Addio a Ezio Frigerio, poeta della scenografia

Scomparso a 91 anni il popolare scenografo nato a Erba storico collaboratore di Strehler al Piccolo e alla Scala

Dalla finestra del salotto della sua casa vedeva il lago di Pusiano. E immerso nel letargo invernale della natura, con i colori tenui e le atmosfere rarefatte di un orizzonte sfocato dalla nebbia, quel paesaggio poteva essere benissimo una delle sue scenografie. Una delle tante disegnate con il suo tratto lieve e poetico per gli spettacoli di Giorgio Strehler. Per il Falstaff padano, per il Don Giovanni tutto in controluce, per Le nozze di Figaro con la prospettiva infinita della stanza della musica, per il Simon Boccanegra con la grande vela spiegata. O per l’Arlecchino malinconico di Goldoni, I giganti della montagna cubisti di Pirandello, il Re Lear nel fango di Shakespeare, L’opera da tre soldi di Brecht.

E c’erano tutti quegli spettacoli nella casa affacciata sul lago di Pusiano. Nell’aria. Nei ricordi. Nei libri. In uno in particolare, Cinquant’anni di teatro con Giorgio Strehler, edito da Skira. Ero andato a trovarlo per quello. Volevo intervistarlo, chiacchierare con lui e mi aveva invitato nella sua casa. «Una delle mie tante case: mi è sempre piaciuto disegnarle». A Milano e a Roma. In Francia. E a Dikili, in Turchia, «ma li non ci sono più andato. Il regime mi fa paura» mi aveva raccontato in un pomeriggio di febbraio – proprio come oggi – di cinque anni fa. Sembra ieri. Un ricordo vivo. Dell’eleganza, quasi timidezza di un uomo che ha segnato la storia del teatro del Novecento. E di sua moglie, Franca, Franca Squarciapino, sposata cinquantotto anni fa, premio Oscar, che in quel pomeriggio ci aveva preparato il caffè. E si era messa su una sedia. Ad ascoltare, ancora una volta, il suo Ezio. Storie che lei conosceva bene. Conosceva a memoria per averle vissute. Eppure le ascoltava come se fosse la prima volta. Con il sorriso di una donna innamorata.

Oggi Ezio Frigerio ha chiuso gli occhi poco lontano da lì, a Lecco. Aveva 91 anni, era nato il 16 luglio del 1930. Ed era nato sempre in quell’angolo di Lombardia, a Erba. Che aveva lasciato per trasferirsi a Milano dove nel 1948 si era diplomato all’Accademia di Brera prima di iscriversi alla facoltà di Architettura del Politecnico. Il suo tratto, il suo stile, ci aveva raccontato in quel pomeriggio di febbraio di cinque anni fa, seduto su una poltrona del suo salotto, «sono imbevuti della cultura contadina dei miei primi anni di vita, del mare sul quale ho navigato perché ho fatto il marinaio». Frigerio aveva studiato al liceo nautico di Savona e per alcuni anni aveva navigato. Poi l’incontro con Strehler.

«Ci siamo conosciuti nel 1955. E non era per una scenografia» mi aveva raccontato. «Tutto è iniziato in un ufficietto buio e angusto del Piccolo Teatro. Avevo 24 anni e una buona carriera avviata come pittore, avevo esposto in varie mostre, avevo una medaglia della Triennale di Milano. Ma avevo capito che volevo fare teatro perché quello che mi piaceva, e che mi piace ancora oggi, è la collettività del lavoro teatrale, poter collaborare con qualcuno che realizza i miei disegni, gli artigiani, i falegnami, i pittori. Lo raccontai a Strehler e lui rimase colpito. Aveva il suo scenografo di fiducia, Luciano Damiani, allora mi commissionò i costumi per La casa di Bernarda Alba di Garcia Lorca. Gli piacquero e mi affidò altri lavori. Continuai a fare il costumista sino al 1959. Poi volli tagliare i ponti con Milano. Lasciai tutto e andai a Roma dove mi prese Lucio Ardenzi: disegnai le scene per Giorgio Albertazzi e Vittorio De Sica e con il regista di Ladri di biciclette nacque una profonda amicizia e con lui feci anche tre film, Ieri, oggi, domani, I sequestrati d’Altona e Il boom. Dopo qualche anno Strehler mi telefonò: aveva discusso con Damiani e mi richiamò a Milano. Era il 1963 e disegnai le scene per l’Arlecchino a Villa Litta. Nel 1966 arrivarono I giganti della montagna di Pirandello e il nostro sodalizio decollò».

Il Piccolo e il Teatro alla Scala, Parigi, New York, Londra, Berlino, Tokyo, Madrid, Barcellona, Buenos Aires. Più di trecento gli spettacoli per i quali Frigerio ha disegnato scene e costumi collaborando con Piero Faggioni, Liliana Cavani, Andrej Končalovskij, Graham Vick e Luca Ronconi. La danza con Roland Petit e Rudolf Nureyev. E poi il cinema con Novecento di Bertolucci e Cyrano de Bergerac di Rappeneau. «Ho sempre avuto una libertà totale di esprimere la mia personalità nelle scene che ho disegnato. Non ho mai avuto né paletti né limiti. Ho sempre letto i testi, fin quasi a saperli a memoria, prima di mettermi al lavoro su una scenografia, per fare mio il racconto e poter dare un contenitore ai registi nel quale ricrearlo» raccontava ricordando gli spettacoli storici per i quali aveva disegnato le scene. Poi, senza rimpianti o nostalgie, diceva che «la mia epoca si è chiusa definitivamente perché è ormai diventata espressivamente e politicamente illeggibile. Non ci si esprime più con i mezzi con i quali io mi sono sempre espresso, penso all’accelerata data dalle nuove tecnologie, dai social, ma anche all’estetica moderna che spopola in teatro, nella prosa e, in maniera ancora più evidente, all’opera: non la apprezzo, ma nello stesso tempo non la condanno. Semplicemente non la capisco».

Terminato il caffè, accompagnato da un dolce buonissimo di cui ricordo ancora il sapore, avevamo parlato ancora di Strehler. «Quando non lavorava Giorgio era un uomo profondamente infelice, direi spento. Non eravamo amici. Forse Strehler non ne aveva. Ma quando usciva dall’ombra e iniziava le prove era l’uomo più vivace che avessi mai visto. Sapeva trasmettere una passione capace di tirare fuori il meglio da ciascuno di noi suoi collaboratori». E che uomo è Ezio Frigerio, gli avevo chiesto prima di salutarlo. «Un uomo che ha riposto la sua speranza nel teatro. Mi sono realizzato lì. Anche se per me lo spettacolo è sempre stato dolore, a differenza di mia moglie che lo vive come un’immensa gioia. Fare lo scenografo per me vuol dire dare tutto, sino all’ultimo, immaginare un ambiente, vederlo prendere forma in laboratorio, montarlo sul palco, illuminarlo, ma poi abbandonarlo. E tutto questo mi dà un senso di struggimento. Forse anche per questo non sono mai in teatro la sera della prima, arrivo solo all’ultimo, per gli applausi finali». Un attimo interminabile di silenzio. «Ma lì, nel teatro, c’è tutta la mia vita». Che continua, ancora oggi, sul palcoscenico. Anche oltre la morte.

Nella foto @Andrea Tamoni Teatro alla Scala Ezio Frigerio