Nella mente di Salome con Chailly e Michieletto

Al Teatro alla Scala l’opera di Strauss bloccata dal Covid Straordinaria prova del direttore musicale del Piermarini Regia astratta per una rilettura psicanalitica del dramma

Giovanni, Jochanaan come suona nel tedesco del libretto tratto dal dramma di Oscar Wilde, è un profeta. Giovanni il Battista, il precursore, «voce di uno che grida nel deserto: Preparate la venuta del Signore». Giovanni che prepara la strada, anticipa nelle sue parole e nei suoi gesti le parole e i gesti di Colui che deve venire, l’Agnello di Dio, l’Agnus Dei che, togliendo il peccato del mondo, salverà dalla croce l’umanità. Giovanni che anticipa Cristo anche nella sua morte, ucciso (uno o due anni prima di Gesù, raccontano le cronache del tempo dello storico romano Flavio Giuseppe) per aver detto qualcosa di scomodo, quel «non ti è lecito» rivoto ad Erode Antipa che, dopo aver imprigionato e ucciso il fratello Erode Filippo, ne ha sposato la vedova Erodiade. Un «non ti è lecito» che non è solo una regola morale. È voce di una coscienza sopita, sepolta sotto la terra ed emersa, improvvisa, in modo prepotente dall’inconscio.

Giovanni, Jochanaan, è dunque simbolo. Figura che rimanda ad altro, elemento che unisce immagine e significato. Per andare oltre. Questo Giovanni, il profeta, il precursore, appare – capelli lunghi, vestito di pelli e con in braccio un agnello sgozzato – uscendo dal buco nero della coscienza nella Salome di Richard Strauss messa in scena al Teatro alla Scala da Damiano Michieletto. Compimento, a quasi un anno di distanza, di un progetto iniziato alla vigilia della pandemia, fermato dal Covid che il 23 febbraio dello scorso anno ha chiuso i teatri: allora sul podio doveva esserci il direttore musicale della Scala Riccardo Chailly per il suo primo Strauss teatrale; in questa ripresa (trasmessa sabato 20 febbraio da Rai5 e ora disponibile su RaiPlay) la bacchetta era passata a Zubin Mehta (il suo nome avrebbe dovuto essere in cartellone anche nel 2023), ma è tornata a Chailly, arrivato in corsa a sei giorni dal debutto a raccogliere il testimone del direttore indiano, costretto a rinunciare al progetto per un malore accusato in prova. Il cerchio, dunque, si chiude. E si chiude alla grande con una delle più belle direzioni di sempre di Chailly.

Ascoltata in teatro, durante la registrazione di RaiCultura, questa Salome ti porta dentro la musica e dentro la paura. Dentro la musica, perché (in teatro, in tv un po’ meno) sei avvolto dai suoni che arrivano nitidi, scolpiti, sbalzati come in una miniatura in ogni più piccolo dettaglio della partitura nella straordinaria direzione di Chailly: l’orchestra, distanziata, occupa tutta la platea e l’impressione è che la musica, fuori dalla buca, respiri, prenda il volo, si decomprima per portarti dentro la storia. Chailly trova la giusta misura tra decadentismo ed espressionismo che sono gli estremi tra i quali si muovono solitamente le interpretazioni della pagina di Strauss, ne esce una Salome compatta e unitaria, analitica nel vivisezionare la partitura restituendola poi nel suo struggente lirismo impastato del nero della paura.

Paura nella quale ti tira dentro la regia di Michieletto, immaginifica e simbolicamente psicanalitica. La paura di Salome che diventa la nostra paura di guardarci dentro e di scoprirci fragili. Ti manca l’aria mentre sugli ultimi accordi ribattuti, strappati e violenti la scenografia implode, si chiude come una pressa che fa tutto a pezzi. Che distrugge ogni speranza. Che la seppellisce ricoprendola di terra. Sale dal basso e cala dall’alto un nero che, inesorabile, schiaccia Salome – come indica la didascalia nel dramma di Oscar Wilde, dove i soldati uccidono la ragazza schiacciandola con i loro scudi. E schiaccia anche te che ascolti e guardi. E che per un’ora e quaranta minuti hai vissuto in un sogno. Un incubo, forse, di quelli che fai in certi dormiveglia, all’alba, quando la notte sta per andarsene e quando dalle finestre inizia a filtrare una luce che getta strane ombre nella stanza.

Immagini tutte da decifrare, da decodificare con gli strumenti della psicanalisi, dice Michieletto con il suo spettacolo che intreccia simboli e immagini tra Freud e Jung a un dramma borghese alla Strindberg. La scena di Paolo Fantin è una scatola bianca e nera (illuminata dalle luci acide e raggelanti di Alessandro Carletti) che si popola di angeli dalle ali nere, nera anche la luna che incombe dall’alto e che scende sino a terra, un luogo della mente, la mente di Salome, che si illumina di oro e rosso nella visione finale con la quale viene evocato il celebre quadro L’apparizione di Gustave Moreau. Una scatola della memoria nella quale si apre un abisso che è la cisterna – un gande cerchio al centro della scena – dove è imprigionato Giovanni che si scava la fossa sulla tomba di Erode Filippo. Una camera dei segreti che si apre sul fondo per gettare uno sguardo indagatore e curiosamente morboso sull’inferno familiare della reggia di Erode tra passato (Salome bambina con il padre morto davanti agli occhi) e presente (le cene eleganti di Erodiade, donna attempata e volgare che cerca le attenzioni di giovani in smoking – raffinati e drammaturgicamente perfetti i costumi di Carla Teti).

Chiavi di lettura, percorsi indagatori che già erano stati esplorati in vari modi da chi nel tempo ha messo in scena l’opera, datata 1905, di Strauss, ma che Michieletto tiene insieme in modo inedito, anche problematico, in questo nuovo corso della sua parabola artistica tutto improntato all’astrazione e al simbolismo. Funziona, sino a  un certo punto, la sovrapposizione che il regista fa tra Salome, Amleto ed Elettra: tutti hanno perso il padre, ucciso dal fratello che poi ne ha sposato la vedova; tutti uccidono la madre (ci prova anche Salome nello spettacolo scaligero); tutti sentono una voce che li chiama alla vendetta, ma se per Amleto è il fantasma del padre e per Elettra la voce interiore degli affetti, per Salome, dice Michieletto, è Jochanaan le cui parole, in realtà, sono di conversione, di pentimento, persino di speranza. Non solo: se è chiaro perché amleto e Elettra uccidano madre e patrigno, non si capisce perché Salome chieda la testa di Jochanaan. Giovanni che è voce. E compare così la prima volta nella partitura di Strauss, voce che giunge dalla cisterna dove è imprigionato. Giovanni è simbolo, agnello pasquale immolato come Cristo, come il padre di Salome, come Salome stessa, lo dice il sangue che un angelo versa da un calice sul collo delle vittime. Che per Michieletto sono vittime sacrificali allo stesso modo, anche se forse, a guardare bene il significato della loro morte, tanto simili non sono.

Immagini forti come il vestito bianco grondante fili rossi che ingabbia Salome nella danza, come la testa del Battista che stilla sangue come una fontana alla quale la donna si abbevera,  come forte è tutta la sequenza della danza dei sette veli, non un ballo sensuale, ma uno psicodramma (coreografato al modo del tanztheater da Thomas Wilhelm), un transfert attraverso il quale Salome rivive gli abusi subiti da Erode: il tetrarca si mette una maschera (che ricorda quella funeraria di Agamennone conservata ad Atene) e si dirige nella reggia con la bimba controfigura/proiezione/ricordo di Salome (che contrappunta tutto lo spettacolo) mentre la ragazza evoca, subendole di nuovo, le violenze di un tempo ad opera di sei replicanti di Erode, stesso vestito, stessa maschera, stesso sguardo gelido del potere.

La danza, con una impressionante carica di drammaticità, Elena Stikhina, interprete trascinante che rende Salome quasi un’eroina del bel canto perché il soprano nella grande scena finale sa rendere il suo canto, che per tutto lo spettacolo è stato in bilico perfetto tra il drammatico e il lirico, diafano e sognante, visionario e ultraterreno. Sinistramente inquietante. Buono il cast con Linda Watson che si veste, con voce e corpo, dello squallore di una figura come quella di Erodiade; con Gerhard Siegel che è un Erode grottescamente tragico, antieroe suo malgrado; con Wolfgang Koch Jochanaan spirituale e carnale, voce e corpo dallo spessore tragico e profetico; con Attilio Glaser un Narraboth in versione nerd; con Lioba Braun che trasforma il paggio della partitura in una anziana governante, testimone muto degli eventi, consapevole dell’abisso verso il quale la famiglia sta precipitando. Quell’abisso che alla fine, implacabile, inghiotte Salome.

Nelle foto Brescia/Amisano Teatro alla Scala Salome