Borgia a Essen, Donizetti come una serie Netflix

Convince a metà la rilettura dell’opera del regista Ben Baur Appassionata ed efficace la direzione di Tommaso Turchetta

Donizetti in versione Netflix, Prime, Disney Plus, Paramount, Now, Infinity… Potrebbe stare su una delle tante piattaforme on demand la Lucrezia Borgia di Gaetano Donizetti. Quella che ha da poco chiuso il suo ciclo di recite – la prima nel novembre del 2022 – all’Aalto-Musiktheater di Essen, sempre affidata (e non è cosa da poco, in terra tedesca, dove il repertorio di casa nostra è spesso guardato dall’alto in basso… uno «zum… pa… pa…» bandistico che si contrappone alla sacralità intoccabile di Wagner), Borgia sempre affidata a bacchette italiane, prima al Generalmusikdirektor di Essen, Andrea Sanguineti (che nel 2022, al debutto di questa Borgia, era direttore musicale designato, non aveva ancora il titolo, ricoperto dall’inizio dell’attuale stagione), e ora, nella ripresa, al Kapellmeister Tommaso Turchetta, ligure il primo, napoletano il secondo. Potrebbe stare su una delle tante piattaforme on demand perché la Borgia immaginata da Ben Baur, regista e scenografo (più scenografo che regista, in verità) dell’allestimento dell’Aalto-Musiktheater, sembra una di quelle serie in costume che tengono incollati allo schermo (che sia della tv, del tablet o dello smartphone) milioni di telespettatori, pronti, quando sta per uscire una nuova stagione, a far partire il conto alla rovescia per farsi poi una scorpacciata, magari nel giro di una maratona che dura il tempo di una sola notte, di nuove puntate.

Raccontata come una serie tv in costume la Lucrezia Borgia di Ben Baur all’Aalto-Musiktheater di Essen, teatro elegante, con la firma di un archistar, accanto, anche lei immersa nel verde, la Philharmonie dove passano i grandi nomi della musica classica… curioso per una città di mezzo milione di abitanti nel cuore della Ruhr, circondata da fabbriche (il cuore pulsante della siderurgia tedesca… la famiglia Krupp viene da qui…). Essen che, in una domenica piovosa di febbraio, a fine recita, è deserta e silenziosa, chiusi i locali, buie le strade… illuminate solo le insegne delle grandi catene di fast food. Ma questa è un’altra storia… Raccontata come una serie tv in costume la Lucrezia Borgia. Storiografica, sul tracciato della Storia la Borgia  di Essen – a un certo punto in scena compare anche il papa, Alessandro VI, che non è solo papa, ma anche papà, al secolo Rodrigo Borgia, spagnolo di Xàtiva, papà di Lucrezia Borgia d’Este… Sul racconto della Storia la Borgia di Ben Baur, certo con parecchie licenze (ma già se le prende il libretto di Felice Romani che si ispira a Victor Hugo) e anche con graffi – che, però, sono solo visivi, estetici, non drammaturgici – con graffi di modernità, nel continuo processo di ri-pensamento, di ri-lettura, di ri-creazione della storia, anche a costo di qualche fatica nella comprensione, di qualche difficoltà nel seguire il filo della narrazione dato che tutto è ambientato nello stesso set – per restare in tema di serie tv.

Così Venezia e Ferrara, i luoghi dell’azione tra prologo e atti del dramma, hanno le stesse architetture, sono la stessa cosa. Così dentro e fuori si fondono e si confondono senza che se ne comprenda bene il perché. Quella stanza sghemba (fatta di mattoni a vista, un sedile di marmo che corre lungo le pareti, un grande camino anche lui in marmo) quella stanza sghemba che è la scena fissa, chiusa a volte da una pesante tenda è un luogo della mente? Un luogo dal quale Lucrezia, che quando si apre il sipario vediamo immobile, ritta, austera davanti al camino acceso, non si è mai mossa? Ha immaginato tutto? Ha rivisto tutto, quando la tragedia si è ormai compiuta, in un bagliore di fiamma? Immaginando, come contrappasso di una vita cui la maternità è stata negata, di una vita che ha ucciso la vita (la Borgia avvelena, inconsapevole, suo figlio Gennaro, dopo averlo salvato una volta…), immaginando anche le tante morti che le infligge, pugnalandola, Gennaro sin dalle note del preludio e poi ad ogni chiusura di scena? E perché Gennaro uccide Lucrezia? Che poi, puntualmente, si rialza…? Certo, lei canta «mille volte al giorno io moro, mille volte in cor ferita» e allora facciamole vedere queste morti… Drammaturgia oscura (in locandina i nomi di Patricia Knebel e Christian Schröder) di un racconto dove la Storia è riletta con gli occhi della modernità – che vuol dire anche psicologia, sociologia, economia…

Stesso processo, stesso meccanismo delle serie tv, appunto, racconto storico, ma estetica (e sensibilità culturale) moderna. Si apre il sipario ed ecco la grande sala, sghemba. Il camino con il fuoco acceso. E un alare con la scritta «Borgia» e subito capisci che sarà quella l’insegna che Gennaro sfregerà, facendola diventare «orgia». Lucrezia è lì. Immobile, ritta, austera. Arriva Gennaro e la pugnala. Prima morte. Poi la vicenda parte. Tra frati incappucciati, cardinali (e papi), giovani aitanti, pantaloni neri, petto nudo incorniciato da bretelle, cappelli/corone d’argento, appuntite, di design, gorgiere e catene (i costumi li disegna Uta Meenen)… «angeli alla mia tavola» che svolazzano intorno a Lucrezia e Gennaro (quelle figure con i capelli rossi e le sottovesti bianche che fanno il girotondo e si dispongono intorno a mamma e figlio come fossero putti di Raffaello, sembrano usciti dalla pellicola del 1990 di Jane Campion, An angel at my table, appunto)… visioni di corpi insanguinati (ma la Borgia non usava il veleno?). Estetica moderna. Montaggio cinematografico. E psicologia (forse un po’ troppo spiccia… un Freud in pillole) perché nel duetto del secondo atto tra Gennaro e Maffio Orsini, duetto che racconta una profonda amicizia (qualcuno ci vede un amore omosessuale….) Maffio, che Donizetti affida a un mezzosoprano, entra in scena non più vestito con pantaloni e camicia a sbuffo, ma con lo stesso abito della Borgia… corto circuito di genere (che alla prima spiazza, non sai più chi canta, anche perché Nataliia Kukhar che è Orsini e Jessica Muirhead che è Lucrezia hanno voci dalla pasta molto simile…) corto circuito di genere di un mezzosoprano che canta en travesti, ma che indossa panni femminili. Confusione. Che non dice chi è oggi Lucrezia Borgia. E che non sfrutta una confezione (la scenografia, bella, curata, i costumi azzeccati) dentro la quale ci sarebbero potute essere idee davvero moderne…

Confusione che non c’è, idee che ci sono (e interessanti) nella direzione appassionata, centratissima, belcantistica (che non vuol dire languori e svenimenti, ma canto sulla melodia, parola detta in musica, suoni che raccontano, narrano…) di Tommaso Turchetta. Un Donizetti con un corpo, con un suono presente e narrante (alto il livello degli Essener Philharmoniker, un po’ meno quello dell’Opernchor) quello che Turchetta restituisce. La Borgia è partitura raffinata e nessun eco bandistico arriva dalla lettura del direttore napoletano che dimostra di saper guidare, da ottimo Kapellmeister, i complessi di un teatro di repertorio dove ogni sera cambiano gli autori sul leggio. Braccio saldo, capace di tenere le fila del dialogo tra orchestra e palco quello di Turchetta, attento al canto e al respiro sinfonico della musica.

Teatro di repertorio, ensemble della casa in scena. E non mancano le sorprese. La voce pastosa e avvolgente di Alejandro Del Angel, tenore messicano (inconfondibili i colori della sua terra nel suo canto) che è un Gennaro musicalissimo, che cresce nel corso dell’opera sino al commovente finale. Jessica Muirhead è un fiume in piena di voce, non sempre controllata, spesso fuori fuoco rispetto alle regole del belcanto… ma efficacemente drammatica nel restituire i tormenti di una madre che sfida il mondo (insultata, schernita… odiata) per ritrovare il figlio. Così anche Nataliia Kukhar che è Maffio Orsini, personaggio che resta un po’ sullo sfondo del dramma. Voce tonante (a tratti anche troppo) quella di Almas Svilpa che è Alfonso. E così gli amici di Gennaro – Ted Schmitz (Liverotto), Baurzhan Anderzhanov (Gazzella), Karel Martin Ludvik (Pertrucci), Jongyoung Kim (Vitellozzo) – e gli altri personaggi del dramma, il Gubetta di Tobias Greenhalgh e il Rustighello di Aljoscha Lennert. Prove altalenanti, ma in tutti un grande rispetto per il melodramma italiano. Per Donizetti. Che funziona, anche in versione Netflix.

Nelle foto @Bettina Stöß Lucrezia Borgia all’Aalto-Musiktheater di Essen