Muti, Beethoven a Paestum pensando alla Siria

Per Le vie dell’amicizia il direttore sul podio per l’Eroica nel sito campano gemellato con quello siriano di Palmira Italiani e siriani suonano per tutte le vittime della violenza

Viste sotto il sole del mattino, quello che arriva da Est perché era il punto verso il quale i greci orientavano i loro templi per illuminarli con la luce dell’Oriente (con tutto il suo potere evocativo, poetico e spirituale), potrebbero sembrare “solo” pietre. Segnate dal tempo. Porose. Ma solide, ben radicate perché hanno resistito a tutti i terremoti che hanno scosso la Piana del Sele. Tracce di una Storia emersa, anche in un tempo recente, dalla palude della memoria. Soffocata da fango ed erba, ma pronta a ripresentarsi. Materiale per i libri di storia. E per la gioia degli archeologi. Perfette nella loro classicità immobile. Paestum è lì dal VI secolo a.C. quando i cittadini di Sibari costruirono la loro città sul mare, iniziando dai templi. Pietre su pietre. Qui resistono, altrove sono state abbattute per provare a cancellare dalla memoria collettiva le tracce del passato.

Capita che in un inaspettato quanto sorprendente tramonto infuocato, che conquista prepotentemente il cielo azzurro spazzato dalla pioggia che ha increspato il mare, quelle pietre si trasformino. Trasfigurandosi. Si illuminano della luce rossastra del sole che cammina verso Ovest. E basta un attimo per dimenticare il loro essere “solo” pietre. La vertigine del tempo ti porta dentro una Storia che ha abitato questi luoghi. E che, mentre la luce sembra non voler lasciare il posto alla notte, ancora li abita, facendole diventare pietre vive. Vive della vita di chi le ha guardate dalla spianata del santuario, abitate dai simulacri di Hera o Nettuno, chiedendo e aspettando un aiuto. Pace, forse. Vive di chi le guarda oggi cercando un oltre in quella sensazione di pace che si respira.

È un attimo. Perché il canto di Aynur Dogan, quando ormai è buio, è un urlo che squarcia la notte di grilli di Paestum. Un grido penetrante, lanciato con la dignità composta delle donne orientali, che ti mette addosso un’inquietudine inaspettata in quella calma, perché arriva quasi come un rimprovero all’Occidente per responsabilità e omissioni nella guerra che in Siria continua, implacabile, dal 2011. Perché ci avete dimenticati? sembra domandare la cantante curda davanti al Tempio di Nettuno con il suo impasto di suoni e parole ruvido e poetico (racconti di nomadi, di donne date in spose per garantire la pace tra famiglie in lotta) mentre tra le colonne di pietra si aggira, vestita di bianco, Zehra Dogan, artista e giornalista curda: è stata lei a denunciare la schiavitù delle donne yazide e l’ha pagata cara, finita in carcere a Tarso per due anni e nove mesi per il suo impegno civile.

Un canto arcaico, che sembra venire da lontano (forse dalle pietre) che Riccardo Muti ascolta con la testa tra le mani, seduto accanto ai violini sul palco costruito nel Parco archeologico di Paestum dove domenica 5 luglio ha fatto tappa Le vie dell’amicizia, il ponte di fratellanza in musica che Ravenna festival costruisce, instancabilmente, dal 1997. Il pensiero, in questo strano 2020 in cui ognuno (causa Covid) guarda in casa propria, va alla Siria «dove in molti ancora muoiono combattendo una battaglia eroica» dice il direttore d’orchestra che sul leggio dei ragazzi dell’Orchestra Cherubini ha messo la Sinfonia n. 3 in mi bemolle maggiore di Ludwig van Beethoven. «Sinfonia che per noi è sempre stata l’Eroica per il suo piglio e il suo messaggio» racconta Karoun Baghboudarian, violoncellista quarantunenne di Damasco rifugiatasi dal 2015 in Europa con il marito e il figlio. Karoun suona nella Syrian expat philharmonic orchestra che a Paestum si è unita alla Cherubini e che Raed Jazbeh (anche lui sul palco con il suo contrabbasso) ha formato riunendo i musicisti siriani sparsi per l’Europa. Karoun nel 2004 era nel coro a Bosra quando Le vie dell’amicizia hanno fatto tappa in Siria.

«Avrei voluto tornare, ma non è ancora possibile. Siamo invece a Paestum, sito gemellato con quello siriano di Palmira, devastato dalle distruzioni» racconta Muti alle mille persone che, rispettando le regole di distanziamento sociale, hanno seguito il concerto (che Rai Uno trasmetterà alle 23.15 del 23 luglio) il cui ricavato andrà all’Istituto Smaldone di Salerno e al progetto Ospedali aperti avviato nel 2017 dal cardinale Mario Zenari, nunzio apostolico in Siria. «Quando viaggiamo ospitiamo tra i nostri leggii musicisti locali. Qui abbiamo accolto i ragazzi della Syrian expat philharmonic orchestra che hanno dovuto lasciare la loro terra e ora sono in Europa che li accoglie e offre loro il significato profondo della libertà» racconta Muti guardando poi alle pietre di Paestum. «Piranesi, che venne qui, scriveva che non è vero, come spesso si crede, che la cultura italiana deve molto alla Grecia, ma è vero il contrario. Pensiero che, in un momento di decadenza per la cultura italiana ed europea è consolante».

Il canto di Aynur lascia spazio a Beethoven. «Con la musica vogliamo trasformate l’Atomo opaco del male che per Pascoli era il mondo in un Atomo splendente del bene» dice Muti che dirige la Marcia funebre dell’Eroica «per l’attivista Hevrin Khalaf e per l’archeologo Khaled al-Asaad uccisi dall’Isis per aver difeso i valori civili e della cultura. Anche per questo il concerto ha un sapore amarissimo. Certo noi siamo musicisti, vogliamo l’armonia non solo sul pentagramma: non ci schieriamo politicamente, ma condanniamo le atrocità e facciamo appello ai governanti, che stanno a guardare colpevoli i bambini che muoiono di fame e di malattie, perché riportino la pace in Siria e in tante altre zone del mondo».

Muti lo dice a parole. Poi in musica. Con Beethoven. L’Eroica ascoltata tra le pietre del Parco archeologico di Paestum – il direttore Gabriel Zuchtriegel lo ha riaperto subito, il 18 maggio con percorsi dedicati alle famiglie e alla disabilità perché «luoghi come questo devono abbattere le barriere sociali, culturali ed economiche» – suona solenne, meditativa nel suo ricordare la cadenza delle processioni. Una preghiera per chi muore, per chi non ha avuto un funerale in Siria, nei teatri di guerra, ma anche nei focolai del Covid.

Tra le colonne del tempio si affaccia la luna – e nella prova generale Muti posa la bacchetta sull’attacco della Marcia funebre per far salire a turno sul podio i ragazzi dell’orchestra a vedere lo spettacolo della «luna campana». La luna, bianca, tra le pietre avvolte dalla musica. Ti senti quasi solo ad ascoltare quelle note tirato dentro la vertigine del tempo dove passato e presente si sovrappongono. Note che raccontano un dolore e che restano quasi sospese nel finale della Marcia funebre, come un pianto ingoiato, represso, ricacciato indietro. E che, per questo, fa ancora più male.

Nelle foto @Silvia Lelli il concerto de Le vie dell’amicizia a Paestum