Al Maggio musicale fiorentino l’opera di Verdi riletta dal regista come una denuncia degli orrori e dei traumi dei conflitti bellici Metha sul podio, protagonisti Olga Maslova e SeokJong Baek
Mutilato. Senza una gamba. Si regge in piedi grazie a due stampelle. Eppure è lì, immobile. Decorato al valore. La folla lo acclama. Ma quella medaglia appuntata al petto lui se la strappa via e la butta a terra, la fa cadere proprio davanti al Re. E i suoi occhi, i suoi del Re, si riempiono di orrore e paura. Perché la guerra è sempre una sconfitta. Segna in profondità i reduci. Chi non ha una gamba, chi ha un braccio al collo, chi è costretto a muoversi in carrozzina. Li segna (e ci segna) nel corpo e nella mente.
Uccide la guerra. Come uccisa, forse da droni chirurgicamente intelligenti, è quella bimba il cui corpo morto il Messaggero porta in braccio, buttandolo come “trofeo” che gronda sangue in faccia al Re – un altro colpo per lui, uno dei tanti signori della guerra, in doppiopetto, come quelli che oggi ordinano attacchi e incursioni. Lo mostra, annichilito, al Re mentre racconta che «il sacro suolo dell’Egitto è invaso dai barbari etiopi»… E quell’«etiopi» quasi non lo senti, al suo posto ci metteresti altre connotazioni etniche, quelle di popoli che oggi, sobillati dai loro governanti (dittatori o leader democraticamente eletti, purtroppo non fa differenza… anzi…), vengono mandati al fronte.
Uccide la guerra. Strazia. Come straziata è quella madre – la madre della piccola di prima – che si aggrappa alla bara della figlia, la riempie di pupazzetti… e poi guarda con uno sguardo pieno di nostalgia gli altri bambini giocare. Giochi antichi, di cerchi e palloncini. «Passando di qui verso sera, salirete a prendere anche me, e non me sola…» sembrano dire i suoi occhi agli uomini che portano via la bara della figlia… immagine dalla potenza manzoniana, che ti fa contorcere lo stomaco. Perché la guerra uccide.
Non c’è nulla di trionfale nell’Aida di Damiano Michieletto. Aida di Giuseppe Verdi, naturalmente, ultimo titolo dell’edizione 2025 del Maggio musicale, arrivata a Firenze nell’allestimento che Micheletto ha pensato nel 2023 alla Bayerische Staatsoper di Monaco. Allestimento contestato, oggi come allora. Ma potente. Disturbante per quella signora ormai avanti negli anni che dice alle nipoti, nell’unico intervallo, «bambine, Aida è un’opera bellissima… andiamo a casa, vi porterò a vederne una con le piramidi…». Come se le “bambine” non vedessero quotidianamente gli orrori del mondo sugli schermi della tv o su quelli di smartphone e tablet che i genitori mettono loro in mano per anestetizzarle con youtuber e tutorial… Drammaticamente sul nostro presente di guerra l’Aida di Michieletto. Opera del Trionfo per quella scena (saccheggiata dalla pubblicità e storpiata dai cori da stadio) che sta proprio a metà della partitura e spacca in due il racconto. Prima la guerra che si fanno i popoli. Poi quella che si dichiarano, in nome dell’amore, gli uomini. Ma sempre guerra è. Ed è devastante. Ieri come oggi.
La guerra che Michieletto ti butta in faccia già dalle note del Preludio verdiano. Sul palco la palestra di una scuola. Ferita dalle bombe, grandi crateri sul soffitto, si riempirà di cenere (che formerà una piramide (per accontentare chi vuole i monumenti egiziani altrimenti… non è Aida) nella scena drammaturgica di Paolo Fantin. Rifugio per chi non ha più una casa. Luogo della misericordia dove si distribuiscono scodelle di minestra calda. Dove Aida riempie taniche di acqua… perché è razionata, non più «schiava né ancella», non più «sorella» di Amneris, ma profuga tra i profughi. Coperta sulle spalle, terrore negli occhi, provvisorietà di una vita in attesa… sul pavimento con le righe del campo di basket di una palestra dove travi e cavalli ginnici raccontano un tempo perduto di giochi.
Tutto “succede” qui. Luogo della memoria dove Aida si rivede bambina. Felice. Si rivede mentre gioca, spensierata, con il padre e con la madre. Luogo di attesa, campo profughi che nel 2023, quando lo spettacolo andò in scena a Monaco di Baviera, poteva essere l’Ucraina, mentre oggi potrebbe essere da qualche parte a Gaza, in Myanmar, in Iran… Drammaticamente sul nostro presente di guerra l’Aida di Michieletto. Luogo dove il potere – quello del Re che comanda la guerra, quello di Ramfis, che bacia sulla bocca Amneris (la ama, la vuole possedere e fa di tutto perché Radames venga condannato… per provare ad ottenere il suo oggetto del desiderio) e uccide a tradimento Amonasro sparandogli alle spalle – luogo dove il potere spegne i sogni. Che diventano incubi, in quel pugno nello stomaco che è la Marcia trionfale (tutt’altro che trionfale) durante la quale Michieletto ci porta nella mente di Radames, piagata da un disturbo post traumatico per tutti i morti, per tutto il sangue che ha visto in guerra. Mentre i reduci vengono decorati al valore dal Re su un grande schermo si rincorrono le immagini di quello che ha visto Radames… di quello che la sua mente, nel trauma della violenza, ha rielaborato… volti sfigurati, grondanti sangue… mentre la folla cannibalizza i suoi eroi… per poi ritrovarsi distesa a terra, cadaveri senza vita…
E allora non ci può essere trionfo. Non c’è nella musica che Zubin Mehta, ottantanove anni compiuti, dirige con braccio saldo. Un’Aida (la quarta fiorentina di Mehta) straussiana, tagliente, cupa e affilata. Che arriva sontuosa, “come una volta” grazie ad un’orchestra del Maggio musicale in grande forma (si sente ancora il lavoro fatto da Daniele Gatti che, dopo una parentesi di un anno, tornerà dal prossimo festival alla guida del Maggio). Aida mitteleuropea per tagli di luce lividi, per asciuttezza nel distillare il sentimento, quella di Mehta. In prefetto appiombo con il racconto visivo di Michieletto, asciutto e chirurgico, nel zie suo mettere uno in fila all’altro i fatti. Restituendoli in una sorta di reportage grazie alle scene di Fantin, ai costumi di Carla Teti che ci portano in un indefinito secondo Novecento, alle luci sempre sulla musica di Alessandro Carletti, al video (quello che ci porta nella mente di Radames nella Marcia trionfale) di Roland Horvat, ai movimenti coreografici (perché non ci sono le classiche danze, i moretti del secondo atto sono bambini a cui un’animatrice di qualche ong regala un momento di svago gonfiando palloncini sui trampoli e il Trionfo si risolve nella cerimonia di consegna delle medaglie al valore) di Thom Wilhelm, il tutto tenuto insieme dalla drammaturgia di Mattia Palma.
Rifinitissima in orchestra l’Aida di Mehta. Meno, forse, nel canto. Lasciato (con il rischio che prevalga l’esibizione, a tratti anche muscolare, sull’interpretazione) all’estro degli interpreti,. Chi debutta. Chi ha già cantato il ruolo. Chi dovrebbe approfondirlo. Ciascuno, in scena fa quello che se e che vuole fare. Mehta, imperturbabile, riconduce il tutto ad unità. Olga Maslova è una dolente Aida sin dal suo primo apparire in scena, sulle note del preludio. Aida dalla voce di luce e cristallo, musicalissima e granitica. Certezze che però si incrinano quando (specie nel terzo atto) il canto diventa più scoperto, quando la scrittura verdiana impone una perfetta sintonia con la buca che, vacillando, porta a una dilatazione dei tempi con la conseguenza di note calanti o fuori fuoco.
SeokJong Baek ha squillo e tempra per un Radames eroico (lo è da subito, tanto che non sfuma nel silenzio il «trono vicino al sol» del Celeste Aida), tutto istinto. Ma che sa trasfigurasi nel finale trovando un lirismo poetico per restituire, in commovente sintonia con la Maslova, lo sguardo di speranza che Verdi (e anche Michieletto…) mettono come suggello a un racconto di guerra. «O terra addio, addio valle di pianti… a noi si schiude il ciel…». E ci alziamo in volo, osservando la terra dall’alto… la tomba, ribaltamento deli canoni tradizionali del racconto di Aida, è in alto. Un cielo che si schiude… mentre sulla terra, piegata e piagata, stesa al suolo, incapace di alzare lo sguardo (alla speranza) resta Amneris. Che è una sempre graffiante Daniela Barcellona, tecnica e intelligenza musicale per gestire tutte le asperità, i salti di registro, per salire le vette e scendere negli abissi disegnati da Verdi per Amneris.
L’Amonasro di un puntuale Daniel Luis de Vicente, voce pastosa e canto preciso, si prende un colpo di pistola nella schiena da Ramfis, anima nera dell’Aida di Michieletto, sinistro tessitore di trame, uomo dell’ombra che Simon Lim restituisce alla perfezione con una voce sempre piena e a fuoco. Come quella di Manuel Fuentes, presentissimo Re, voce bella, torrenziale, gestita con grande intelligenza musicale e drammaturgica… capace di imporsi pur in una parte “di contorno”. Toccante il racconto del M essaggero di Yazhou Hou, svettante il canto della sacerdotessa di Suij Kwon.
Tanti figuranti. Tanti bambini in scena. Niente trionfo (e anche il Coro del Maggio di Lorenzo Fratini non declama, ma racconta quasi come se il Trionfo fosse un reportage di guerra in presa diretta). C’è però una speranza. Un aldilà che si apre in alto (il palcoscenico si alza, chiude la visione della palestra invasa dalla cenere in un lungo e stretto cinemascope mentre l’inferno rimane sulla terra dove Amneris si contorce) e che schiude ad Aida e Radames, sposi trasfigurati in una festa con fisarmonica, violino, palloncini e uomini e dome che ballano come sull’aia di un cortile di campagna in una sagra di paese, un cielo di affetti. Un paradiso perduto, perché sulla terra è stato sfregiato (e continua ad esserlo) dalla guerra.
Nelle foto @Michele Monasta Aida al Maggio musicale fiorentino