Marco Pelle, profeta in patria in tv con Bolle

Il coreografo italiano autore di LXIV per Danza con me racconta la sua vita dalle prime lezioni di ballo a 20 anni alle notti per la strada a New York dove faceva traslochi Oggi i lavori per Bolle, la Ferri e il New York theatre ballet

Buona anche la terza per il Danza con me di Roberto Bolle che la sera del 1 gennaio ha vinto la sfida degli ascolti della prima serata televisiva con 4 milioni 392 mila spettatori, pari al 21,8% di share. Per il terzo anno consecutivo, dunque, il ballerino piemontese, étoile del Teatro alla Scala di Milano, ha espugnato Rai1 con il suo varietà e ha vinto ancora una volta la sfida di portare la danza classica in prima serata in tv. Un mix (con molti artisti della scuderia Ballandi) tra comicità – con le gag di Virginia Raffaele e Luca e Paolo –, svago – il duetto tra Andrea Bocelli e Stefano Bollani, ma anche il passaggio promozionale di Matteo Garrone e Roberto Benigni per il Pinocchio cinematografico – e impegno – la coreografia di Massimiliano Volpini sull’ambiente e quella di Renato Zanella sulla necessità di ritrovare umanità e compassione. E poi la divulgazione, quella storica e quella sulla danza. Unite mirabilmente in LXIV, lavoro realizzato appositamente per Danza con me da Marco Pelle, ballerino e coreografo italiano che vive e lavora con successo negli Stati Uniti dove è coreografo del New York theatre ballet. Ma che ogni tanto torna in patria per regalare le sue coreografie a ballerini di casa nostra. Come accaduto con il LXIV per Roberto Bolle, coreografia ispirata al Re Sole e introdotta, sul piccolo schermo, da Alberto Angela. «Nel 1653 – racconta Marco Pelle, nato a Parma e cresciuto a Vicenza – Luigi XIV compì una rivoluzione nel mondo della danza: vestito da Sole interpretò l’Entrée d’Apollon di Giovanni Battista Lulli – che era italiano, anche se poi a Parigi hanno francesizzato il suo cognome – e inventò l’entrechat royal, il salto con l’intreccio delle gambe che ancora oggi è un caposaldo del linguaggio classico. “Io posso fare qualcosa che dio nega all’uomo” disse a suggello della sua impresa».

Come è nata, Marco Pelle, l’idea di una coreografia sul Re Sole per Roberto Bolle?

Sicuramente dalle mie conferenze sulla danza che tengo in giro per il mondo e che ho portato anche alle Nazioni Unite. E poi da una riflessione su cosa Roberto Bolle rappresenta oggi per il mondo del balletto: è una sorta di moderno Re Sole che propone e impone la sua danza ai nostri occhi. È un ballerino popolare come nessun altro, capace di portare verso la danza un pubblico che di suo non la frequenterebbe. Nella mia coreografia ho voluto raccontare questo. Ho iniziato da una pantomima sulla musica di Lulli, con Roberto che indossa il costume da Re Sole, circondato da quattro allegorie che sono Nicola Del Freo, Mattia Semperboni, Christian Fagetti e Gioacchino Starace del Corpo di ballo della Scala. La musica ad un certo punto cambia, Roberto fa un salto nella modernità e irrompono le dissonanze della band berlinese degli Einstürzde Neubauten: le quattro allegorie spogliano il Re del suo costume, ma il sole gli resta disegnato sul petto perché la Luce non è qualcosa che si indossa, come un costume, ma è qualcosa che portiamo dentro di noi. E che dobbiamo far uscire riconoscendola prima e poi comunicandola. Le allegorie lasciano posto a quattro uomini che con le loro braccia disegnano un sole perché la Luce si incarna nel movimento, esce da noi e illumina chi ci sta intorno.

Da dove nasce la collaborazione con Roberto Bolle?

Parte da lontano, da quando lavorammo alla creazione dei movimenti del robot Mark Shakr di cui poi io divenni coreografo. Li ho potuto conoscere da vicino il movimento dell’étoile. Ci siamo reincontrati nel 2013 per Passage, cortometraggio di Fabrizio Ferri che ha inaugurato la Mostra del cinema di Venezia: Roberto e Polina Semionova ballavano le mie coreografie sulle musiche composte dallo stesso Fabrizio Ferri. Insieme realizzammo il primo videoclip di danza classica, molto prima che Sergei Polunin  e David La Chapelle realizzassero il loro Take me to Church. Di Passage ho realizzato poi una versione teatrale solo per Bolle che il ballerino ha proposto nei su Bolle and friends interagendo con un video.

E da dove arriva la sua passione per la danza?

Esiste da sempre. Ma solo a vent’anni mi sono deciso a frequentare una scuola di ballo: papà era contrario al fatto che prendessi lezioni di danza, mi fece fare basket, pallavolo, nuoto e mi spinse anche a seguire le sue orme studiando Economia. Ma non era la mia strada, lo sentivo. A vent’anni, era il febbraio del 1995, presi coraggio ed andai nella scuola di Maria Berica Dalla Vecchia a Vicenza a far lezione con i ragazzi dei primi corsi: lei mi plasmò e mi portò alla Principessa Grace di Monte Carlo. Non fu facile iniziare a vent’anni quando la carriera di un danzatore è già segnata. Ma non mi sono perso d’animo. E nel 1998 mi sono trasferito a New York.

È stato difficile lasciare casa per andare oltreoceano?

Difficilissimo, perché a New York non conoscevo nessuno. Ho dormito per strada mentre bussavo alla porta di tutte le scuole di danza della città. Una sera in un bar sentii parlare italiano, mi feci coraggio e chiesi aiuto: Gigi di Roma mi trovò un alloggio e per pagarmi i 125 dollari settimanali della stanza ho fatto prima lo scaricatore in una ditta di traslochi perché non conoscevo l’inglese – non occorreva parlare, ma fare fatica – e poi, una volta imparata la lingua, il cameriere. Intanto continuavo a fare audizioni. Mi presero alla scuola di Merce Cunningham dove ho vinto ben dodici borse di studio. Lì ho imparato la tecnica, ho lavorato sul mio corpo, ma non sono mai entrato in compagnia. Facevo la comparsa nelle opere al Metropolitan e all’American ballet.

La svolta quando arrivò?

Mi trasferii a Detroit per lavorare. Il direttore dell’Opera era un italoamericano, David DiChiera: seppe che in città c’era un ballerino italiano e mi fece chiamare. Mi affidò alcune coreografie e mi presentò il regista Mario Corradi che mi propose di tornare in Italia per curare le coreografie di Macbeth di Verdi a Jesi. Era il 2002 e lì ho capito che la mia strada era quella della coreografia, avevo trovato il mio luogo ideale, il linguaggio per esprimere al meglio ciò che avevo dentro. Da lì è stato un pendolarismo tra Italia e Stati Uniti dove nel 2003 ho creato una Carmen per il New York theatre ballet, compagnia che nel 2020 festeggia i quarantacinque anni e di cui oggi sono coreografo residente. Per loro ho creato Solitude su musiche di mio fratello Federico con il quale collaboro spesso.

Le coreografie per Roberto Bolle, ma non solo.

Accanto ai lavori per la compagnia, mi piace lavorare con ballerini solisti. Per Letizia Giuliani  ho creato Allegro moderato, per Beatrice Carbone del Teatro alla Scala L’uno di due. Fondamentale, poi, l’incontro con Alessandra Ferri, artista straordinaria e donna dalle mille risorse con la quale ho collaborato a The piano upstairs, spettacolo che nel 2013 l’ha vista tornare in scena.

Quando ha capito che ce l’avrebbe fatta?

Forse non l’ho ancora capito… Guardo indietro e a volte mi sembra di aver fatto pochissimo. La mia vita sin qui è stata intensa: dolori, malattie, perdite di persone care, ma sono grato per tutte le opportunità che ho avuto, per tutte le esperienze che ho potuto fare e che mi hanno segnato, nel bene e nel male. Ma non mi sento arrivato. Ho raggiunto la consapevolezza del mio stile e oggi non mi vergogno più di quello che sono.

È capitato?

In passato. Alcune mie coreografie nascondevano le mie insicurezze e mascheravano ciò che ero. Cosa che oggi non ho più paura di mostrare, di propormi al pubblico con il mio linguaggio che parla di me: parte dalla testa e arriva alle viscere, ma in mezzo c’è il cuore e lì abita il messaggio che voglio trasmettere attraverso la mia danza.

Nelle foto @Francesca Romano il coreografo e Ballerino Marco Pelle; in apertura le prove di LXIV a Danza con me