Polvere di stelle nel Donizetti di Falaschi

A Bergamo in scena dopo 200 anni Chiara e Serafina portata dal regista nel mondo malinconico della rivista Quatrini dirige i giovani dell’Accademia della Scala

I camerini con le porte di legno, messi in fila sopra un ballatoio di servizio che affaccia direttamente sul palcoscenico. Le scale che portano sulla scena, una a destra e una a sinistra. Calata in proscenio un’americana con i fari ancora spenti. Polvere e silenzio. Quel momento sospeso, irreale e magico, prima che si alzi il sipario. Il già e non ancora di un sogno. Cinque camerini là in alto. E sopra ciascuna porta una stella. Il camerino della vedette di turno. Con tanto di stella ben in vista, appunto, perché, si sa, gli artisti sono un po’ (tutti o quasi) vanitosi. Un po’ nervosi (tutti o quasi) prima del debutto. Entrano ed escono, chiedono se tocca già a loro. Entrano ed escono dalle porte dei camerini. Porte di legno, come di legno è il Teatro Sociale, di legno i parapetti dei palchi, di legno il pavimento, di legno le travi a vista sopra la testa degli spettatori. Incastonato, il Sociale, in una delle vie strette di Bergamo alta, tra pietra e cielo. Stelle, anche in cielo. Non solo sulle porte dei camerini, in una sera fredda di novembre. Entrano ed escono, chiedono se tocca già a loro il soprano che farà Chiara e quello che farà Serafina, il mezzosoprano che sarà Agnese e quello che sarà Lisetta, il tenore che canterà la parte di Don Ramiro e il baritono che sosterrà quella di Picaro. Vanitosi e un po’ nervosi.

Gianluca Falaschi ci tira subito dentro l’eterno, bellissimo, sempre affascinante gioco del teatro nel teatro ancora prima che partano le note della sinfonia di Chiara e Serafina di Gaetano Donizetti. Già in quell’attimo di polvere e silenzio. In quel momento sospeso, irreale e magico, prima che si alzi il sipario. In quel già e non ancora di un sogno che può durare un secondo o una vita. La scena vuota. Noi siamo lì, nel buio di una sala dove tra poco si rappresenterà qualcosa. Comparse, già nei loro costumi da marinai, boys da rivista, puliscono il palco dai coriandoli della replica della sera prima. Polvere di stelle da spazzare via prima che partano le note della sinfonia. Note che non si ascoltavano da duecento anni, da quando, la sera del 26 ottobre 1822, la partitura naufragò (curioso dirlo di un’opera che inizia con una tempesta in mare) alla prima assoluta al Teatro alla Scala (anche se ebbe ben dodici repliche). Perché Chiara e Serafina è la riscoperta del Donizetti opera 2022 che propone la partitura su libretto di Felice Romani (storia, senza capo né coda, di due sorelle separate e poi riunite, in salsa piratesca, il sottotitolo è, appunto, Il pirata) in prima esecuzione in età contemporanea (edizione critica che Alberto Sonzogni ha realizzato sull’autografo originale per la Fondazione Teatro Donizetti) e con l’orchestra Gli Originali diretta da Sesto Quatrini, per restituire, con strumenti d’epoca, il suono del tempo.

Gianluca Falaschi ci tira subito dentro l’eterno, bellissimo, sempre affascinante gioco del teatro nel teatro e lo fa con una poesia infinita. Una poesia che sa di teatro artigianale, quello fatto di scene dipinte e costumi cuciti a mano, di corde e di americane a vista, di quinte e di fondali che rivelano sfacciatamente il “falso” della scena. Un “falso” capace, però, di lasciare spazio al sogno, a un mondo dove tutto è possibile, dove onde e nuvole fatte di legno e cartapesta evocano la spiaggia di Majorca (qui Romani ambienta la strana storia delle due sorelle) che si popola di marinaretti e hawaiane che fanno la passerella sulle note di Donizetti. Un sogno che si profuma di malinconia, un mondo che ha il sapore nostalgico della rivista, icona struggente di un tempo in cui il “sogno” del teatro riusciva a portati via dal “mondo” sull’orlo del baratro della Seconda guerra mondiale. Un attimo e ci ritroviamo a cantare «Ma ‘ndo vai…», in tournée nell’Italia occupata (e poi liberata) con Mimmo Adami e Dea Dani, le tragicomiche maschere di Polvere di stelle di Alberto Sordi e Monica Vitti.

Cartapesta e stoffa, legno e parrucche, trucco e paillettes. Qui, dietro le quinte di una rivista, appunto, Falaschi porta Chiara e Serafina. Così le scene dell’opera di Donizetti diventano i numeri chiusi di una rivista, dea che si rivela la scelta ideale per una trama nella quale ti perdi già dopo cinque minuti e si perdono anche i cantanti tanto che nel secondo atto, quando i fatti si ingarbugliano, Falaschi mette in scena quasi una lettura della partitura, attorno a un tavolo, come si fa in prova in prosa. Numeri chiusi dove comico e tragico convivono (ingredienti che sono presenti, naturalmente, nella musica del melodramma semiserio di Donizetti e che Falaschi ben asseconda), dove esotico e grottesco sono la cifra dominante di una narrazione che procede per immagini (bellissimi gli squarci pittorici con tagli di luce caravaggeschi, firmati da Emanuele Agliati, nelle scene dell’antro dei pirati, capaci di strappare un sorriso i “finali” da rivista) in un continuo dentro e fuori dalla storia, anche straniante nei cartelli molto brechtiani che identificano i personaggi e i loro sentimenti. Personaggi che Falaschi immagina come caricature – il naso enorme, il mento pronunciato, il trucco pesante, le parrucche enormi, i costumi disegnati con tratto marcato – dietro le quali ci sono, però, gli artisti. Vanitosi e nervosi. Ma anche umani, umanissimi. Che spesso restano senza parrucca, lo sguardo perso, spaesati di fronte all’impossibilità di rendere vera la storia che sono chiamati ad interpretare. Lo scarto tra l’arte e la vita.

Così lo spettacolo di Falaschi diventa una riflessione disincantata e stralunata (fatta attraverso lo sguardo malinconico e poetico del mondo della rivista, capace di dare ai sentimenti la giusta distanza temporale) sull’essere artisti. Artisti di un teatro artigianale, fatto di cartapesta e stoffa, artisti sempre con la valigia in mano, artisti chiamati a raccontare, nel già e non ancora di un sogno, la vita. Chiara e Serafina diventa quasi un’autobiografia scritta con la musica di Donizetti da Falaschi, costumista romano dal talento strabordante, con ago e filo sempre pronto e sempre drammaturgico nel vestire i “suoi” personaggi (e lo fa anche qui con costumi bellissimi e scene dal tratto poetico e sognante). Costumista, Falaschi, che da qualche tempo ha intrapreso la strada della regia – e ogni volta c’è un passo in più nella conquista di un mestiere appreso sulle assi del palcoscenico, artigianalmente. Così come artigianalmente apprendono il “mestiere” i giovani dell’Accademia di perfezionamento per cantanti lirici del Teatro alla Scala, protagonisti sul palco del riscatto (quasi un risarcimento dato che il fiasco venne proprio a Milano, al Piermarini), a duecento anni, dell’opera di Donizetti. Giovani che hanno fatto “tirocinio” accanto a Pietro Spagnoli, previsto in locandina come Don meschino, ma che alla prima, a causa di un’indisposizione, ha lasciato il posto a Giuseppe De Luca, nervi saldi, bella voce e giusto temperamento per il personaggio che già dal nome si presenta.

Dunque locandina tutta di giovani. Dove a lasciare il segno è la Serafina di Fan Zhou, voce (bella) e tecnica (solida) compensano il temperamento. Che non manca a Mara Gaudenzi, perfetta vocalmente e scenicamente nei panni di Agnese – tanto che si poteva osare di più e affidare al mezzosoprano, già applaudita in ruoli mozartiani e rossiniani da protagonista, una parte più di rilievo, ma il talento c’è e si vede. Prova in crescendo per Greta Doveri che è Chiara, la sorella perduta e ritrovata insieme al padre Don Alvaro anche lui creduto morto, che è Matias Moncada (che veste anche i panni di Don Fernando). Don Ramiro, il tenore innamorato di Serafina, è Hyun-Seo Davide Park, il pirata Picaro ha l’energia di Seung-Hwan Damien Park, Lisetta il fiume di voce di Valentina Pluzhnikova. Tutti impegnati con un’opera che nessuno, almeno in tempi moderni, aveva mai sentito. Opera che guarda a Rossini e nella quale c’è, in controluce, il Donizetti che verrà, quello dei grandi capolavori, delle grandi scene. La restituisce così, e con le sonorità del 1822 grazie all’orchestra Gli Originali, Sesto Quatrini che, però, in diverse occasioni perde i cantanti (la mano sinistra in avanti, a chiedere di seguirlo) con l’effetto di un fuori sincro tra buca e placo.

Palco dove, alla fine, le nuvole si dissolvono. Dove il lieto fine è assicurato. E dove, dopo la passerella finale (i movimento coreografici sono di Andrea Pizzalis), resta sul palco quella polvere di stelle che domani verrà spazzata via. Polvere e silenzio. Il già e non ancora di un sogno.

Nelle foto @Gianfranco Rota Chiara e Serafina al Donizetti opera di Bergamo