Palermo, Turandot nel futuro tra draghi e replicanti

Il regista Fabio Cherstich e il collettivo russo AES+F reinventano Puccini per l’inaugurazione del Massimo

Un po’ Blade runner e un po’ Matrix. Ma anche un po’ videogioco e un po’ spot dai colori pop. Pulp come un film di Tarantino. Immaginifica come un manga. Kitsch e poetica allo stesso tempo. Fabio Cherstich immagina così Turandot di Giacomo Puccini che, con la bacchetta di Gabriele Ferro, ha inaugurato la nuova stagione del Teatro Massimo di Palermo. Pechino, anno 2070. La fiaba crudele che Puccini ha messo in musica, lasciandola incompiuta, è proiettata dal regista friulano in un futuro di replicanti: il palazzo della principessa è un drago volante dove sono prigionieri e dove vengono torturati i principi che non hanno risolto i suoi enigmi, la giungla di grattacieli di una città immersa nel traffico diventa una foresta di vegetali pulsanti.

«Quando si pensa alla regia di un’opera è sempre fondamentale che ci sia una lettura, uno sguardo sulla vicenda, sulla trama e sui personaggi, una visione che viene passata agli spettatori» racconta Cherstich che, dopo il progetto OperaCamion con il Teatro dell’Opera di Roma, ora affronta per la prima volta un palcoscenico lirico tradizionale. «Racconto Turandot con un impianto scenico con tre schermi fissi e uno che sale e scende. L’azione al centro. Il coro su pedane laccate di rosso. E sugli schermi le immagini del collettivo di Mosca AES+F, quattro teste pensanti, architetti, fotografi, grafici, videomaker». Puccini reinventato dall’immaginario degli artisti rivelatisi alla Biennale d’arte del 2007 con l’allestimento del padiglione russo.

«Niente Cina di cartapesta, ma una società matriarcale del futuro in cui il passato di Turandot è il nostro presente. Possiamo dunque parlare, attraverso la musica, di nodi che interessano la nostra società come la violenza sulle donne o i regimi totalitari che ci sono stati e ci sono ancora oggi». Un approccio che per il regista «è più un’installazione artistica che una regia come la intendiamo tradizionalmente. Tre anni fa ho contattato via mail gli artisti di AES+F per proporre loro questo progetto: mi hanno risposto subito di sì e da allora abbiamo iniziato a immaginare la nostra Turandot».

Immagini in 3D realizzate rielaborando riprese fatte dal vero con modelli: tra i tanti volti spunta anche quello di Jacopo Tissi, ballerino formatosi alla Scuola di ballo della Scala e oggi primo italiano nel Corpo di ballo del Bolshoi. «Figure che si muovono in una Pechino multietnica e multiculturale, quasi un paesaggio sottomarino con gli edifici fatti di corallo» spiega Cherstich che ha voluto una regia «per sottrazione: ho tolto i gesti della tradizione lirica, ho cercato di asciugare il più possibile la gestualità dei cantanti per ricreare un codice realistico perché più le dinamiche che si creano in scena sono asciutte più il racconto funziona e arriva in platea». Turandot è Tatiana Melnychenko, Calaf Brian Jagde.

«Non posso pensare che oggi ci si fermi a riflettere sulla funzione della tecnologia all’opera: sono molte e importanti le conquiste in questo campo che non possiamo pensare di non usarle anche in teatro. Non ha più senso nemmeno parlare di contaminazione dei linguaggi. Dobbiamo piuttosto chiederci come far diventare oggi uno spettacolo una forma d’arte, perché l’opera è questo, musica e immagini che messe in scena devono far diventare il teatro una forma di arte visiva». Dopo il debutto a Palermo la Turandot di Fabio Cherstich e AES+F andrà a Karlsruhe, San Pietroburgo e dal 28 maggio sarà al Comunale di Bologna.

Articolo pubblicato su Avvenire del 20 gennaio 2019

Nella foto @Franco Lannino Turandot al Massimo di Palermo