ricci/forte, ecco coma sarà la nostra Biennale

I due artisti reduci da un Donizetti a porte chiuse raccontano i loro progetti per la sezione teatro a Venezia

«Inaspettata, provvidenziale. Arrivata, in un tempo funestato da un’impasse in ogni campo, a rompere questo oceano di ghiaccio che ci inghiotte da mesi per inondarci di luce prorompente e aprire squarci di speranza». ricci/forte, scritto minuscolo e con la barra in mezzo perché da sempre i due artisti uniscono le loro creatività in un’unica e poliedrica personalità, guardano così alla nomina a direttori artistici della Biennale Teatro di Venezia per il triennio 2021/2024. La strada di Stefano Ricci e Gianni Forte, questi i loro nomi all’anagrafe, parte da lontano, dall’Accademia nazionale d’arte drammatica con Luca Ronconi, dalla New York university con Edward Albee. Passa dal teatro di ricerca, dagli stabili, dalla lirica – il loro nuovo laboratorio linguistico -, persono dalla televisione con le storie al limite di Hic sunt leones trasmesso quest’anno da Rai3. E ora approda in laguna, alla Biennale dove «la ricerca e la sperimentazione, che per noi non conoscono né dogane né frontiere, si faranno astrolabio del disagio contemporaneo di tutti noi e sconfineranno oltre le linee solite di demarcazione».

Che ruolo deve avere oggi, per ricci/forte, il teatro? In periodo di pandemia, certo, ma anche oltre perché il virus sembra averci assorbiti completamente e sembra quasi impossibile guardare a un dopo. Il teatro cosa deve dire alla nostra società?

«Non possiamo sapere in anticipo se il Covid continuerà a rappresentare ancora una grave minaccia, però, oggi più che mai, avvertiamo un’estrema urgenza di poter riallacciare i rapporti con i nostri simili e una necessità impellente di far luce e dibattere sullo smarrimento e baratro in cui siamo destinati a precipitare. Anche il teatro fa i conti con questa vertiginosa incertezza che pende sulle nostre teste come una spada di Damocle e, offrendoci la sua visione poetica del mondo che guarda oltre il recinto di casa, deve continuare ad affrontare con spietata lucidità questo vuoto e l’incognita di decollare verso orizzonti differenti per tentare di convalidare un futuro migliore».

Come declinerete il vostro ruolo? Su che progetti vi piacerebbe lavorare? E a quali esperienze vi piacerebbe dare spazio nella vetrina della Biennale?

«Il nostro ruolo di uomini e di artisti non docili verso le opinioni conformiste correnti, sarà di prenderci dei rischi, d’innescare processi. Proveremo ad accostare partner di gioco inediti, gettare ponti, instaurare scambi concreti tra discipline (come danza, musica, arti plastiche, architettura e cinema), dando così via d’accesso a nuove cartografie, opere d’interferenze, per esplorare terre sconosciute, ibridando arcipelaghi linguistici, gestuali, visivi, acustici e materici, tirando fuori dal cilindro magico dell’immaginazione incantesimi caleidoscopici».

Laboratori, incontri, spettacoli e perfgormance sono l’ossatura storica di ogni Biennale: c’è qualche idea nuova, anche nella struttura della rassegna, che vi piacerebbe mettere in campo?

«Consolidando una tradizione di ricerca e sostegno di talenti emergenti propria della Biennale, per il settore College teatro intendiamo continuare a dare voce e visibilità non solo ai giovani registi under 35 e ai drammaturghi under 40, ma anche promuovere un nuovo bando indirizzato alle performance site-specific, riportando il teatro al pubblico nei perimetri sociali del quotidiano a Venezia».

Che spazio ha oggi il teatro, inteso come riflessione sul nostro presente, nella nostra società? Per qualcuno il lavoro dell’artista sembra superfluo…

«Il teatro non è intrattenimento post prandiale per pecore sbadiglianti al pascolo. Ha il compito di dire delle verità, anche scomode e impopolari. Essendo fortunatamente un organismo vivente, che pulsa deve fermentare lo spirito della rivolta, riprendere il suo posto centrale nelle storia dell’uomo con la partecipazione attiva della comunità degli artisti e degli spettatori, mediante il principio di responsabilità e del parlare franco (la cosiddetta parresia), così come si faceva nell’Antica Grecia: un antidoto per combattere e resistere difendendo gli avamposti etici e culturali che rendono adulto un Paese».

Di recente siete stati protagonisti di un atto di resistenza culturale, la messinscena al Donizetti opera di Bergamo del Marino Faliero, spettacolo realizzato a porte chiuse e mandato in tv e in streaming per via della chiusura dei teatri causa Covid. Dopo Puccini e la sua Turandot vostra prima regia lirica, dopo Schoenberg/Bartok e dopo Nabucco di Verdi, ora tocca a Gaetano Donizetti. Come prosegue il viaggio di ricci/forte nel mondo della lirica?

«Qualunque avventura si trasforma in un prezioso castone per le gemme contingenti il percorso intrapreso. Questo appuntamento con Donizetti entra a far parte di un arcipelago di senso in cui il tentativo è quello di connettere differenti media con il processo di una ricerca artistica che parte da lontano e si nutre delle singole oasi. Donizetti, in questa opera, tratteggia personaggi scissi, abitati da contraddizioni, mossi da motivazioni discutibili: la contemporaneità di quell’alba entra nell’intento di sfrondare l’apparato musicale dalle scorie che il Tempo ha prodotto, opacizzandolo, per restituirgli il senso politico e drammatico generato al momento della creazione».

Marino Faliero è un’opera poco rappresentata, anche per le difficoltà vocali che l’autore chiede agli interpreti, su tutti il tenore. Come vi siete avvicinati a questa partitura?

«Con identico rispetto per il compositore e la sua creazione. Quando si tratta di affrontare il lavoro di un artista di duecento anni prima sarebbe irrispettoso presentarlo senza studiarne le complessità relative all’epoca in cui si è sviluppato e arrischiarsi a trovarne un cortocircuito con le istanze di un pianeta in continuo movimento: l’opera è una forma d’arte vivente e l’attitudine tanto celebrata da necrofori osservatori di una punteggiatura da libretto che – malgré nous – non resiste allo scolorarsi del tempo diventa la modalità più svilente, per l’autore e per il pubblico, di presentarne la sua composizione musicale».

Temi attualissimi in questo racconto in musica. La violenza sulle donne, il potere, l’amore, il tradimento. Come li raccontate? In particolare, come guardate al perdono, parola che sembra bandita dalla nostra società.

«Schopenhauer afferma che perdonare e dimenticare significa gettare dalla finestra un’esperienza preziosa fatta. Quindi, perdono o rappresaglia? Ovvero l’insegnamento verso un colpevole nel non perdonare un torto o il lasciar perdere cristiano? Alla base di qualunque scelta, che determina un movimento in avanti, c’è il senso di colpa: colpa nei confronti dell’altro da noi e verso noi stessi; un piano inclinato sdrucciolo che inesorabilmente ci porta ad affondare. È su questo principio che il lavoro ha germinato, su quelle omissioni a noi stessi che ci costringono a vivere tutta un’esistenza basata sulla menzogna, in bilico su passerelle che ci allontanano sempre più dagli altri».

Il progetto era nato per il palcoscenico, in corso d’opera, per far fronte alle misure anti Covid lo avete modificato, spostando lo spettacolo in platea.

«Qualunque lavoro riflette il tempo che lo circonda. Tanto più con il clima pandemico che ha costretto a rifondare una grammatica artistica che prescindesse dal contatto fisico ravvicinato. Le solitudini contemporanee dei magnifici personaggi donizettiani sono diventate le nostre: anche noi, pur consapevoli che la storia sta cambiando sotto i nostri occhi, insistiamo ad indossare le nostre armature borghesi più raffinate illudendoci che possano tratteggiarci una qualunque identità fittizia, auspicando di tornare presto allo status di vita precedente».

Come guardate a questo momento storico? Come l’opera può (e deve) raccontarlo?

«Non crediamo che le piaghe d’Egitto abbiano restituito dignità al Faraone, così come siamo scettici su una auspicabile trasformazione etica antropologica, assottigliatasi e collassata ancor prima della virulenza infettiva. Non si può non imparare dalla morte, non si può fermare la mutazione. Ostinarsi a seguire regole comportamentali (o artistiche) precedenti la catastrofe planetaria equivale ad alimentare quell’arrogante egoismo che impedisce la condivisione con ciò che ci circonda. L’opera, come qualunque altra disciplina espressiva, deve raccontare il proprio tempo, purché ci si interroghi sul senso profondo che questa contingenza ha declinato, senza ancora una volta cadere nel didascalismo di raccontare il problema come se fosse cronachisticamente un aneddoto/spauracchio da smantellare: analizzare a fondo le nuove possibilità relazionali e svilupparle in ipotesi espressive in scena, identificando qualunque artista in un Giano che seguita a guardare il passato tenendo le pupille tenacemente inchiodate al futuro».

Nella foto @Andrea Avezzù ricci/forte

Nella foto @Gianfranco Rota Marino Faliero al Donizetti opera di Bergamo