Storie di (noi) uomini nel Moïse di Rossini

A Pesaro l’opera ispirata alla Bibbia inaugura il Rof 2021 Cast di fuoriclasse con Tagliavini, Buratto e Berzhanskaya Sagripanti dirige l’orchestra Rai, (solito) spettacolo di Pizzi

Non lo diresti. Perché il soggetto – tra l’altro uno dei racconti più conosciuti e più reinterpretati, dal cinema al musical – è preso dalla Bibbia. Non lo diresti, ma c’è un grande assente nel Moïse et Pharaon di Gioachino Rossini. Ed è Dio. Nonostante l’arcobaleno, il roveto ardente e la voce misteriosa che offre a Mosé la Legge. Nonostante le tenebre che incombono sull’Egitto come punizione per Pharaon. Nonostante il mare che si apre in due per offrire una via di scampo agli ebrei. Ma quei segni, forse, non sono Dio… rifletti ascoltando la musica e andando con la mente ad un altro racconto biblico, quello del profeta Elia che sull’Oreb trova il Signore non nel fuoco, non nel vento, non nel terremoto, ma nella brezza leggera. Pace, non violenza. Misericordia, non vendetta. Fa un certo effetto l’assenza di Dio perché la storia di Mosè è la storia di una promessa (di una terra) e di un patto, quello dell’uomo con Dio. Inciso nella pietra, sulle tavole della Legge. Eppure Dio sembra non esserci nella storia – in quel pezzo di storia che Rossini fa diventare romanzo musicale, in una sorta di bigino del racconto biblico – del popolo ebraico, costretto in un limbo, pronto a partire dall’Egitto, ma ogni volta fermato appena prima del primo passo.

Storia di un popolo, storia che si ripete. Si è ripetuta nelle tragedie della Storia. Dove era Dio? la domanda. E fa ancora più effetto che questa domanda arrivi in musica, riflessione sul passato e quasi profezia su ciò che verrà, nel 1827, perché il secolo dell’assenza (e della morte) di Dio è il Novecento della Shoa, non certo l’Ottocento nel quale Rossini scrive la sua opera, il Moïse et Pharaon, che va in scena a Parigi il 26 marzo 1827, appunto, rifacimento (libretto in francese di Luigi Balocchi e Étienne De Jouy) e ampliamento modellato sul gusto francese del grand opéra del Mosè in Egitto, scritto per Napoli nel 1818. Diversa, molto più bella (ma, certo, è questione di gusti), sicuramente molto più ricca dell’originale italiano. Matura. Perfetta. Compiuta. Tutta proiettata in avanti. Quasi romantica… e ci senti dentro echi che precorrono il Nabucco di Verdi, altro racconto in musica di un altro frammento di storia (e di deportazione) del popolo ebraico.

Un popolo condannato a vagare. Senza una meta. In una terra di nessuno che è quasi metafora di un presente che sembra non avere futuro. Colori plumbei. Il nero e il grigio. Il bianco sporco. Il viola del lutto. A volte squarciati dalla violenza di un blu e di un giallo intenso. Raccontano questa assenza (questa morte) di Dio nel Moïse et Pharaon che ha aperto l’edizione numero quarantadue del Rossini opera festival di Pesaro. Dopo l’edizione 2020 spezzettata e ridotta causa Covid, si torna alla formula tradizionale delle tre opere in tre giorni (e poi concerti, recital, il Viaggio a Reims dell’Accademia… sino al Gala Florez che il 22 agosto chiuderà il Rof alla presenza del Capo dello Stato Sergio Mattarella) nel rispetto del distanziamento. Meno pubblico in sala, ma non meno caloroso perché Rossini sa sempre calamitare appassionati da tutto il mondo (quarantene permettendo) che non sono mai stanchi di ascoltare le melodie del musicista pesarese.

Moïse et Pharaon. Dunque. Immerso in un nero, in un grigio, in un bianco sporco. Che raccontano l’assenza di Dio – che sembra, quasi, restare nel suo «stellato soglio», nel suo «cieux» perché quello dell’Antico Testamento non è (ancora) il Dio che si fa carne con Gesù nel Nuovo Testamento. E d’altra parte il titolo, Moïse et Pharaon, lo dice chiaro. È una storia di uomini, di Mosè e del fratellastro faraone, contrapposti nella concezione del potere. Lacerati. Come la regina Sinaïde, origini ebraiche, ora moglie del re. Come Anaï che deve scegliere tra la fedeltà a Dio e l’amore per Aménophis, il figlio del faraone. Lo racconta prima di tutto la musica di Gioachino Rossini così come la restituisce, in tutta la sua (immediata e disarmante) bellezza, Giacomo Sagripanti sul podio dell’Orchestra sinfonica nazionale della Rai. Formazione ideale quella torinese per un’opera/oratorio. Piena di canto, certo. Ma anche con momenti sinfonici, a iniziare dalle bellissime danze (durano oltre venti minuti), coreografate qui da Gheorghe Iancu e affidate agli scaligeri Maria Celeste Losa e Gioacchino Starace, eroici nel danzare sul piano inclinato della scena fissa. Sagripanti, in perfetta intesa con il palco e con il coro del Teatro Ventidio Basso (che, preparato da Giovanni Farina, canta benissimo), guarda analiticamente alla forma perfetta della musica di Rossini. La sbalza, la esalta. Ma a volte l’impressione è che il direttore resti in superficie, ad un livello estetico (esaltante e appagante a suo mondo, intendiamoci), senza affondare le mani in quello etico, senza scandagliare i significati della partitura, senza scavare a fondo in quello che sta sotto le note – bellissime e che ti si piantano in testa senza mollarti più. Una lettura che se diventasse ri-lettura (e potremmo essere sulla soglia del capolavoro) permetterebbe di scoprire (molte) nuove cose.

Che poi quella (solo) estetica è la stessa cifra (lo sesso limite) dello spettacolo firmato (regia, scene e costumi) da Pier Luigi Pizzi. L’immaginario, l’estetica complessiva (anche nella continuamente esibita e compiaciuta ostensione di statuari corpi maschili, anche dove non se ne vede la necessità drammaturgica), sono quelli di sempre, perennemente uguali e prevedibili del regista milanese novantunenne: scene e costumi e simboli (proiettati su un ledwall sfruttato poco e male, con immagini geometriche piuttosto sempliciotte) andrebbero bene indifferentemente per Moïse, per Aida, per Flauto magico… solo per limitarsi ad alcuni titoli che hanno come sfondo l’Egitto. Ma questo era in conto. Un elegante, elegantissimo concerto in costume, che ha il grande pregio di lasciare gli interpreti concentrati sul canto e di non disturbare la musica – e nemmeno le coscienze, però, nonostante il colpo di teatro finale con gli ebrei che, una volta passato il Mar Rosso ricompaiono in scena in un abbagliante controluce, vestiti anni Quaranta, a evocare i sopravvissuti ai campi di sterminio, ma anche i palestinesi che una terra ancora non l’hanno. La mano del Pizzi scenografo e costumista resta sempre raffinata dove quella del Pizzi regista sembra latitare (la passerella da avanspettacolo intorno all’orchestra ripetuta ad ogni finale di atto, i movimenti dei cantanti limitati ad entrate e uscite, il quasi comico sirtaki che tutti ballano al termine della scena della consacrazione dei primogeniti…), se non addirittura (e questo non era in conto) commettere errori grossolani – perché nel finale del terzo atto, quando il Faraone condanna gli ebrei alla deportazione nel deserto, in scena ci sono solo egiziani?

A livello di interpretazione, così, i cantanti fanno quello che possono e che sanno fare. E se c’è chi è più misurato come Roberto Tagliavini (solenne Moïse), come Vasilisa Berzhanskaya (composta e altera Sinaïde), come Eleonora Buratto (dolente Anaï), chi mette in campo un’esperienza e un’intelligenza scenica come Monica Bacelli (Marie) e chi un talento innato per il palco come Matteo Roma (Aufide), c’è un irrefrenabile e strabordante Erwin Schrott che nei panni del Pharaon rischia di strafare con mossette (un po’ alla Renato Zero dei tempi d’oro, anche per come è abbigliato) e ammiccamenti (ma l’esuberanza vocale il baritono uruguaiano la tiene abbastanza a freno) che stridono con la linearità classica dell’insieme.

Peccato. Perché il cast schierato dal Rof, in un ideale ritorno ai tempi d’oro della Rossini renaissance, è (quasi tutto) stellare. Roberto Tagliavini è un fuoriclasse del canto, del declamato, della parola scolpita nella musica. Ogni sua interpretazione arricchisce e mette in luce una già compiuta maturità vocale e interpretativa. Il canto di Tagliavini avvince e affascina ogni volta per la linea morbida, pastosa, piena e luminosa. Lo fa anche qui (e questo sarà imprescindibilmente un Moïse di riferimento) offrendo un ritratto a tutto tondo del protagonista, uomo che, nonostante l’apparente assenza di Dio, non vacilla.

Lacerate dagli affetti terreni Vasilisa Berzhanskaya ed Eleonora Buratto. Il mezzosoprano russo incanta per la misura con la quale disegna la regina Sinaïde, statuaria e fragile al tempo stesso. Contrasti che la Berzhanskaya restituisce con una voce di ammaliante bellezza, con sfumature infinite (i pianissimi della sua aria sono da brivido), con agilità mozzafiato. Applauditissima a scena aperta e ai saluti finali, con orchestrali e spettatori a battere, insieme alle mani, i piedi sul pavimento della Vitrifrigo Arena. Come per Eleonora Buratto, al suo primo Rossini serio, che il soprano mantovano affronta con la sua serietà professionale e la sua intelligenza musicale: la sua è una dolente, ma mai rassegnata Anaï, che si colora, con agilità sempre a posto e squarci lirici di ampio respiro, di una struggente malinconia.

Monica Bacelli, artista sempre affidabile e capace di leggere in profondità dentro il testo musicale, è un’incisiva Marie, Alexey Tatarintsev un puntuale Éliézer, Nicolò Donini si sdoppia come Voix mystérieuse e Osiride. La presenza scenica e vocale di Matteo Roma è da protagonista. Qui, però, il tenore veneto, rossiniano doc con una voce che sta evolvendo verso una liricità luminosa, è scritturato per il piccolo ruolo di Aufide, ma si impone nei concertati per la bellezza del timbro. Tanto che avrebbe potuto tranquillamente vestire i panni di Aménophis, personaggio che il tenore americano Andrew Owens restituisce a corrente alterna, tra momenti belli e ispirati e altri meno efficaci, soprattutto dove la scrittura rossiniana si fa più impervia.

Tutti raccontano storie di uomini. Che amano. Che odiano. Che chiedono a Dio di scendere dal «cieux où tu résides» per dare un segno. E dopo il grigio del dubbio, che tanto assomiglia al limbo del nostro presente dove la speranza fatica a bucare le tenebre, ecco che arriva un segno. Il mare si apre. La salvezza. Un chiarore abbagliante avvolge il palco in un controluce che, comunque, non è rassicurante. Indica un cammino, verso una luce che, ora, ci fa sembrare sagome scure. Uomini in cerca di quel Dio che si mostra, finalmente e al quale gli ebrei levano un inno di lode, «Chantons, bénissons le Seigneur», pagina eliminata da Rossini (anche se le fonti non sono chiarissime) prima della prima parigina per lasciare solo la musica a chiudere il racconto. Un passaggio, quello musicale, drammaturgicamente e drammaticamente più efficace. Ma la luce che questo finale irradia dice che in questo Moïse et Pharaon, ma soprattutto nella vita, Dio non è (stato) il grande assente. Ma ha abitato e abita (anche in modo imperscrutabile) la storia degli uomini.

Nelle foto Studio Amati/Bacciardi Moïse et Pharaon al Rossini opera festival di Pesaro