Zaide sui ponteggi nel cantiere di Mozart

A Roma Daniele Gatti dirige l’opera rimasta incompiuta completata nei dialoghi negli anni Ottanta da Italo Calvino

Sul palco (senza sipario) impalcature di tubi innocenti ingabbiate da reti di plastica arancione, strisce bianche e rosse che delimitano la zona dei lavori. Divisori di metallo ondulato a disegnare il perimetro dell’area interessata dai restauri, le pareti del palco a vista, nere e nude con le luci di servizio ad assicurare il passo degli operai. Che, caschetto in testa e divisa da lavoro blu, accumulano oggetti dismessi in un grande cassonetto dentro il quale va a finire un lungo tubo di bidoni gialli che arriva dalla graticcia, di quelli che nei cantieri scaricano le macerie. E in cima a un ponteggio che ingabbia il proscenio una restauratrice in tutta bianca lavora agli stucchi.

Succede tutto prima che sul podio arrivi Daniele Gatti, succede mentre il pubblico entra in sala e si sistema, distanziato, tra platea e palchi. Così all’Opera di Roma in un teatro/cantiere va in scena Zaide, l’opera/cantiere di Wolfgang Amadeus Mozart, quindici numeri musicali che il compositore scrisse nel 1780, ma che preso da Idomeneo e Ratto del serraglio che arriveranno un anno e due anni dopo Zaide nel 1781 e nel 1782, non fece mai diventare melodramma compiuto. Pagine di quello che avrebbe dovuto essere uno singspiel  (come Ratto e Zauberflote) che, però, rimasero lì, pietre preziose di un mosaico, slegate tra loro, senza i dialoghi parlati a unire (a dare un quadro d’insieme) arie, duetti, terzetti e quartetti (e persino due potenti e modernissimi melologhi) per i quali aveva scritto il libretto (in tedesco) Johann Andreas Schachtner. Nel tempo si è provato a cucirci intorno a queste gemme una storia che tenesse insieme le bellissime pagine mozartiane in un racconto esotico come piaceva al tempo (in controluce si vede già il Ratto). Ci ha provato anche Italo Calvino che ha riscritto (in italiano) i dialoghi andati perduti (o mai approntati, non si sa) giocando come in un libro game (Calvino è pur sempre l’autore di Se una notte d’inverno un viaggiatore, romanzo che uscì nel 1979, poco prima di questa riscrittura di Zaide) con la storia della ragazza rapita nell’harem di un sultano dallo schiavo di cui è innamorata.

Idea messa nero su bianco nel 1981 per il festival Musica nel chiostro di Batignano (Grosseto) e ora ritirata fuori dal Teatro dell’Opera di Roma che dopo lo stop a causa del Covid riapre le porte e riparte proprio da Zaide con uno spettacolo/capolavoro nella sua immediata semplicità (che non vuol dire banalità) di Graham Vick – fu il regista britannico a mettere  in scena la prima volta a Batignano la riscrittura di Calvino ed è stato proprio lui a suggerire a Daniele Gatti e all’Opera questa versione dopo che il previsto Rake’s progress è saltato per via delle norme di contenimento della pandemia (ma la squadra scritturata per Stravinskij è stata reimpiegata per Mozart, salvando così i contratti).

Un cantiere per l’opera cantiere perché Calvino immagina che da un baule ritrovato sul palco di un teatro in ristrutturazione escano i fogli con i quindici numeri musicali mozartiani e affida a un narratore il compito di inventarsi una storia partendo proprio da quei fogli. O meglio, un’ipotesi di storia. Perché, per non riscrivere semplicemente un racconto, Calvino ci mette di fronte al «Come sarebbe stato se…» mettendo sul tavolo più piste per arrivare al (lieto?) fine. Storia che si costruisce, si scompone e si ricostruisce, come in un libro game, appunto. Meccanismo meta-teatrale e meta-letterario, un po’ alla Pirandello dei Sei personaggi o di Questa sera si recita a soggetto, che ti tiene incollato al racconto affidato a Remo Girone e – nel gioco del «Come sarebbe stato se…» ci sta anche qualche pasticcio perché la scrittura di Calvino è una continua variazione sul tema (alla maniera musicale) per vedere la storia da diverse angolature.

C’è la lezione del Novecento nel libretto dello scrittore de Il barone rampante e de Le città invisibili, c’è nel riprendere un meccanismo antico come quello del teatro nel teatro e ribaltarlo, ripensarlo dal di dentro non solo come gioco, problematizzarlo, farne occasione per una riflessione sul mestiere di scrivere e sulla vita. Perché, ci dice Calvino con la musica di Mozart, non tutto è come sembra. Lezione (anche) di civiltà per non fermarsi all’apparenza, per andare a scavare nelle (e dietro le) cose e nei (dietro i) fatti anche a costo di dover ripartire (come accade nello spettacolo di Vick) sempre dall’inizio. E così vedere e rivedere Zaide nel serraglio (che poi sono le impalcature con la rete di plastica arancione), Gomatz che si arrampica sul balcone (il tunnel di bidoni gialli) aiutato da Allazim, le guardie che minacciano di tagliare la mano (con una sega circolare, siamo in un cantiere) dello schiavo, il sultano Soliman che condanna i traditori è un perenne ritorno che stimola il pensiero a vedere le cose da un altro punto di vista. Compito (e potere) della grande letteratura.

Letteratura fatta di parole e letteratura fatta di note. Quelle di Wolfgang Amadeus Mozart che dal podio Daniele Gatti, direttore musicale dell’Opera di Roma, restituisce in una lettura intima e ombreggiata. Perché racconta la vita (quella sospesa dei protagonisti, ma anche la nostra) con uno sguardo malinconico. Gatti (in un perenne stato di grazia perché fa splendere ogni cosa che tocca con una naturalezza e una profondità che ogni volta sorprendono) dirige ognuno dei quindici numeri come se fossero capolavori compiuti in sé, ma li incastona anche (ecco le gemme come Calvino chiama, sul finale, queste pagine) in un disegno unitario che si compone e si scompone, prende forma per poi volatilizzarsi all’improvviso in un continuo dentro e fuori, in un perenne avanti e indietro tra le pagine mozartiane.

Un Mozart maturo quello di Zaide, con una scrittura che guarda avanti e che, capisci ascoltandolo, avrebbe potuto essere qualcosa in più se l’autore lo avesse ripreso in mano lavorando di cesello. Ma già così è molto. E grazie alla lettura di Gatti che tiene insieme solennità e leggerezza, sorriso e malinconia, questo Mozart ti investe con la sua bellezza inquieta. E vorresti, ogni volta, ad ogni numero ricominciare da capo. Come fanno, nel gioco teatrale di Calvino ben assecondato da Vick (le scene e i costumi del cantiere sono di Italo Grassi), Chen Reiss (Zaide), Juan Francisco Gatell (Gomatz), Markus Werba (Allazim), Paul Nilon (Soliman) e Davide Giangregorio (Osmin).

Alla fine restano tutti immobili in un fermo immagine che va lentamente a nero. Perché il narratore/Girone racconta che queste quindici pagine restano lì, come pietre di un mosaico smontato e rimontato più volte, capaci di dare, in ogni occasione, un’immagine sempre diversa… Un’ultima frase che resta lì, in levare. Incompiuta. Come incompiuto, in qualche modo, sembra il quartetto finale di questo che commuove per la bellezza compiuta e al tempo stesso aperta su un mondo, su un futuro, su una vita tutta da costruire che, come la storia di Zaide, è in cerca di un autore… Un autore che, potenza della grande letteratura (di parole e note), capisci di essere tu che ascolti seduto in platea.

Nella foto @Yasuko Kageyama Zaida all’Opera di Roma