maria nel settembre del 1951: ci scritturarono per cantare insieme in Brasile ma non ci eravamo mai incontrati. Sull’aereo, nelle poltrone davanti alla mia, c’era una coppia: lui parlava veneto e lei era arrabbiata perché non aveva avuto la cuccetta. Era la Callas. Iniziò così il nostro lungo e fortunato sodalizio». Sul palco della Scala con Lucia di Lammermoor con la bacchetta di Herbert von Karajan nel 1954, con Traviata diretta da Carlo Maria Giulini nel 1955. E in tutto il mondo, sino al tour del 1973 (malinconico per come la Callas appariva con una voce ormai usurata, ma un carisma – come quello di Pippo – ineguagliabile ancora oggi) in Germania, Inghilterra, Francia, Stati Uniti, Giappone, Corea, Australia e Nuova Zelanda.
Negli anni di carriera Parigi, Londra, Vienna, New York, Chicago, San Francisco per Di Stefano, nato in provincia di Catania – «ma mi sento siculo-meneghino» amava dire –, arrivato a Milano da ragazzo. «Nel 1937 – ci aveva raccontato sul divano in veranda – studiavo nel seminario arcivescovile e cantavo in Duomo. Dove abitavo c’era un appassionato di opera che dopo avermi sentito mi convinse a studiare, pagandomi le prime lezioni. Ma non ho studiato molto, la musica è stata sempre per me una cosa naturale». Nel 1966 Pippo va anche a Sanremo con un brano di Mogol, Per questo voglio te, che, però, non va i finale. Qualche problema alla voce e nella seconda metà degli anni Settanta la decisione di lasciare progressivamente l’opera per dedicarsi ai concerti e alle operette che canta in Germania, in tedesco, accanto alla seconda moglie Monika Curth.
Quando gli chiesi se tra i giovani intravedeva un nuovo Giuseppe Di Stefano sfoderò ancora una volta la sua celebre ironia. «Avevo visto un certo Carreras qualche anno fa – disse beffardo –, ma credo si sia un po’ perso». Le responsabilità della mancanza delle grandi voci il tenore le imputava ai direttori d’orchestra: «Quando cantavo io dirigevano De Sabata, Serafin, Votto. Oggi mancano i direttori che amano i cantanti, che li seguono, che lavorano con loro». Ma un po’ di responsabilità la attribuiva anche al pubblico: «Ormai conta solo la popolarità che offre la tv mentre un tempo un nome te lo costruivi con una carriera fatta di recite, di tappe, di fatica, di rischio». L’ultima volta in scena nel 1992 a Caracalla in Turandot, non nei panni di Calaf, ma in quelli dell’imperatore Altoum.
Conservo ancora la casetta (eh sì, vent’anni fa non c’erano gli smartphome) con la registrazione della nostra conversazione. La tengo sullo scaffale dei dischi, accanto alle storiche incisioni (sue e della Maria) con il marchio della Voce del padrone, come un gioiello di famiglia, da mostrare agli amici più cari.
Nella Foto Giuseppe Di Stefano e Maria Callas