A Parma Verdi finisce sul lettino di Freud

Diario verdiano. 2

Lettura psicanalitica per gli allestimenti del Festival 2018 Daniele Abbado fa piovere acqua sul Macbeth di Luca Salsi Visioni di morti viventi nell’Attila di Andrea De Rosa con la Siri Corpi in controluce e guantoni da box in Trouvere di Wilson

C’è odore di morte. Che ti fa portare, d’istinto, la mano alla bocca e al naso. Per non sentirlo. Vorresti cacciarla nel buco nero al centro del palcoscenico. Meccanismo psicologico di rimozione. Girare lo sguardo dall’altra parte. Per non vedere tanto orrore. Perché a terra ci sono donne e bambini trucidati. Il sangue che ancora cola. Le immagini volute da Andrea De Rosa per Attila sembrano uscite da un reportage da una zona di guerra, un angolo di Medioriente dove i cristiani muoiono martiri.

In Macbeth, invece, c’è la nebbia. Fitta. Acqua nebulizzata che Daniele Abbado fa cadere sul palco per tutto lo spettacolo. Nebbia dalla quale si fanno strada visioni inquietanti. Un nero dal quale prendono forma macchie di colore, personaggi che solo il dormiveglia rivelatore dell’inconscio può creare. Seduta di psicanalisi per il re shakespeariano che deve indagare il lato oscuro della sua anima.

Anima nera, come quella dei personaggi che si stagliano, neri appunto, sui controluce abbaglianti immaginati da Bob Wilson per Le trouvere, storia di due fratelli che si fanno una guerra (d’amore e di potere) che ucciderà entrambi, uno fisicamente, l’altro nell’anima, lasciandogli un lutto da elaborare.

A Parma Giuseppe Verdi finisce sul lettino di Freud. Ci finiscono, distesi, i suoi personaggi: Attila, Macbeth, il Conte di Luna. Perché «in ogni personaggio di Verdi c’è qualcosa di noi, c’è tanta umanità, con le sue grandezze e le sue miserie» racconta Luca Salsi protagonista del Macbeth che giovedì 27 settembre ha inaugurato l’edizione 2018 del Festival Verdi. Quattro opere, ma anche un cartellone pop – tra installazioni nelle piazze della città, videoproiezioni sui monumenti, un concerto di Paolo Fresu, una serata con Sergio Rubini che legge il Macbeth shakespeariano – sino al 21 ottobre «per un festival che con la diciottesima edizione entra nella maggiore età, allaccia relazioni e si costruisce una reputazione tra i maggiori festival europei» dice il direttore generale del Teatro Regio di Parma Anna Maria Meo che mentre si inaugura il Festival 2018 annuncia già i titoli per il 2019: si apre con I due Foscari, poi Nabucco, una Luisa Miller in un insolito spazio monumentale di Parma e Aida a Busseto (dovrebbe essere la versione mignon ideata nel 2001 da Franco Zeffirelli).

Buio. Le (poche) luci svelano una gande scatola nera, plastica (nera) lucida alle pareti. La musica di Verdi e inizia la pioggia. Un vento freddo arriva in platea mentre il palco si popola di streghe: niente nasi uncinati o capelli stopposi, però, donne di un tempo indefinito, cappotti neri e foulard rossi. Il Macbeth del regista Daniele Abbado evoca il male in una quotidianità che inquieta. Spettacolo fuori dal tempo perché il male non ha tempo. Non ha luogo, sembra dire l’azione che prende forma dal nero e dalla nebbia. Pochi oggetti di scena, il più potente visivamente un trono prima piccolo e poi sempre più grande con il crescere dell’ambizione del protagonista.

Freud e l’interpretazione dei sogni (e dei segni) in una regia che colloca tutta l’azione nella mente del protagonista «nella quale non c’è il male, perché il male è instillato in lui dalla Lady. C’è piuttosto la follia» racconta ancora Salsi, intenso protagonista che sa restituire con il suo canto (umanissimo e dunque perfettamente verdiano) tutta l’umanità sofferta del re. Il baritono parmense canta la prima versione di Macbeth, quella che Verdi scrisse nel 1847 per Firenze (proposta, come tutte le partiture in cartellone al Festival in edizione critica) e che poi rimaneggiò nel 1865 per Parigi. Diversa, ma già rivelatrice del genio teatrale di Verdi, ben raccontato dalla bacchetta di Philippe Auguin. Anna Pirozzi è Lady Macbeth, Michele Pertusi Banco e Antonio Poli Macduff. Visioni (?) della mente di Macbeth.

Visioni anche in Attila. Visioni di morti, le donne e i bambini che il re degli Unni ha fatto trucidare senza pietà e che lo tormentano. Perché la barbarie di oggi, racconta con il suo spettacolo il regista Andrea De Rosa (debutto domenica 30 settembre), è la guerra. Quella che ci raccontano giornali e tv. Quella che vuole contrapporre fedi e culture. C’è in scena all’inizio dell’opera datata 1846. Un buco nero, quasi la voragine di una bomba che ha stroncato vite innocenti. Che chiedono giustizia. Quella che a suo modo compie Odabella, la combattente che, per vendicare il padre trucidato da Attila, uccide il re. Le offre forza Maria José Siri. Ma il nero, il buio nel quale tutto si compie dice che non è una vittoria, solo la sconfitta di chi risponde con la violenza alla violenza.

Il buio, dopo tanta luce, cala anche sul finale di Trouvere (versione francese de Il trovatore, quasi del tutto simile all’originale tranne per le – bellissime – danze e alcuni abbellimenti per assecondare il gusto d’Oltralpe) che Bob Wilson mette in scena (da sabato 29) nella cornice del Teatro Farnese. Wilson fa Wilson. All’ennesima potenza. La poetica dell’artista texano è quella, prendere o lasciare. Parma accetta la scommessa di un “Verdi alla Wilson”. Che funziona nella raggelante staticità del racconto: mai un contatto tra i personaggi, immobili nell’evocare, con il volto imbiancato e gesti da teatro kabuki, la potenza del male. Ma che si inceppa nella scelta di tenere sì le danze (la bacchetta è quella di Roberto Abbado che inaugura così la sua direzione musicale a Parma, le voci di Roberta Mantegna, Nino Surguladze, Giuseppe Gipali e Franco Vassallo), ma di coreografarle con una pantomima dove coppie di pugili (l’opera, dice Wilson, racconta la lotta di due fratelli) si affrontano in combattimento: idea che non decolla, restando sempre uguale a se stessa.

Rischio che la musica di Verdi non corre. Messa sul lettino di Freud ci racconta qualcosa di noi. Segno che l’arte parla ad ogni epoca. Anche con il sorriso, quello di Un giorno di regno, unico titolo buffo scritto dal musicista di Busseto. In scena (da venerdì 28) proprio nel teatro della cittadina emiliana in una versione pocket dell’allestimento di Pier Luigi Pizzi. Si sorride con un cast di giovani, le voci verdiane di domani. E si respira profumo di vita.

Articolo pubblicato in gran parte su Avvenire del 28 settembre 2018.

Nelle foto (@Roberto Ricci per Macbeth, Attila e Un giorno di regno e @Lucie Jansch per Trouvere) le opere del Festival