Il musical di Leonard Bernstein diretto da Michele Mariotti Protagonisti Sofia Caselli, Marek Zurowski e Natascia Fonzetti insieme a un gruppo affiatato di performer e ballerini
Un chiarore. Debole, si fa strada nel buio. Poi lo squarcia. Illumina. Ti illumina. Ti scontorna di luce, luce calda, avvolgente. Scontorna tutti, sagome nel buio. Controluce potente che ti fa socchiudere gli occhi. Chiarore inaspettato, perché tutto avrebbe dovuto essere nero su quelle note, una marcia funebre per i tanti, troppi morti ammazzati… Riff, Bernardo, Tony… e chissà quanti altri… chissà per quanti altri nomi incisi sulle lapidi del tempo quella musica piange. Invece un chiarore, che ti tira fuori dal nero nel quale sei piombato di fronte a quelle morti. Che, certo, è il nero della notte romana, afosa, in questo soffocante inizio di luglio, notte che avvolge i due monconi di pietra, quinte naturali di un immaginario teatro dei secoli, delle Terme di Caracalla… Ma è anche (e forse soprattutto) il buio di un mondo di morte. Piombato nella notte della guerra… e quella quotidiana, nelle case, nelle strade, sul posto di lavoro, sui social… non è meno pericolosa e sconquassante di quella che si fanno i “grandi” della terra in Medioriente, in Ucraina, in Myanmar…
Un chiarore… perché ogni giorno si compie il miracolo, la luce vince le tenebre. Una luce di speranza. Che Damiano Michieletto mette, inaspettato, ma necessario sigillo al suo West Side Story. Suo e di Michele Mariotti, direttore musicale dell’Opera di Roma, sul podio (in maniche di camicia) di Caracalla. Il West Side Story di Leonard Bernstein, di Arthur Laurents e Stephen Sondheim, di Jerome Robbins – sembrerebbe impossibile pensarlo diverso da quello del coreografo e regista americano, eppure… «Forse un mattino andando… rivolgendomi vedrò compirsi il miracolo…». Eccolo lì sul palco. Miracle, scritta fatta di lettere giganti, contorni di lampadine… Luce. Maria si aggrappa alla M che prima, quando il suo Tony cantava Maria… Say it loud and there’ music playing. Say it soft and it’s almost like praying, era l’iniziale della grande scritta che componeva il suo nome. La abbraccia quella M. Come se abbracciasse il suo Tony, conosciuto, amato e perso nel giro di un giorno. Lo hanno appena portato fuori a spalla, Jets e Sharks uniti in un dolore che (forse) ha seppellito l’odio.
Maria è anche lei, come noi in platea, una sagoma, scontornata dal chiarore della scritta Miracle. Scenografia hollywoodiana che potrebbe frastornare e accecare. Qui, invece, silenziosa. Eppure potentissima. Fatta di luce, appunto. Debole, prima. Poi deciso e prepotente chiarore. Deciso e prepotente come il frutto di un seme che germoglia dalla terra. La fende e la rende feconda. Rigogliosa. «Se il chicco di grano caduto in terra non muore rimane solo; se invece muore produce molto frutto…» immagine evangelica, immagine di Cristo… che muore e risorge. Immagine Tra sacro e umano. Che è poi il motto del cartellone del Caracalla festival 2025, immaginato e disegnato da Damiano Michieletto – il Teatro dell’Opera di Roma e il sovrintendente Francesco Giambrone gli hanno dato carta bianca – con titoli in dialogo (anche inaspettato) tra loro. Così il finale che Michieletto ti lascia negli occhi, immagine da conservare del suo West Side Story, fa quello che Ilaria Lanzino non è riuscita a (o non ha voluto) fare (e dire che il testo e la musica erano lì pronti, bastava solo ascoltarli) con La Resurrezione di Gerorg Friederich Händel a Massenzio. Offre una speranza.
Una luce che squarcia il buio. Un seme che muore e produce frutto. Cristo, il Cristo dei Vangeli, certo. Quel Cristo che lo stesso Michieletto ha messo al centro della sua rilettura scenica di Mass… era il 2022, ancora Bernstein, in una sorta di dittico a distanza, ricomposto ora con West Side Story – cosa viene prima, cosa viene dopo? non conta, si potrebbero vedere i due spettacoli in loop. Stessa squadra. Sempre Caracalla, tre anni fa… il Covid bruciava ancora sulla pelle (e la parola d’ordine era distanziamento), la Russia aveva da poco invaso l’Ucraina, in Medioriente covava l’odio e il regista veneziano portava in scena la messa del compositore statunitense, liturgia tra scaro e umano, come un racconto dei tanti, troppi muri (quelli dell’odio e quelli della paura dell’altro… il Covid un po’ ce l’ha lasciata ancora dentro) che si alzano nel mondo. Un muro, però, crollava. Una fessura si apriva nel cemento armato. Come la luce che squarcia il buio. Come il germoglio che fende la terra. Il Cristo di Mass, il Tony di West Side Story… e Riff e Bernardo e chissà quanti altri… chissà quanti altri nomi incisi sulle lapidi del tempo che sono (stati) germoglio, spiraglio di luce. Per un mondo schiantato.
Come quella fiaccola, la fiaccola della Statua della Libertà, che in una visione potente e drammaturgica (e sempre poetica) delle sue Paolo Fantin schianta nella piscina olimpionica abbandonata che fa da scenografia (insolita, ma originalissima per un musical che vive di cambi continui di ambiente… di girevoli che ti portano in questo e in quell’ambiente in un secondo… di ritmo, di frenesia…) al racconto di Bernstein – niente acqua in un mondo arido di umanità, solo un trampolino dal quale affacciarsi sull’abisso, salto nel vuoto che può essere pericoloso, ma anche necessario. Schiantata, quella fiaccola, come il sogno americano che naufraga in quella piscina senz’acqua… nessuna determinazione, nessun impegno, nessuno sforzo può cambiare la vita di chi vive sui fondali del mondo, annaspa, boccheggia… cerca di restare a galla, ma va inesorabilmente a fondo.
E in questo West Side Story tutto “succede” sul fondale di questa piscina… che riassume in un unico, straniante ambiente le indicazioni delle didascalie del musical del 1957… i palazzi della New York anni Cinquanta (e le scale di servizio, icona della versione originale e del film), la palestra dove si balla a ritmo di «Mambo!», il negozio di abiti da sposa dove lavorano Anita e Maria, lo spaccio di Doc, il viadotto, periferia della città e dell’anima… e naturalmente il balcone (perché il musical è una variazione sul tema, riuscitissima e quasi meglio dell’originale, dello shakespeariano Romeo e Giulietta) che è il grande trampolino che si staglia sulle rovine di Caracalla, avvolte dal fumo – vertigine visiva illuminata dalla poesia di Alessandro Carletti. Nessun naturalismo, solo questa sezione di piscina – tagliata a metà, non finisce sulla ribalta, ma quasi prosegue in platea, tirando dentro anche noi in questa terra desolata. Nessun naturalismo, solo qualche sedia (qualche caricatura fumettistica nella ballata dell’Agente Krupke) sparsa qua e là, a far intuire, immaginare i luoghi dell’azione (cosa non sempre facile, certo… tanto più che è tutto, canto e parlato, nell’originale inglese… e la stanza di Maria è uguale al viadotto dove si consuma la rissa…).
Nessun naturalismo, ma solo una terra desolata abitata da ragazzi. I Jets, gli americani del Bronx, capelli biondi, vestiti di bianco, assomigliano ai maranza di oggi. Gli Sharks, i portoricani, mori, latini, una macchia di colore per distinguersi e affermare con orgoglio la propria unicità – patinatissimi i costumi di Carla Teti. In nero e grigio gli adulti, i pochi adulti, Schrank e Krupke, i poliziotti (corrotti) che dettano legge, e Doc, che chiede «basta morti». Un mondo dove gli adulti sono assenti. Non ci sono i genitori (i Capuleti e i Montecchi della New York degli anni Cinquanta) di Tony e Maria, ci sono solo e loro voci, in lontananza, fuori scena. Ma incombono. Perché i giovani – che oggi chiameremmo immigrati di seconda generazione – hanno interiorizzato l’odio. I can kill now, because I hate now. «Ora posso uccidere perché ho imparato ad odiare» urla Maria, davanti al cadavere di Tony. Lei che non sapeva cosa fosse l’odio. Innocenza sfregiata che impugna una pistola. Per uccidere tutti e per conservare l’ultima pallottola per sé. Ma poi depone le armi, in cerca di quel Somwhere, di quell’altrove dove trovare pace. Lo aveva cantato abbracciata a Tony, quando già la morte aveva tracciato un solco tra loro. Un solco di sangue che avevano deciso, però, di riempire di bene. There’s a place for us. Somewhere. We’ll find a new way of living, We’ll find a way of forgiving. «C’è un posto per noi… da qualche parte troveremo un nuovo modo di vivere, di perdonare…». La voce di Sofia Barbashova innalza nella notte romana la preghiera, la speranza che viene dal cuore.
Oggi. Nel nostro qui ed ora di guerra. Come nella New York anni Cinquanta dove Bernstein colloca il suo West Side Story, partitura sinfonica, dove ci sono il jazz e il blues, dove ci sono Gershwin e Mahler, il contrappunto e la fuga coniugati con i songs, versione aggiornata delle arie d’opera. Perché West Side Story è a tutti gli effetti un’opera, parole e note, versione novecentesca del singspiel o dell’opéra-comique. Antenati del musical, certo. Forma che Michieletto affronta per la prima vola. E lo fa a modo suo. Trattando la “materia” come fa solitamente, quando ha davanti una partitura lirica (ma anche un testo di prosa… belli e riusciti gli esperimenti del Ventaglio di Goldoni e delle Divinas palabras di Ramón María del Valle-Inclán). Cercandone i significati più profondi, facendoli diventare segni (nelle suggestioni scenografiche di Fantin), scomponendo e ricomponendo il testo (letterario e musicale) in visioni che srotolano il racconto, ma suggeriscono anche astrazioni che diventano universali.
Così questo West Side Story ha il ritmo frenetico del musical (versione kolossal perché sul vastissimo palco di caracalla ci sono ben sessanta interpreti, poi in buca ci sono altrettanti musicisti) nelle coreografie – mix di classico e moderno, tanto di già visto, compresa qualche citazione spruzzata qua e là dell’originale di Robbins, comunque sempre a tutta energia grazie a ballerini del Corpo di ballo dell’Opera di Roma e performer – di Sasha Riva e Simone Replele. E ha il respiro lirico nella lettura di Michele Mariotti. Sciolto, libero nel giocare con le note di Bernstein e nel restituirle in una grande arcata narrativa. Non ci sono numeri chiusi, ma una scena sconfina nell’altra, un sentimento trascolora in un altro nella lettura del musicista pesarese, che sbalza arie, duetti, concertati… cori… tra jazz e blues, ritmo e sentimento, tradizione e innovazione.
Nessuna voce “lirica” in scena (Sofia Barbashova a parte, lei allieva del progetto Fabbrica dell’Opera di Roma), ma performer di musical… scorri la locandina, due o tre nomi dal sound inglese, poi una lunga, lunghissima lista di italiani, i migliori talenti del musical di casa nostra (Cristian Ruiz, Angelo Di Figlia, Nicola Trazzi, Marta Melchiorre…), dove è cresciuta una generazione di artisti completi (canto, recitazione, ballo) capace di restituire al meglio un testo complesso come quello di Bernstein. La sua musica arriva (amplificata e purtroppo non sempre al meglio, con diversi disturbi e fruscii…) immediata, vera, potente… nelle continue sfumature e nei repentini cambi di luce che dal podio le imprime Mariotti…. e nel canto sempre misurato e puntuale, svettante e intimo di tutti. Terso, cristallino quello di Sofia Caselli, una Maria palpitante di un’innocenza e una purezza disarmanti… appassionata e divertita nel suo I feel pretty, toccante dello straziante «Te adoro, Anton» che resta come sigillo d’amore oltre la morte. Pura, incontaminata Maria. Come il Tony di Marek Zurowski, voce bella, piena, avvolgente… toccante nel raccontare la sua Maria, sognante nel dipingere un Somewhere di pace e perdono. Bianco luce i loro costumi, squarcio nel buio. Colore ed energia, potente, capace di lasciare il segno con un canto graffiante e con una presenza scenica dirompente l’Anita di Natascia Fonzetti. Il suo Bernardo è Sergio Giacomelli, amore spezzato dalla morte, che cade anche su Riff che è Sam Brown.
La morte che piomba sul sogno americano. Chiassoso, accecante come quelle lettere, enormi, che sul palco si scompongono e si ricompongono in parole… America… che diventa Maria. Lettere di luce che si trasformano in Miracle. Il miracolo della vita. Che squarcia il buio. E vince. Sempre.
Nelle foto @Fabrizio Sansoni West Side Story a Caracalla per l’Opera di Roma