Arena, Nabucco ai tempi della bomba atomica

A Verona apertura della stagione 2025 con l’opera di Verdi Regia coreografica e simbolica in formato tv di Stefano Poda Dirige Pinchas Steinberg, cantano Enkhbat, Pirozzi e Tagliavini

Inconfondibile il simbolo della radioattività. Il trifoglio di eliche nere intorno a un cerchio, nero anche lui. Si vede bene. «Achtung». Pericolo. Infatti vengono maneggiati con cura, da tanti uomini in tuta e casco protettivo, i pezzi della testata nucleare che si compone, nel mezzo della grande pedana inclinata tutta specchi, mentre scorrono le note della Sinfonia. La Sinfonia – una delle più belle di tutte, una delle più belle di sempre – di Nabucco. Scorrono, uno in dissolvenza nell’altro, i temi che torneranno nell’opera di Giuseppe Verdi… la maledizione su Ismaele… «il maledetto non ha fratelli», la menzogna del potere… «noi già sparso abbiamo fama»… e ti verrebbe da cantarli… poi arriva il Va, pensiero, oasi di nostalgia per una pace (irrimediabilmente?) perduta… Scorrono mentre sulla grande pedana inclinata si costruisce una testata atomica. Corto circuito di musica (la conosci da sempre, è parte del dna…) e immagini (che hai imparato a conoscere con il tempo). Di fronte alla minaccia che incombe ci si arma. Fino ai denti… E questo non è un corto circuito, è cronaca di tutti i giorni.

Inconfondibile il simbolo della radioattività su quel missile bianco che getta un’ombra di fredda paura nel caldo soffocante dell’Arena. L’Arena di Verona. Pezzo per pezzo il siluro prende forma. Poi viene portato a spalla, su su per la scalinata bianca che si inerpica per i gradoni di marmo… dove (lassù) c’è una clessidra, stilizzata, con la scritta «vanitas». Pensi a Qoelet mentre segui l’incedere di una marcia funebre, immagine potente, per un mondo sull’orlo del baratro. Perché quel trifoglio nero, perché quella testata atomica che viene portata in processione, mostrata e “adorata”, aprono uno squarcio di drammatica e febbricitante attualità (sicuramente) non prevista quando si è pensato a come raccontare oggi Nabucco, storia del popolo ebraico deportato a Babilonia… Attualità spiazzante, non pianificata (impossibile averlo fatto… saremmo nel campo della profezia…) a tavolino, ma prepotentemente entrata nel racconto che Stefano Poda ha voluto imbastire sulla partitura, il Nabucco appunto, di Giuseppe Verdi.

Un Nabucco atomico… lo aveva pensato il regista tentino, dove l’atomo, quello che abbiamo studiato sui libri di scuola – protone, neutrone, elettrone –, dove l’atomo doveva essere metafora (anche visiva in quelle due sfere che roteano sulla grande pedana inclinata per tutto il corso dell’opera per poi intrecciarsi alla fine) metafora di due popoli contrapposti che alla fine si fondono – forse quella fusione nucleare, quell’energia pulita che gli scienziati inseguono da tempo. È diventato un Nabucco atomico – da fissione nucleare, questa volta, quella che scinde, divide… – per le minacce alle quali la Storia ci mette di fronte in questo tempo. Si inaugura la stagione 2025, la numero centodue, dell’Arena di Verona. Ma gli occhi corrono spesso sui telefonini. Per le ultime notizie che arrivano dal Medioriente. Perché la notte prima della Prima Israele ha bombardato l’Iran – e Teheran colpisce, in tutta risposta Tel Aviv. Eccolo un altro corto circuito della storia e della Storia. Israele, erede oggi del popolo ebraico (che a sua volta, nelle intenzioni di Verdi, era immagine del popolo italiano che cercava l’unità nel Risorgimento) che il compositore mette in scena. L’Iran, terra che confina con la Babilonia di allora (l’Iraq di oggi), la terra di Nabucco e della deportazione per il popolo ebraico. Corto circuito non solo perché i rimandi ci buttano in faccia l’attualità del racconto musicale. Ma perché, per molti, oggi le parti si sono invertite. Israele (non l’ebraismo… intendiamoci), Israele ferito il 7 ottobre, bombarda Gaza, assedia (e uccide) bambini, attacca l’Iran…

Realtà che prepotente irrompe sul palco dell’Arena. Con quell’immagine, il trifoglio atomico sulla testata nucleare. Che, però, resta confinata a idea. Non trova un suo sviluppo drammaturgico nella regia di Poda, uguale – quasi una copia fatta a carta carbone, dunque un po’ sbiadita e dai contorni spesso incerti – dell’Aida (sempre areniana) di due anni fa. Allora, in platea, c’era il Capo dello Stato Sergio Mattarella e in cielo volavano le frecce tricolori. Il 13 giugno, per la premiere 2025, coro vestito di bianco, rosso e verde per l’Inno di Mameli – e se il pubblico alla fine ci mette il sigillo del «sì!», il coro di Roberto Gabbiani, memore della lezione del 2 giugno di Riccardo Muti a Ravenna, non lo spiattella – e quattro ministri guidati da quello della Cultura Giuli, ma anche l’ex cancelliera tedesca Angel Merkel, appassionata melomane, arrivata a Verona in visita privata con il marito e con regolare biglietto acquistato al botteghino.

Nabucco calco dell’Aida. La piattaforma inclinata tutta specchi sembra la stessa (e potrebbe essere funzionale dato che in cartellone, quest’anno, c’è ancora l’Aida del 2023), i movimenti delle masse si assomigliano, agglomerati di corpi che fagocitano i solisti (con la conseguenza che spesso li perdi nella folla), figuranti che contrappuntano tutta l’azione in un moto perpetuo (a volte anche rumoroso e sopra la musica) che fa del gesto la scenografia, astratta, simbolica, ma poco “calata” nella specificità di Nabucco. Così i luoghi dell’azione diventano uno solo, il palco vuoto con le due metà dell’atomo e la grande clessidra che si spezza quando, alla fine, per un «divin» prodigio l’idolo che i babilonesi si sono costruiti si infrange. Stesso luogo di Aida, che potrebbe essere un grande studio televisivo. Perché anche il Nabucco 2025 è misura di tv, ripreso dalle telecamere Rai (invasive, onnipresenti) per la trasmissione su Rai 3 il 21 giugno – l’opera, per la cronaca, è iniziata quasi alle 22 (orario previsto 21.30) perché, preannunciata dalla sigla dell’Eurovisione, è stata registrata la presentazione, tra palco e platea, di Cristiana Capotondi e Alessandro Preziosi. Tutti dentro uno studio tv, due steady-cam sul palco, spesso prepotentemente tra i coristi, una a scorrere in proscenio e una a volare sulle teste degli spettato, (anche loro dentro lo studio, con tanto di indicazioni stampate su un volantino su quando e come applaudire, su quando e come (senza far rumore con le sedie) alzarsi in piedi per il Canto degli italiani.

Nabucco calco dell’Aida. Inevitabilmente in minore. Ed è un peccato perché Poda, che firma regia, scene, costumi, luci e coreografie (lo assiste Paolo Giani Cei), mette in campo idee drammaturgicamente interessanti che, però, non riescono a trovare la via del palcoscenico. Dove la regia diventa una grande coreografia – e sembra che sia proprio Poda lo “scopritore” delle danze che Verdi scrisse per una ripresa di Nabucco a Bruxelles, danze che Riccardo Chailly eseguirà il prossimo anno nel Nabucco che segnerà la chiusura della sua direzione musicale alla Scala, Nabucco che avrebbe dovuto avere proprio la regia di Poda, ma che poi è passato (forse per non avere due Nabucchi targati Poda a distanza di poco tempo e di pochi chilometri) ad Alessandro Talevi. Una coreografia dove ci sono schermitori che si lanciano continuamente assalti, dove i laser disegnano architetture nel cielo e dove i personaggi sono ingabbiati (letteralmente) in cubi, prigioni del corpo e dello spirito.

Perché Nabucco racconta questo. Racconta un percorso di liberazione. Dall’egoismo. Dal male. Tutti cambiano. Nabucco cambia, chiede perdono al «dio degli ebrei». Cambia Abigaille. Cambiano inevitabilmente Fenena e Ismaele. Cambia anche Zaccaria, prima pontefice che invoca la guerra e poi sacerdote che chiede pace. Quasi sottovoce. Perché oggi siamo circondati da gente che urla. E sottovoce, sussurrato, è anche il Nabucco di Pinchas Steinberg, ottant’anni a dicembre. Basta ascoltare il Va’ pensiero – che dal 2 giugno, da Muti e Ravenna, è ormai va-vigola-pensiero – sussurrato, senza picchi, quasi detto senza speranza. Lo senti addosso. Il pubblico lo sente addosso. E non chiede – cosa che ormai è pressoché d’obbligo in arena – il bis. Davvero strano. Ma la lettura di Steinberg non trascina, è tutta in rincorsa (spesso gli sfugge il coro, spesso i solisti devono assestarsi per essere in appiombo sulla musica), in affanno… corretta, nel solco della tradizione si direbbe, ma manca di italianità, di quel calore (e colore) tutto italiano che (lungi da patriottismi fini a se stessi) è la cifra del melodramma. Il coro di Gabbiani il colore ce l’ha, lo tira fuori negli Arredi festivi, nel bellissimo finale di terzo atto, «già si scuote di Giuda il leon» con un trascinante Roberto Tagliavini, Zaccaria (ruolo che il basso canta dappertutto, ma quasi mai in Italia) gigantesco e misuratissimo, pasta e colore bellissimi nella voce, nobiltà nel fraseggio, giusti accenti (non ce ne è uno fuori posto), capacità di unire parola e note, in un canto che diventa teatro.

Ed è teatro, all’ennesima potenza (specie nel toccante e dolente finale, «Su me, morente, esanime… discenda il tuo perdono…»), anche il canto di Anna Pirozzi, lama tagliente che sa vestirsi di seta per un’Abigaille che il soprano sbalza nel solco di una tradizione (e qui ci stanno anche gli spazi ampi e aperti dell’arena) che mette da parte l’anima belcantistica del personaggio, per disegnarlo nella sua statura tragica. Nabucco ha la voce bellissima, ma questa volta screziata e un poco segnata.. con soppressa di tanti (dal caldo, dalla stanchezza… chissà) di Amartuvshin Enkhbat. Che resta un grande Nabucco, tutto interiore, niente esteriorità, niente isterismi… tanto che alla fine (scelta, certo, della regia) se ne va, solo, sulla lunga scale che attraversa la scena… e non lo vedi più. Se ne va lassù, da dove era arrivato all’inizio. Quasi proiezione della mente degli altri personaggi che hanno bisogno di un “cattivo” per giustificare le loro azioni. Vasilisa Berzhanskaya è una sempre incisiva Fenena, con una voce bellissima, timbratissima in acuto e in centri e bassi avvolgenti. Francesco Meli si concede il lusso di essere Ismaele. Lascia il segno, scenicamente e soprattutto vocalmente Gabriele Sagona come Gran sacerdote di belo, svetta in acuto Daniela Cappiello che è Anna, mentre Carlo Bosi è ancora Abdallo.

Fumo. Fuoco. Perché la testata nucleare, quella con le tre eliche nere, che è stata montata sulle note della Sinfonia, scoppia. «Achtung». Pericolo. Siamo tutti a rischio contaminazione. Esplode nelle viscere del palcoscenico. Quando Nabucco, racconta la storia, viene colpito da un fulmine. «Non son più re, son dio!». E la mente si smarrisce. Il peccato originale. Quello dell’albero della conoscenza del bene e del male dell’Eden. Voler essere come dio. Il peccato che, drammaticamente, ci racconta oggi la Storia. Nelle bombe, nei missili, nei droni… che uno stato scaglia sull’altro. Atomi impazziti in un delirio di onnipotenza che ci mette tutti a rischio. Tutti sull’orlo del baratro.

Nelle foto @Ennevi Nabucco all’Arena di Verona