L’opera di Verdi ha inaugurato la stagione del Teatro alla Scala Intensa la direzione di Riccardo Chailly, solenne e meditativa Regia ad effetto di Livermore che porta l’azione tra i partigiani Applauditi protagonisti Ildar Abdrazakov e Saioa Hernandez
Cosa resta dell’Attila di Giuseppe Verdi che ha inaugurato la nuova stagione del Teatro alla Scala? A riflettori spenti, quelli del teatro, certo, ma soprattutto quelli delle telecamere che hanno inquadrato, quasi con occhio indagatore e voyeuristico alla grande fratello, quello che è sì un evento musicale, pure mondano, ma soprattutto sociale perché, nel bene e nel male, è specchio, meglio dire forse rappresentazione (anche teatrale) del Paese.
Resta la sensazione di una serata fortemente politica. Resta un Attila ai tempi della resistenza. Resistenza, innanzitutto, di chi è (o lo è sempre stato) disilluso dal contratto per il cambiamento. Perché ha questo sapore il lungo e interminabile applauso che il 7 dicembre ha salutato l’ingresso in palco reale del Capo dello Stato Sergio Mattarella. Stesso retrogusto amaro avvertito nell’Inno di Mameli cantato a squarciagola dai coristi della Scala dietro le quinte, sussurrato a mezza voce in sala da chi sembra chiedere all’Italia di (ri)destarsi. Anche da chi, e alla Scala sicuramente c’era, il 4 marzo magari per vedere l’effetto che fa un governo a cinque stelle ha votato chi ora vorrebbe far sloggiare dalle poltrone del potere. Alla Scala ha provato a dirlo con il lungo applauso a Mattarella.
«Quel viso… Mi ricorda la zia». Gli occhi fissi sul pubblico, in mano, stretta in un pugno, la bandiera italiana: Odabella esce dal gruppo di donne spinte a forza dai militari, invoca il «Santo di patria, indefinito amorW che la spinge a combattere per la libertà del suo popolo. Lo butta in faccia ad Attila. «La zia aveva quegli occhi». Quegli occhi, quell’acconciatura, quel vestito a fiori che Odabela ha quando subito dopo sale sulla camionetta del nemico: il patto di sangue è siglato, ora è una di loro e può compiere la sua vendetta. Infiltrata, da dentro. Le hanno ucciso il padre quando era bambina, ha visto la scena, ha urlato. Si porterà per sempre impressa quell’immagine negli occhi. Occhi che sono quelli di tante donne e che oggi ti guardano in foto da una tomba, da un memoriale delle vittime della lotta partigiana. «E la zia ha combattuto» dice tra sé una signora seduta in platea mentre nell’aria risuona ancora il canto di Odabella, «l’odio armasti dell’oppresso coll’acciar dell’oppressor», giuramento di una vendetta che si compirà. Va con la mente a un’immagine dai contorni sbiaditi. Sbiaditi sulla carta. Sbiaditi nella memoria. «Non l’ho mai conosciuta, c’era la sua foto in camera dei miei genitori. E i suoi occhi erano come quelli di Odabella». Che per Davide Livermore ha il viso e il piglio forte di una staffetta partigiana. Nome in codice Odabella, ci potrebbe stare. Racconto di un’altra resistenza. Perché il regista piemontese porta negli anni Quaranta del Novecento le vicende di Attila, l’opera di Giuseppe Verdi che ieri sera ha aperto la nuova stagione lirica milanese con Riccardo Chailly sul podio. Quattordici minuti di applausi, fiori per tutti, ma anche qualche dissenso bipartisan (da loggione e platea) per Livermore.
Attila da sempre evoca altre invasioni. Lo fa grazie a Verdi capace di raccontare attraverso una vicenda del quinto secolo, quella del re degli Unni appunto, qualcosa di noi. Di chi siamo e da dove veniamo. Valore imprescindibile della memoria. Che Livermore, non così originale nel suo salto temporale, associa, appunto, alla resistenza partigiana.
Inizia tutto dal nulla. Il palco vuoto, sul grande ledwall macerie di edifici che fanno pensare ad un’archeologia industriale da scenario postatomico. Poi la memoria inizia a disegnare i contorni della storia. Dai sotterranei del palco si materializza la scenografia: un ponte di ferro e pietra in rovina, diroccato. Macerie intorno. «Urli, rapine, gemiti, sangue, stupri, rovine e stragi e fuoco». C’è tutto (e di più) sul palco che si affolla di un’umanità oppressa, quella dell’Italia della Seconda guerra mondiale: camionette della polizia, fucilazioni di piazza raccontano quello che «d’Attila è giuoco».
Un grande videogame della storia la regia di Livermore che ricostruisce come in un cinegiornale dell’epoca – grazie ai costumi filologicamente inappuntabili di Gianluca Falsachi – le atmosfere della lotta partigiana. Racconta come in un film alla Roma città aperta la storia di Odabella che da bimba ha assistito all’omicidio del padre per mano di Attila (un video, usato anche come lancio pubblicitario sui social nei giorni precedenti la Prima, racconta quel momento in flash back durante l’aria del Murmure) e ora vuole vendicarlo. Punto di partenza del libretto di Temistocle Solera e Francesco Maria Piave che Livermore rievoca in un flusso di memoria dove le scene – disegnate dallo studio Giò Forma in un dialogo tra frammenti di edifici e immagini video ideate del team D-Wok – si materializzano dal nulla, si susseguono in dissolvenza uscendo e poi rientrando nella nebbia della memoria.
Un kolossal pieno di immagini ad effetto quello di Livermore, furbo e ammiccante che mette insieme di tutto, i buoni sentimenti alla Libro cuore e un po’ di trasgressione con rimandi cinematografici da Il portiere di notte di Liliana Cavani a Salon Kitty di Tinto Brass. Certo uno spettacolone da 7 dicembre come piace al pubblico della Prima, ma soprattutto pensato e realizzato in formato tv per rendere il più appetibile possibile la diretta su Rai uno che ha raccolto quasi due milioni di spettatori.
Scene corali tecnicamente ben congegnate. Qualcuna anche toccante. Come lo sbarco dopo la tempesta dei profughi di Aquileia che portano in salvo gli arredi di una chiesa distrutta alcune panche, un inginocchiatoio, la statua di Maria per ricostruire anche in esilio un luogo in cui tutti si ritrovano perché il naufragio della vita, sembra dire Verdi con la sua musica, è quello che ti fa perdere i punti di riferimento: allora il sacerdote (anche lui patriota con bandiera italiana e pistola nascosta) benedice il pane e lo distribuisce, comunione nel dolore, unico conforto che resta a chi ha perso tutto.
Qualcuna che cerca l’effetto sicuro. Come il sogno di Attila al quale appare Papa Leone: sul palco si materializza l’affresco dello storico incontro dipinto da Raffaello nelle Stanze Vaticane prima in una proiezione in bianco e nero che poi prenderà vita in una sorta di grande 3D.
Qualcuna meno riuscita. Come la festa di nozze in un capannone industriale dove il travestimento e la perversione (seppur non così esibita dal regista – non un seno nudo in scena, tutti coperti dopo discussioni in prova tra Livermore e Chailly) raccontano un degrado che la storia associa all’apparente fulgore dei regimi. Non c’è la statua della Madonna che tanto aveva fatto discutere alla vigilia, con richiesta (da parte di un sindaco della bergamasca) di togliere la scena giudicata preventivamente blasfema. C’è un vitello d’oro. E forse è meglio così. Anzi rende meglio sulla scena, racconta in modo più efficace una società senza punti di riferimento, pagana nell’adorare idoli che nulla dicono all’uomo. La statua di Maria sarebbe stata “cristianamente” sbagliata: perché Livermore spiega che il fulmine che si abbatte sulla festa di Attila era la punizione di Dio per l’adorazione blasfema… Ma Dio, quello del Nuovo Testamento, quello che ha scelto Maria come madre di suo Figlio, non punisce l’uomo, non è un Dio che usa la vendetta. Anzi, come ricorda sempre Papa Francesco, è un Dio che usa la misericordia. Lo fa forse (e anche qui ci sarebbe da aprire una discussione teologica) il Dio dell’Antico Testamento, da dove è preso, appunto, il vitello d’oro.
Immagini ad effetto (Livermore si cita anche con i fermo immagine e il riavvolgimento del nastro, con l’azione all’indietro, espedienti cinematografici usati abbondantemente nel Tamerlano di Haendel, sempre realizzato per la Scala), immagini, però, chiuse nella loro compiutezza, con il rischio di rimanere in superficie, senza scavare a fondo.
Rischio che non corre Riccardo Chailly che crede nel Verdi giovanile, lo asseconda rendendolo solenne e ieratico anche nei passaggi più “garibaldini”. Non ci sono echi bandistici – che sarebbe facile trovare in queste partiture – nella lettura del direttore milanese che arriva con una morbidezza e una cantabilità che mostrano senza ombre la raffinatezza di una scrittura che, più di altre opere composte sino ad allora, anticipa i grandi capolavori verdiani che verranno. Arrivano anche le cinque battute scritte da Rossini come introduzione al terzetto che prelude al tragico finale: l’azione si ferma e una luce rossa illumina il palcoscenico. E anche queste note hanno in sé quegli squarci di morte di cui tutto il racconto musicale è contrappuntato, accompagnato da una sorta di basso continuo che ha l’andamento di una lenta e inesorabile marcia funebre. Che inghiotte tutti i personaggi.
In orchestra e in scena il bianco e nero, il color seppia delle foto d’epoca per raccontare le fragilità di Attila che Ildar Abdrazakov (appaluditissimo a scena aperta già dopo aria e cabaletta del primo atto Mentre gonfiarsi l’anima… Oltre quel limite…) scolpisce con il suo accento verdiano e con la sua parola che si fa teatro; la risolutezza di Odabella, affidata alla voce piena e affascinante di Saioa Hernandez (il soprano spagnolo debuttava nel ruolo e sul palco della Scala), temperamento e musicalità perfette per il personaggio chiave dell’opera; il patriottismo di Foresto al quale Fabio Sartori offre il suo squillo capace di piegarsi all’emozione; la meschinità politica di Ezio che ha il carattere vocale e scenico di George Petean.
Tutti armati contro tutti. Personaggi che escono a pezzi. Perché lo spettacolo di Livermore, come l’applauso a Mattarella, è politico, forse non revisionista nel senso storiografico del termine, ma certo critico con un capitolo della storia d’Italia sul quale non si è fatto ancora pace.
Alla fine si compie una strage: i dissoluti della festa di Attila vengono trucidati dai partigiani; Odabella, Foresto ed Ezio torturano il re, lo legano ad una poltrona, lo feriscono prima del colpo finale che spetta a Odabella mentre sullo schermo torna, inquietante il volto del padre morto. Attila è a terra, nemico vinto al quale non è concessa la pietà. Lei guarda i compagni di lotta, ma tutti le voltano le spalle. E senti dentro un vuoto.
Finisce nel nulla Attila. Chi ha combattuto guarda lontano, verso lo schermo. Dove non ci sono più immagini, ma un chiarore che, però, non abbaglia. Inquieta nella sua freddezza. Vuoto, appunto. Come la sensazione che, messaggio politico di Verdi, lascia la vendetta.
Articolo pubblicato, in parte, sul quotidiano Avvenire l’8 dicembre 2018
Nelle foto @Brescia/Amisano Teatro alla Scala Attila di Giuseppe Verdi