Spirei, i giovani di oggi nel mio Hamlet politico

Al Regio di Torino il regista propone l’opera di Thomas portando la tragedia di  Shakespeare in un mondo di fantasmi Prima volta in scena della versione originale per tenore

«Essere o non essere? Chi non lo ha mai pronunciato almeno una volta. Frase iconica. Che si adatta a qualsiasi situazione. Dall’incertezza sul tipo di scarpe da indossare alle grandi domande della vita. «Essere o non essere? La più grande domanda della nostra vita. Cosa dobbiamo fare quando un compito più grande di noi cade sulle nostre spalle? Dobbiamo diventare i nostri genitori? Il loro spirito di rivalsa?». Così la intende Jacopo Spirei. Perché tra le mani ha Amleto. O meglio. Hamlet, l’opera che Ambroise Thomas, mettendo in musica il libretto di Michel Carré e Jules Barbier, scrive per l’Opéra di Parigi nel 1868. «Libero adattamento, come ogni trasposizione, della tragedia di Willian Shakespeare» racconta Spirei, regista del nuovissimo Hamlet in scena al Teatro Regio di Torino. Prima volta al mondo in forma scenica della versione originale dell’opera dove il ruolo del protagonista è affidato alla voce di tenore e non di baritono come siamo abituati a sentire. Anche se Hallet non sia scolta così spesso. Tenore che a Torino è John Osborn. Con lui Sara Blanch che è Ophélie, Clémentine Margaine che è Gertrude, Riccardo Zanellato che è Claudius e Alastair Miles che è la voce dello spettro del padre di Hamlet. Sul podio Jérémie Rhorer. Scene di Gary McCann, costumi di Giada Masi, coreografia di Ron Howell. Per provare a dare una risposta alle domande di Hamlet. «Domande senza risposta, responsabilità troppo grandi, una realtà traumatica che genera incubi di ogni specie. Questo Hamlet – racconta Spirei, fiorentino, classe 1974 – è un viaggio all’interno di noi stessi attraverso l’introspezione, la domanda, la ricerca».  

Jacopo Spirei, come racconti Hamlet, opera ispirata alla tragedia di Shakespeare che tutti pensiamo di conoscere anche solo per la frase diventata proverbiale, Essere o non essere?, appunto…?

«Lo si racconta per negazioni, è un curioso esempio di drammaturgia: sia l’Amleto di Shakespeare che questa opera di Thomas, negandosi diventano teatro allo stato puro. È un’opera che procede per negazioni e per rotture di sperimentazioni, è un’opera che si dedica a essere teatro totale, quindi entra nelle viscere dei personaggi e li racconta con un ritmo bizzarro e incessante. È un viaggio all’interno della nostra anima».

Chi è Hamlet nel tuo racconto? E chi sono Ophélie, Gertude, Claudius?

«Amleto è un giovane il cui mondo viene sovvertito, dove il giusto diventa ingiusto e viceversa, gli viene gettata addosso una responsabilità al di sopra della sua capacità e volontà. Ophélie è l’unica che cerca di ribellarsi e liberarsi, ma viene schiacciata da un mondo che non ha posto per l’amore e la libertà, viene schiacciata da Hamlet, ma anche dalla crudeltà di Gertrude che non esita ad usarla per i suoi scopi. Il tutto sullo sfondo di un usurpatore, Claudius, che ha sempre la stessa faccia dei leader violenti e populisti».

Hai scelto l’attualizzazione? E se non visiva, quale l’attualità delle parole di Shakespeare riadattate e messe in musica da Thomas?

«È un allestimento attuale nel sentire, per così dire, moderno nella sensibilità, nonostante usi codici visivi più antichi. È un viaggio in un mondo gotico con echi dell’Ottocento, mi viene in mente Penny Dreadful, Poor things, fino alla Sposa cadavere e alle atmosfere di quella letteratura. In fondo è un mondo popolato di incubi, mostri e fantasmi».

Le trasposizioni fanno perdere sempre qualcosa dell’originale. Nell’opera di Thomas cosa si perde della tragedia shakespeariana? E invece cosa ci guadagna il racconto con la la trasposizione in musica?

«Thomas fa quello che si fa in ogni adattamento, si traduce una forma d’arte in un’altra, contigua, ma diversa. Quindi inevitabilmente c’è un lavoro di asciugatura e trasformazione necessario per trasformare Amleto in Hamlet. Riduzione dei personaggi, semplificazione della trama, l’esempio più lampante è l’eliminazione di tutto lo sfondo politico della vicenda: il pericolo è nel palazzo e non una minaccia

esterna, il che lo rende una storia estremamente claustrofobica che non esce mai all’aperto. È un esperimento di un fascino estremo, un’opera che vale assolutamente la pena di vedere e ascoltare».

A Torino per la prima volta in forma scenica Hamlet sarà interpretato da un tenore, come nelle intenzioni originali di Thomas. Il registro vocale incide sulla lettura del personaggio?

«Inevitabilmente, il personaggio diventa più giovane, più impetuoso, ma allo stesso tempo un antieroe che fallisce. E questo in effetti col tenore è un elemento che risalta particolarmente: ci aspettiamo che la voce di tenore sia sempre legata al giovane eroe, tragico o no, che affronta le intemperie della vita, qui Hamlet è sempre in fuga da se stesso».

Hamlet, come molte opere, ebbe una grandissima fortuna dopo il debutto. Nel tempo venne un po’ dimenticata. Ora torna. Mode? O necessità anche etica di mettere in scena domande, quelle di Hamlet che interpellano la nostra società?

«La nostra sensibilità sta cambiando, i nostri valori si stanno trasformando in altro. Hamlet è più attuale che mai. In un mondo che non ritrova se stesso, la voce di Hamlet ci chiama con forza, il continuo interrogarsi ci stimola oggi più che mai a cercare risposte, che temiamo impossibili».

Un’opera ispirata a Shakespeare, alla più nota delle sue tragedie. Teatro di parola, dunque. Ne tieni conto nella tua regia, nella recitazione che chiedi agli interpreti?

«Il testo è essenziale, così come la musica. È necessario avere profonda conoscenza di entrambi per entrare dentro il materiale e fare ricerca vera. Parto sempre da questo presupposto: il testo è un elemento fondante dell’opera e imprescindibile, è la base del lavoro interpretativo che si andrà poi a fare con i cantanti, artisti che portano la loro sensibilità e capacità per esplorare a fondo il

materiale su cui lavoriamo».

Quale l’atteggiamento che chiederesti allo spettatore che si appresta a vedere il tuo spettacolo?

«Quello che chiedo sempre: cuore aperto, mente aperta. Il teatro è un posto bellissimo, è il luogo dove noi ci incontriamo e ci confrontiamo con noi stessi e con gli altri in un’esperienza condivisa. Può essere tutto e non si sa mai cosa succederà. È una figata assoluta, un mondo non mediato da nulla, nessuna tecnologia che faccia da filtro, ma esperienza di corpo allo stato puro».

Una carriera, la tua, più che ventennale. Ti capita di fare bilanci? Sei il regista, l’uomo di spettacolo che da ragazzino sognavi di essere? O avevi altri progetti?

«È difficile rispondere a questa domanda, se non altro perché non mi sono mai guardato indietro, sono sempre proiettato verso il futuro, progetti nuovi, cambiamenti, ma soprattutto ricerca costante e incessante. Sono stato molto fortunato nella vita e sento la responsabilità di questa buona sorte. Credo che il ragazzino che sognava questa cosa sarebbe sorpreso per come è andata e sta andando. Per me questo mestiere è stato una chiamata, quando mi resi conto che si poteva cambiare il mondo anche con il teatro non ho esitato e gettarmici anima e corpo. Credo che se nella sua vita un artista riesca a cambiare, anche di poco, la vita degli altri e lasciare questo mondo un pochino meglio come lo ha trovato, abbia compiuto la sua missione. Penso sia orribile fare questo mestiere per soldi e successo, non oso immaginare una sorte peggiore».

Molti i tuoi impegni all’estero, regie, ma anche percorsi formativo come quello presso la Kunsthøgskolen di Oslo… l’Italia dimentica i suoi artisti?

«Io ho fatto un percorso molto particolare, anarchico oserei dire, sono completamente autodidatta (per quello sorrido quandoSpireimi chiamano a tenere laboratori di regia da docente), mi sono per così dire formato al teatro in inglese, un po’ per caso e un po’ per scelta, ho sempre avuto la curiosità di vedere quello che si fa in giro per il mondo, quindi non posso dire che sono stato abbandonato dal paese. Questo non toglie che ci sia una questione in merito, credo che ci sia una difficoltà nella committenza, purtroppo dettata da mille fattori. Faccio un esempio, se non si ha certezza di fondi è impossibile programmare a lunga scadenza, questo rende la scelta e la ricerca degli artisti molto complessa».

Sono giorni di dibattito tra arte e politica. L’arte cosa può e cosa deve dire del mondo di oggi? Delle guerre, dell’immigrazione, del clima… di tutte le tematiche che ci riguardano come cittadini? E come deve dirlo?

«L’arte deve essere una voce del dibattito sociale e politico, penso che la cosa peggiore che possa succedere al teatro e nello specifico all’opera lirica sia quello di diventare irrilevante. È un rischio concreto purtroppo. L’opera affronta grandissimi temi politici e culturali e deve necessariamente essere una voce che promuova la crescita dell’essere umano in ogni senso. Il teatro deve essere libero e anarchico, lo è per vocazione, il mio teatro è sempre un teatro politico e sociale, anche quando non sembra».

Nella foto @Marco Borrelli il regista Jacopo Spirei

 

Nella foto @Mattia Gaido Hamlet al Teatro Regio di Torino