Aureliano, quando Rossini riscrisse la Storia

Diario rossiniano 2023/3

Al Rof l’opera sulle conquiste in Asia dell’imperatore nell’allestimento cinematografico del 2014 di Martone Dirige George Petrou, protagoniste Blanch e Lupinacci

E sui titoli di coda, perché è questo il sapore dei rondò che spesso Gioachino Rossini mette nei finali (specie quelli lieti) delle sue opere, e sui titoli di coda appare la didascalia che ti spiega che, oltre alle vicende “romanzate” del film, anzi, in questo caso, dell’opera, c’è la realtà. Quella della Storia che non è andata proprio così come Felice Romani ce l’ha raccontata nel libretto, perché Zenobia non si è piegata ad Aureliano, non è tornata a regnare, ma è stata “deportata” a Roma per assistere al trionfo dell’imperatore Aureliano. La realtà della Storia. E la realtà di popoli perennemente in lotta, nell’inquieto e tormentato Medioriente. Oggi. Da sempre. Perché «quel confine è ancora segnato col sangue nei deserti mediorientali».

Il confine tra Asia ed Europa. Che quando lo attraversi non ti lascia indifferente. Perché capisci che veniamo da lì. Da lì e dalla Grecia. Eppure «nella geografia immaginaria creata in Europa è tracciata una linea di confine: l’Europa è forte e ben strutturata; l’Asia è lontana e sconfitta». Una frase di Edward Said, l’intellettuale palestinese – sempre critico nei suoi saggi sul concetto di Orientalismo – noto a chi mastica qualcosa di musica per essere stato l’anima, insieme a Daniel Barenboim, della West Eastern Divan orchestra, la formazione che mette uno accanto all’altro, allo stesso leggio, giovani musicisti israeliani e arabi. Una frase di Edward Said, sui titoli di coda (sul lieto fine) dell’Aureliano in Palmira di Gioachino Rossini, immaginato da Mario Martone come un film di quelli di genere peplum per il Rossini opera festival di Pesaro. Il palco della Vitrifrigo Arena diventa un set di Cinecittà – le scene le firma Sergio Tramonti e hanno i colori della sabbia del deserto e hanno la consistenza di un miraggio, leggere e trasparenti, i costumi, mediorientali per i siriani e romani per i romani li disegna Ursula Patzak. Le firma, li disegna… meglio, le ha firmate, li ha disegnati… perché il secondo titolo del Rof 2023 è una ripresa dello spettacolo immaginato da Martone nel 2014 quando la guerra in Siria c’era già, ma quando Palmira non era ancora stata distrutta – allora realizzato per la piccola ribalta del Teatro Rossini, oggi ha traslocato sul palco della Vitrifrigo Arena dove è stato ripensato in cinemascope.

Il taglio cinematografico ci sta sempre (ma certe “ricostruzioni” da set fatte dal vivo, su un palco d’opera dove non c’è il filtro del grande schermo rischiano di fare un po’ l’effetto presepe e non solo perché a un certo punto compaiono pastori e tre caprette). Ci sta sempre perché il cinema, come l’opera d’altra parte, non è un documentario. Non può e non vuole esserlo. Vuole essere, è e deve esserlo, una riflessione su fatti (anche storici, ma vanno bene anche storie piccole, di famiglie e di uomini comuni) che trasfigurati dall’arte (e dalla musica) diventano universali. Lo sappiamo, Giulio Cesare non ha conquistato l’Egitto così come ce lo racconta nella sua opera George Friederic Handel e la distruzione del tempio di Gerusalemme da parte di Nabucodonosor non è andata esattamente come la descrive Giuseppe Verdi nel suo melodramma. E così nemmeno la conquista di Palmira, meglio, la riconquista, da parte dell’imperatore romano Aureliano (la Storia ci dice anno 272) è avvenuta come la raccontano Rossini e il suo librettista Romani. Ai quali, forse, non interessava fare un documentario in musica. Ma parlare d’amore.

Un amore coniugale che è più forte di tutto. Anche della ragione di stato. Anche della politica diremmo oggi. Perché «forte come la morte è l’amore». Filo rosso che attraversa i titoli del Rof 2023, ben “raccontato” nel titolo inaugurale, il ritrovato Eduardo e Cristina dove una donna (Cristina) preferisce morire piuttosto che non essere fedele all’uomo (Eduardo) a cui ha giurato amore. Declinato, in una delle tante, possibili variazioni, anche nell’Aureliano in Palmira dove Zenobia, regina di Palmira, e Arsace, principe di Persia, preferiscono la morte a una libertà senza amore (o nelle braccia d’altri). Ma qui, come in Eduardo e Cristina, Rossini sceglie il lieto fine. Aureliano, come il Tito di Mozart (e in un’aria sembra di sentirla l’eco dell’ultima opera del salisburghese), compie un atto di clemenza e perdona. Lieto fine. E sui titoli di coda appare la didascalia – e l’effetto non è dei più riusciti, disturbante rispetto alla musica perché leggendo la riflessione di Said ti “perdi” la musica. Ti perdi il «copra un eterno oblio, ogni passato errore» sul quale, poi, lo schermo (il palco) va a nero.

Forse perché la clemenza non è parola che oggi ha diritto di circolazione nella politica. Quella che preferisce fare la guerra piuttosto che sedersi ad un tavolo e trattare – la Russia di Putin, certo, ma anche tanta Africa di tanti dittatori, ma anche tanta America Latina di tanti regimi (apparentemente democratici) totalitari. Perché, lo sappiamo, ogni giorno si combatte la «terza guerra mondiale a pezzi». E forse sarebbe stato interessante (drammaturgicamente) “aggiornare” lo spettacolo di Martone del 2014 e magari trovare un gancio con un’attualità che di spunti ne offre anche troppi. Spettacolo che, comunque, funziona. Nella sua iconografica (illustrativa e a tratti bozzettistica) narratività. Dove la recitazione è curata. E dove – cifra distintiva di tanti lavori di Martone, dal cinema alla prosa alla lirica – la contemporaneità fa irruzione in un contesto storico del passato. E qui è il fortepiano presente in scena, presenza che al primo momento spiazza, poi elemento drammaturgicamente significativo perché Hana Lee (che lo suona benissimo con stile e fantasia musicale che ben si fondono) contrappunta con il suo sguardo penetrante le azioni dei personaggi… ora in apprensione per il loro destino, ora pietosa, ora partecipe… ponte tra noi spettatori di oggi e il Rossini che (al fortepiano) componeva la sua musica per l’Aureliano.

Musica che è bellissima. Ispirata. Intensa. Sublime a tratti, capace di portarti in un’altra dimensione. E capace di spiazzarti. Perché partono le note della Sinfonia e hai un attimo di smarrimento. Perché è la stessa del Barbiere di Siviglia e la stessa dell’Elisabetta regina d’InghilterraAureliano è del 1813, scritta per la Scala, Elisabetta del 1815 e il Barbiere del 1816. Qui, dunque, originale. Tanto più che torna nel corso dell’opera (e il coro iniziale rispunterà nel Barbiere nell’Ecco ridente in cielo del Conte d’Almaviva) strumentale e impastata al canto. Così come è chiara l’eco, meglio la profezia in musica, della Semiramide nei duetti tra Zenobia e Arsace. Che sono Sara Blanch e Raffaella Lupinacci. Protagoniste assolute (e in questo Rof 2023 la coppia soprano/mezzosporano en travesti è tornata con autorevolezza e forza musicale nei tre titoli), intense, musicalmente straordinarie e scenicamente efficaci. Sara Blanch ha una voce di luce, cristallina, capace di raggiungere le vette della scrittura rossiniana con una naturalezza che sorprende. Una voce bella, che il soprano governa con disinvoltura che poggia su una tecnica solidissima, che si illumina in acuto per poi adombrarsi di malinconia quando scende in basso. Diva (del cinema) nei vestiti che la Patzak le cuce addosso (perfette le forme dell’abito nero, avvolgenti gli ori luccicanti del mantello) e nella presenza scenica che calamita l’attenzione. Piegata su se stessa (se stesso) e sul suo dolore Raffaella Lupinacci che disegna un Arsace provato dal destino, ma mai sconfitto. Voce di autentico mezzosoprano (i centri sono bellissimi, i bassi pieni, gli acuti luminosi e sempre timbrati e volanti) quella della Lupinacci, che si impasta perfettamente (e anche l’intesa scenica è notevole) a quella della Blanch nei duetti che sono di una bellezza da togliere il fiato – entrambe, poi, nelle arie e nelle grandi scene lasciano il segno e strappano lunghi applausi.

Ben sostenute dalla direzione di George Petrou sul podio dell’Orchestra sinfonica Rossini (efficaci e precisi i musicisti, meno a fuoco la resa del coro del Teatro della Fortuna di Fano, anche a livello scenico). Petrou restituisce un Rossini palpitante, struggente nel racconto di una parabola amorosa che ti arriva se non come un pugno nello stomaco (perché la musica non è mai di quelle che ti danno uno schiaffo, come in Verdi, ad esempio) almeno come una stretta al cuore. Perché pensi non solo agli amori, ma anche agli affetti ai quali hai dovuto dire addio. Petrou offre una lettura intensa, capace di farti cogliere i rimandi (temi e melodie) che torneranno nel Rossini che verrà, ma anche di decontestualizzarli, meglio, di ricontestualizzarli nella narrazione musicale dell’Aureliano.

Che è, l’imperatore romano, un puntuale ed efficace Alexey Tatarintsev, voce bella, proiettata, sicura in acuto (e Rossini gliene chiede molti e spesso in alto in alto…), che in qualche modo supplisce ad una presenza scenica forse non così calamitante e carismatica – come quella della Blanch o della Lupinacci. O di Marta Pluda, Publia teatralmente incisiva (per lei molti recitativi) e musicalmente a fuoco, capace di strappare un applauso convinto nell’unica aria che Rossini le offre, Non mi lagno che il mio bene. Squillo avvolgente per Sunnyboy Dladla che è Oraspe. Davide Giangregorio è un preciso Licinio, meno incisivi il Gran Sacerdote di Alessandro Abis (se sul leggio non ci fosse l’edizione critica sulla sua aria piomberebbe la scure dei tagli) e il Pastore di Elcin Adil.

Martone li mette in fila, in proscenio, sui titoli di coda. In alto la frase di Edward Said. In proscenio cala un velo nero che fa da diaframma (quasi schermo cinematografico) tra il pubblico e le vicende narrate. Per mettere una distanza tra la Storia reinventata da Rossini e Romani e la Storia di cui noi, al di qua della quarta parete (o dello schermo), siamo impregnati. Per dire, forse, «noi abbiamo giocato, ma voi sappiate che di lì, da voi, si continua a soffrire e morire». Come, d’altra parte, ancora sa raccontarci Rossini. Con una storia che reinventa la Storia.

Nelle foto @Amati/Bacciardi Aureliano in Palmira al Rossini opera festival