Con Gatti nel paradiso perduto di Mahler

Il direttore porta alla Scala con Santa Cecilia la Quarta meditazione sul presente insieme alla Terza di Schubert

«Noi godiamo le gioie celesti» cantano gli angeli. Che sono gioie semplici: il vino, il pane appena sfornato, la frutta e la verdura – e, non senza un pizzico di feroce disincanto, anche il vedere gli animali che corrono da soli al macello o verso il forno dove saranno cucinati. Ben diverse, dice il loro sguardo distaccato e quasi malinconicamente ironico, da quello che ormai oggi sulla terra «si pensa sia la vera gioia». Musica sui versi popolari del Des knaben wunderhorn, Il corno magico del fanciullo che, certo, non parlano di tecnologia, di smartphone, ma che se letti in trasparenza alludono chiaramente a ciò che ci distrae dal nocciolo della vita.

Il paradiso (che abbiamo) perduto. Quello che avevamo e che ora non riusciamo a ritrovare. Lo racconta (ce lo racconta) Daniele Gatti dirigendo una strepitosa Quarta sinfonia in sol maggiore di Gustav Mahler al Teatro alla Scala. Che resta assorto in un silenzio di ascolto per poi, passati quei secondi interminabili di tempo sospeso in cui Gatti tiene la bacchetta immobile nell’aria, lasciarsi andare andare in un appaluso carico di commozione e affetto.

Al Teatro alla Scala Gatti arriva (prima di volare a Bucarest per due concerti al Festival Enescu) con l’orchestra dell’Accademia nazionale di Santa Cecilia, ulteriore tappa di avvicinamento del direttore milanese alla formazione romana che dovrebbe guidare a partire da fine del 2024, raccogliendo il testimone da Antonio Pappano. Tappa importante quella scaligera tanto che in platea, accanto al sovrintendente Dominique Meyer, l’altra sera c’era il presidente dell’Accademia, Michele Dall’Ongaro. Intesa perfetta quella tra Gatti, che ha già guidato Santa Cecilia dal 1992 al 1997, e i musicisti trascinati con la passione e l’entusiasmo (e il grande talento come dimostrano gli assoli perfetti in Mahler) che sempre mette in campo dal primo violino di Andrea Obiso, che è la voce della terra, contrapposta a quella del cielo che arriva nel quarto movimento dove gli angeli hanno la voce tersa e cristallina di una perfetta Chen Reiss.

Una Quarta di Mahler in bilico tra terra e cielo, antiretorica, senza quegli sdolcinati ammiccamenti che (a volte) rischiano di rendere la pagina una Pastorale da cartolina. Anche dura nell’austerità che Gatti imprime al Ruhevoll, meditativo, quasi un ripiegamento necessario per ritrovare se stessi prima di alzare lo sguardo al cielo per provare ad assaporare, a ritrovare quella Vita celeste che Mahler mette come titolo alla sua Quarta.

Quarta che, preceduta da una Terza sinfonia in re maggiore di Franz Schubert dalla bellezza disaminante (cangiante, sorprendente ad ogni movimento), diventa una riflessione sul nostro presente. Su quel paradiso perduto che era (che è) la semplicità delle cose. E che non è, attenzione, un «si stava meglio quando si stava peggio», ma un rimettere al centro ciò che davvero conta. La semplicità che è la cifra di Schubert si specchia nella vita celeste di Mahler. Uno di quei programmi che Gatti, uomo profondo e capace ogni volta di leggere nella musica che ha sul leggio l’uomo che (è) siamo, ama offrire al pubblico. Per farlo tornare a casa con una domanda. Scomoda. Come capita anche questa volta.