Nel museo del tempo di Eduardo e Cristina Pesaro riscopre l’amore secondo Rossini

Diario rossiniano 2023/2

Al Rof per la prima volta in scena l’opera del 1819 presentata nell’edizione critica della fondazione Rossini Dirige Bignamini, regia/installazione di Stefano Poda Protagonisti Daniela Barcellona e Anastasia Bartoli

Reperti di un passato. Un passato che ha più di duecento anni. Da conservare con cura. Da mettere sottovetro, in una teca di cristallo. Trasparente su tutti i lati, per permetterti di guardare questo passato da ogni angolo. Vetro dalla fredda lucidità. Al quale appoggiarsi. Con il quale innescare un corpo a corpo che ha le movenze di una danza, quasi per trarre energia da quel passato. Per sentirne addosso le vibrazioni. Nitore che abbaglia, come in un laboratorio scientifico dove tutto è (e deve essere) asettico e sterilizzato. Per non intaccare quei reperti del passato. Che è un passato da scandagliare, da vivisezionare, per capirlo. Testimonianza di un tempo, di una civiltà, di una umanità di ieri che può (e necessariamente deve) dire qualcosa al nostro tempo, alla nostra cultura, alla nostra umanità. Statue. Frammenti di un passato. Teste, mani, braccia, gambe, piedi. Misti a tronchi di colonne. Cristallizzati, o meglio, cementificati in una grande parete che si perde in altro. E poi calchi di corpi. Distesi. Abbracciati – ed è la cosa più bella, l’immagine più eloquente che racconta un amore (coniugale o promesso, poco importa) che sa di eternità. Calchi di corpi, che poi sono corpi eterni, come quelli restituiti dal tempo che si è posato su Pompei, imprigionati dalla lava del Vesuvio e resi, appunto, corpi eterni. Simbolo di un amore che va oltre la morte. Oltre qualsiasi ostacolo terreno (che è quello che racconta l’opera). Messi sottovetro. In teche di cristallo.

Come Eduardo e Cristina. Partitura, perché è musica, musica di Gioachino Rossini datata 1818 (un passato che ha più di duecento anni), partitura che è rimasta sepolta a lungo. Imprigionata da una colata di silenzio – i motivi? chissà… certe cose non te le spieghi (o un po’ sì, forse), le apprendi e basta – che come la lava si è impastata alle note. Partitura messa sottovetro. Scandagliata, guardata da ogni angolo possibile, vivisezionata al microscopio per restituirla… «Come se si ascoltasse per la prima volta, come se fosse una prima assoluta di Gioachino Rossini». Una partitura con la quale è stato innescato un corpo a corpo. Dalle movenze come di una danza. Un corpo a corpo durato quarantaquattro anni, dall’edizione numero uno del Rossini opera festival di Pesaro. Dove, dal 1981 appunto, sono state messe in scena tutte le opere del compositore di casa, tutte in edizione critica… tranne Eduardo e Cristina. Andata in scena, trentanovesima dell’elenco, come titolo inaugurale del Rof 2023. Serata che ha chiuso un cerchio lungo quasi mezzo secolo – e in sala, quella della Vitrifrigo Arena, palazzetto dello sport trasformato in teatro, tanti rossiniani doc arrivati da mezza Europa per questa festa, chi con la borsa di stoffa con scritto I love Rossini, chi con una giacca con cuciti sopra tutti i titoli del catalogo del compositore pesarese.

Applausi festanti a scena aperta (anche dopo un semplice coro… non capita così di frequente a meno che non si tratti del Va’ pensiero), ritmati a fine serata – trasmessa in diretta su Radio3 e in prima serata su Rai5, ma che fastidio le telecamere Rai in teatro, invadente il braccio che fluttua nell’aria e ancora più invadente la telecamera che scorre (anche alzandosi) lungo tutto il proscenio, impallando spesso l’azione per il pubblico in sala. Applausi da tutti e per tutti. Per questo Rossini ritrovato – in realtà dopo il debutto al Teatro San Benedetto di Venezia il 24 aprile 1819 Eduardo e Cristina circolò sino al 1840 e poi sparì, ricomparendo fugacemente in Germania, al Festival Rossini di Wildbad, nel 1997 e nel 2017, ma non in edizione critica. Un Rossini messo sotto una teca da Stefano Poda che firma interamente (come sempre quando c’è il suo nome in locandina, e come sempre e la cifra è la sua, inconfondibile, quella di tante Turandot, Nabucco, Thais… fino alla recente Aida che ha aperto il cartellone numero cento dell’Arena di Verona) Stefano Poda che firma interamente lo spettacolo inaugurale del Rof, regia, scene, costumi, luci e coreografie – e sono davvero tante perché tutta l’azione è contrappuntata da movimenti, movimenti di danza, movimenti di corpi, magma di umanità che imprigiona i personaggi, che si fa visione plastica e concreta e carnale dei pensieri. Movimenti (ripetuti e ipnotici come mantra) di un rito che si celebra e si perpetua. Il rito dell’amore, declinato in questa danza di vita e di morte in tutte le sue forme, da quello puro e intellettuale a quello più carnale.

L’amore che unisce indissolubilmente Eduardo e Cristina. La storia, siamo in Svezia, è quella di Re Carlo che ha una figlia, Cristina, che Giacomo, principe di Scozia, chiede in moglie. Ma Cristina è già unita in segreto, e ha pure un figlio, (e qui la letteratura è vastissima da Romeo e Giulietta a Norma) con Eduardo, comandante delle truppe svedesi che torna vincitore dalla battaglia contro l’esercito russo. Cristina, di fronte alle imminenti nozze, confessa la sua “colpa” (quella di amare e di essere madre e di essere fedele) e il padre, per non venir meno al suo ruolo e per non cedere all’etica della politica (attuale, vero?) la condanna a morte insieme allo sposo e al figlio. Pianti, preghiere di pietà… ma nemmeno l’offerta di aver salva la vita in cambio del matrimonio con lo scozzese (perché uccidendo Eduardo resterebbe vedova e dunque libera…) convince Cristina. Sembrerebbe finita. Invece Atlei, capitano delle guardie, personaggio che fa politica concreta, quella guidata dal buon senso, libera l’amico Eduardo che combatte ancora un volta per il suo re (quel Carlo che lo condanna a morte) e sconfigge nuovamente l’esercito russo. Eduardo torna da Carlo, gli offre la sua vita in cambio di quella della moglie e del figlio. Ma il re, commosso da tanto amore, perdona tutti e benedice la coppia e il piccolo Gustavo – un bimbo vivace, atletico, che non sta fermo un attimo, si arrampica in continuazione sulle impalcature delle teche che sono la grande installazione/scenografia.

Gustavo che, nella visione onirica e allucinata di Poda di Eduardo e Cristina (tutto nella mente dei personaggi) muore. Perché quel bambino vestito di bianco, con il quale il nonno Carlo gioca dopo la pace ritrovata, cade morto a terra sulle ultime note, lasciando il re di ghiaccio. privo di una discendenza. Mentre un altro bambino, vestito di nero come mamma Cristina e papà Eduardo, abbraccia i genitori. Nero, il colore del lutto, morti loro? Morti per Carlo?  Visione. Allucinazione? Poda non ce lo dice esplicitamente. Ci lascia il dubbio. E quell’amaro in bocca che sporca il lieto fine (che forse nella musica e nella partitura arriva troppo presto e troppo repentino) dell’opera. Che non a caso è lo stesso del Mosè in Egitto. Si chiude sulle note del passaggio del Mar Rosso del popolo ebraico – ma può essere un lieto fine la salvezza di un popolo mentre un altro muore? eco non solo della vicenda del popolo ebraico, ma di qualsiasi popolo oggi in guerra. Pagina, quella che Rossini scrive per la sua opera ispirata alle vicende bibliche, che tocca vertici assoluti di bellezza e che il compositore riprende e rimaneggia (diventa la scena della battaglia finale) per il suo Eduardo, che è un mix di melodie già ascoltate (ci sono Ermione e Adelaide di Borgogna, Ricciardo e Zoraide e, appunto, Mosè) e di pagine scritte ad hoc: echi mozartiani, prefigurazioni verdiane… in questa partitura che richiede un impegno nell’ascolto.

Reso ancor più impegnativo, perché la concentrazione richiesta è tanta, dalla regia/installazione di Poda. Tutta a rallenty, coreografia dell’anima dove i personaggi sono entità, monadi che fluttuano in un paesaggio asettico, da laboratorio, popolato di frammenti di statue e calchi di corpi – la scenografia ha un impatto innegabile, da togliere il fiato appena lo vedi e da continuare ad esplorare con gli occhi durante tutto lo spettacolo: una grande parte di fondo che è una colata di reperti e di antichità, quinte a lato che sono teche di vetro con uno sopra l’altro calchi di corpi, grandi teche con dentro frammenti di mani, braccia, gambe, piedi, teste che, ricomposti nel finale, formeranno un unico grande calco di due corpi abbracciati (come quelli che vedi a Pompei, cristallizzati nel loro atto di amore dalla lava). Personaggi Eduardo, Cristina, Carlo, Atlei e Giacomo, monadi, che mai si incontrano. Perché forse sono già tutti morti – o tutti reperti di un passato da mettere sotto una teca. Da guardare da diverse angolature. Da vivisezionare al microscopio. Idea (parliamo di idea drammaturgica? o è qualcosa di casuale) che ti suggerisce lo spettacolo di Poda e che ti spinge ad interrogarti sul senso di un festival come il Rof di Pesaro. Un museo dove catalogare e conservare asetticamente reperti del passato? O un teatro, dove si mette in scena la vita, più vera del vero. Dove ci si interroga sul nostro presente, attraverso reperti del passato. Da maneggiare con cura, certo. Ma con i quali innescare un corpo a corpo per sentirli addosso e provare a trarre energia (vogliamo chiamarla morale? insegnamento?).

Compito del Rof del futuro. Che dopo aver esaurito il percorso scientifico e musicologico, con la proposta scenica di tutte le opere in edizione critica (strada che piace tanto ai rossiniani di mezza Europa, ma che non è forse la strada più semplice per “allargare” il pubblico), ora potrebbe imboccare la strada delle riletture registiche e drammaturgiche (l’anno prossimo arriva Johannes Erath per Ermione, nel 2026 si parla di Tobias Kratzer per Maometto II) per provare a parlare al presente del presente con “reperti” del passato. Poda ci prova. Ci riesce a metà. Scegliendo di raccontare «come universale» e dunque fuori dal tempo una vicenda che, come tutte quelle raccontate nei libretti dei melodrammi, un tempo preciso lo hanno. Sarebbe stato meglio una regia “tradizionale”? Didascalica? Forse un po’ più “raccontata” sicuramente. Perché è vero, la storia è semplice, ma dato che si ascolta come se fosse “la prima volta” un’attenzione narrativa maggiore non avrebbe guastato… rileggere una Traviata o un Barbiere – per restare in campo rossiniano – sapendo che tutti, anche chi non ama l’opera, a di cosa “parlano” ha un senso e rende più semplice il compito della riflessione sul testo che Poda propone con il suo approccio di regia/installazione.

Stesso bivio, stessa scelta sulla strada da imboccare, anche per la musica. Quella di Eduardo e Cristina a tratti è bellissima (i cori, la pagina della battaglia), a volte frutto di un consolidato mestiere, ispirata in alcuni passaggi (la sortita di Eduardo, l’aria di Carlo D’esempio all’alme infide, la grande scena di Cristina) a volte narrativa, altre più metafisica (certi passaggi strumentali). Caratteri, sfaccettature ben restituite da Jader Bignamini che sul podio dell’Orchestra sinfonica nazionale della Rai (il coro è quello del Teatro Ventidio Basso, bene, ma non benissimo se si pensa ai risultati degli scorsi anni) non ha paura a restituire nella sua natura composita (la diversa provenienza delle varie pagine, pur nella sapiente orchestrazione rossiniana, si sente, inevitabilmente, messa ben in luce dall’edizione critica di Andrea Malnati e Alice Tavilla) la partitura in un continuo avanti e indietro, sin dalla Sinfonia, tra respiri sinfonici ed echi bandistici, tra sguardi all’indietro, al Settecento mozartiano, e proiezioni in avanti verso un romanticismo e un “patriottismo” verdiano. Direzione filologica, “giusta” per una prima come questa. E ora, eseguite tutte le trentanove opere, la via di un nuova interpretazione rossiniana potrebbe essere una delle linee guida dei prossimi Rof.

Bignamini tiene bene le redini del racconto musicale, sempre in appiombo con il palcoscenico. Dove ci sono rossiniani doc, anche di lungo corso, e nuove “scoperte” rossiniane. Come quella di Anastasia Bartoli che trova in questa scrittura il repertorio ideale per la sua voce, un fiume in piena di suono (e di temperamento), musicalissimo, a fuoco in alto e in basso, ideale per Cristina, donna risoluta e modernissima nel rivendicare il suo posto nel mondo e il suo diritto di scegliere, senza paura delle conseguenze. La Bartoli restituisce un canto intenso, a tratti commovente, presentissimo e rossiniano. Come quello (di lungo corso) di Daniela Barcellona, la pasta bella di sempre, la tecnica e l’intelligenza musicale che hanno contraddistinto ogni suo ruolo, una voce che sul bronzo di ieri ha una patina bellissima del tempo, che la rende ancor più preziosa e malinconica. Perché quello di Eduardo è un personaggio malinconico, eroe suo malgrado, guerriero di nome, ma uomo che sogno l’amore coniugale. Come Giacomo, lo scozzese, cui presta bella voce e nobile presenza Grigory Shkapura. E poi ci sono i tenori. Tenori rossiniani. Carlo, che ha (trasposta) la grande (e terribile) aria di Pirro dell’Ermione. L’affronta (e ne esce vincitore, acclamatissimo a scena aperta) Enea Scala che con una voce sempre a fuoco, proiettata, piena disegna un Carlo tormentato tra il suo ruolo politico e la sua natura d padre. E Atlei cui Rossini affida molti interventi e un’aria (presa in realtà dall’Odoardo e Cristina, stesso soggetto, del 1818 di Stefano Pavesi) che Matteo Roma restituisce con la sua voce di velluto e argento, morbida e luminosa, calda e nitida allo stesso tempo, capace di emergere nei concertati e di raccontare in musica il politico con il cuore (è Atlei che fa virare la storia verso il lieto fine).

Personaggi che ci vengono restituiti da Poda (li veste in bianco, in nero, a volte con cappotti fatti di affreschi e colori pittorici) come reperti di un passato, da guardare in una teca. Osservandoli da ogni angolo. Per capire – e i temi non mancano, l’amore coniugale, la coerenza della politica – come debbano, inevitabilmente, essere fatti uscire dal museo. Per parlare al nostro tempo. Con Rossini e la sua musica.

Nelle foto @Amati/Bacciardi Eduardo e Cristina al Rossini opera festival