Con Muti nell’inferno sulla terra di Don Giovanni

Al Regio di Torino il direttore torna al capolavoro di Mozart leggendolo come meditazione della maturità sulla vita Luca Micheletti protagonista nella regia di Chiara Muti

Non è fatto di fiamme rossofuoco l’inferno di Don Giovanni. È piuttosto un groviglio di corpi. Nero, il colore della morte. Corpi di donne vestite a lutto, nera la veste, nero il velo che copre i loro volti. Un nero che le rende tutte uguali. Vittime di una violenza seriale che le fa identiche. Così le racconta Chiara Muti, regista del Don Giovanni di Wolfgang Amadeus Mozart al Teatro Regio di Torino (nuovo allestimento in coproduzione con il Teatro Massimo di Palermo). Anime inquiete che cercano (nella vendetta) una pace che comunque non le placherà. Le donne messe una in fila all’altra nel Catalogo di Leporello, conquiste usa e getta da collezionare compulsivamente: la bruna e la bianca, la grassotta e la magrotta, la grande e la piccina, la vecchia e la giovin, la brutta e la bella, prima mostrate così, “filologicamente” come la musica e il testo ce le raccontano e poi ombre, tutte uguali, nere e minacciose. Identiche. Fantasmi inquieti che popolano un palazzo in rovina (grigio, tetro, inquietante), adagiato sul palcoscenico come una fondale caduto dalla graticcia.

Donne, quelle che si aggirano in questo scenario allucinato, che sono l’inferno sulla terra di Don Giovanni. Punito in vita, il «dissoluto», prima ancora di morire. Condannato, come in un girone infernale in un contrappasso beffardo, a inseguire il desiderio senza mai poterlo soddisfare fino in fondo. Perché il desiderio sessuale, di carne e di corpi (magari, anche fisicamente consumato, ci sta) è soprattutto, lo sappiamo, un desiderio dell’anima, mai stanca di ricercare perché mai in grado di afferrare (e dunque di soddisfare davvero il bisogno) l’amore. Sfuggente. Imprendibile, l’amore. Sfuggente. Forse imprendibile il Don Giovanni di Mozart. Il capolavoro della vita (la vita del compositore, certo, ma anche la vita di chi non si stanca mai di confrontarsi, quasi una necessità che periodicamente si affaccia all’anima, con il dramma giocoso di Lorenzo Da Ponte) che, ad ogni età (della vita), ti dice qualcosa di diverso (sulla vita).

Capolavoro (della vita) che Riccardo Muti, trentacinque anni dopo averlo diretto per la prima volta – «era il 1987 al Teatro alla Scala, con la regia di Giorgio Strehler. Io avevo 46 anni e tremavo all’idea di affrontare questa pagina. E Giorgio dopo la prova generale mi disse: Non abbiamo fatto il Don Giovanni» ricorda spesso il maestro – Riccardo Muti trentacinque anni dopo averlo diretto per la prima volta torna ad “inseguire” al Teatro Regio di Torino. Inseguire. Perché forse è questo il destino di chi si confronta con questa partitura. Inseguirla, come in un girone infernale, e non riuscire mai a catturarne la vera essenza – strano contrappasso per chi crede (e sono tanti) di “sapere” già tutto e ti “spiega” chi è Don Giovanni, senza accorgersi che è lui stesso, il dissoluto, sull’incipit dell’opera, a dire a Donna Anna: «Donna folle indarno gridi, chi son io tu non saprai».

Folle chi crede di sapere “chi è” Don Giovanni. Non certo Muti, Che, con l’umiltà (che è sinonimo di intelligenza) dei grandi, dopo trentacinque anni rimette in discussione tutto. Ripensa da capo la sua lettura della partitura mozartiana. Spiazzandoti. Facendo vacillare le tue certezze di ascoltatore sin dalle prime note – inquiete e inquietanti nel loro incedere lento e funereo. E a Torino Muti fa un Don Giovanni della maturità. Una meditazione sulla vita vissuta. Quasi un rimandare il nastro indietro e rivedere, come alla moviola, con la saggezza del tempo e dell’età, il racconto di una vita alla ricerca dell’amore. Non una narrazione di fatti – le conquiste del libertino – ma una riflessione a cose compiute, su cosa quei fatti hanno lasciato alla vita. Una vita da trattenere il più possibile, per non lasciarsela sfuggire dalle dita.  Sembrano dire questo i tempi solenni, dal respiro ampio, slentati (e non è una definizione negativa, intendiamoci) che Muti imprime al suo “nuovo” Don Giovanni. Che il direttore sembra quasi voler trattenere, non lasciare andare. Hai questa impressione, di un voler trattenere, di un voler assaporare il più a lungo possibile, in tutta calma, la vertiginosa poesia della vita che Mozart mette nella sua musica.

Un non voler lasciare andare Don Giovanni alla sua corsa irrefrenabile verso la morte – così i ritmi vorticosi delle edizioni scaligere o delle incisioni con i Wiener lasciano oggi il posto alla poesia che Muti chiede (ed ottiene magnificamente) dall’orchestra del Regio. Poesia che trabocca nel Dalla sua pace, nel Dhe vieni alal finestra, nel Non mi dir… ma anche nella malinconia del Mi tradì e di un Catalogo dove l’elenco delle conquiste di Don Giovanni non è uno sfoggio della mascolinità del padrone da parte di Leporello, ma l’ammissione di un’incapacità di amare davvero. Ogni nota è meditata, ha un suo peso specifico – mozzafiato per bellezza la costruzione in crescendo del finale del primo atto (con le diverse orchestre dislocate in palco ad avvolgere di musica l’azione), vertiginoso l’abisso sul quali Muti ti fa affacciare nella scena della dannazione di Don Giovanni, costruita più per sottrazione che per accumulo sonoro.

Ogni parola è soppesata. Ogni parola cantata e ogni parola detta. Perché i recitativi sono scolpiti, accuratissimi, preparati e “detti” come se fosse prosa, teatro di parola… dove il racconto arriva nitido, sulfureo. Perché il riferimento della regia di Chiara Muti è il teatro da cui arriva Don Giovanni, Tirso da Molina, ma soprattutto Molière con i suoi caratteri e i suoi personaggi surreali fatti di miserie umane che suscitano un sorriso amaro. Moliére che compare in scena nei panni del Commendatore, prima impotente difensore della figlia violata, poi ombra inquietante che viene a turbare la cena del libertino che la consuma seduto su una poltrona che è la stessa sulla quale morì in scena il commediografo francese. Gioco di rimandi letterari che si fa anche gioco iconografico, perché nella festa che chiude il primo atto, una festa in maschera, Don Giovanni appare nei panni del Re Sole (Luigi XIV era uno dei più accaniti sostenitori di Moliére) al centro di una macchina della meraviglia che è il palcoscenico sul quale l’azione si svolge. Macchina che svela i meccanismi del teatro – e anche il teatro, può essere l’inferno a cui sono condannati i personaggi, altra idea delle molte (a volte troppe) messe in campo dalla regista – e che nel suo grigio e lento incedere si fa monumento cimiteriale. Perché dalle finestre (che sembrano tanti loculi nel disegno dello scenografo Alessandro Camera) della facciata del palazzo in rovina adagiata sul palcoscenico, escono, come dalle tombe, i personaggi, morti viventi che chiedono di raccontare la propria storia. Personaggi in cerca d’autore, burattini che prendono vita indossando un costume che cala dall’alto, su una gruccia. Che alla fine, quando i “sopravvissuti” ci fanno la morale, ricalano, chiedendo i loro costumi e lasciando Leporello ed Elvira, Zerlina e Masetto, Anna e Ottavio nella loro nudità (e meccanicità dei movimenti) di marionette. Che, con altri costumi, potranno raccontare un’altra storia.

Una storia che non ha tempo. Come quella delle donne sedotte e abbandonate. Le stesse ieri e oggi. Identiche vittime della conquista seriale, vestite con costumi (disegnati da Tommaso Lagattolla) di tre epoche diverse, il Settecento per Donna Anna che ha la voce acuminata e algida di Jacquelin Wagner, un Ottocento liberty per le isterie di Donna Elvira cui Mariangela Sicilia offre il suo temperamento e gli anni Cinquanta della dolcevita per Zerlina che ha il fascino vocale di Francesca Di Sauro. Le manovra, burattinaio invisibile, il Don Giovanni luciferino e assetato di vita di Luca Micheletti, attore straordinario, credibilissimo in ogni momento. Il baritono, con la sua voce avvolgente e limpida, costruisce un personaggio che ha la leggerezza del “dissoluto” (carattere molieriano da commedia dell’arte anche nella grevità di alcuni gesti), ma al contempo la gravità dell’uomo che vive il suo inferno sulla terra, schiacciato, lui che vorrebbe muovere i fili delle sue donne, da un destino invisibile e incombente che lo schianta a terra e poi lo dissolve, inghiottito dai neri fantasmi delle sue donne. Riccardo Zanellato è il “fantasma” del Commendatore, morto vivente che tuona con la sua voce tornita. Giovanni Sala con la sua voce piena (che sa farsi soffio poetico nelle arie) conferisce corpo alle fragilità (ma anche alle meschinità, dice la regia di Chiara Muti) di Don Ottavio. Leon Košavić è un azzeccato Masetto. Burattini, tutti. Come il Leporello di un sempre convincente e misuratissimo Alessandro Luongo. Personaggi in cerca d’autore nel grigio di un inferno sulla terra.

Nelle foto @Andrea Macchia Don Giovanni al Teatro Regio di Torino