L’amore materno antidoto al veleno dei Borgia

Al DonizettiOpera di Bergamo l’edizione di Parigi del 1840 Riccardo Frizza sul podio e Andrea Bernard in regia Carmela Remigio è Lucrezia, Xabier Anduaga Gennaro

Troppo latte. Il bimbo ha già mangiato abbastanza. Ma il seno della mamma è ancora carico, fa male: Lucrezia, allora, si tira il latte in eccesso, lo mette in una fiala che nasconde sottoterra. Forse sa già a cosa servirà, sa che potrà tornare utile quando il piccolo – che ora dorme nella culla, calmato dal suono di un carillon che ha la stessa melodia di Com’è bello! Quale incanto – sarà diventato grande. Colpi di timpano e corni disegnano un’atmosfera notturna. Cupa. Perché dal buio emerge una figura imponente, tutta d’oro, papa Alessandro VI, il Borgia. È un attimo, Lucrezia, che del pontefice è figlia illegittima, non si accorge, ma le rapiscono il figlio e nella culla resta solo un fagottino pieno di terra. Un grido soffocato in gola. Sovrastato dalla musica di una festa. Arriva da lontano. Sono passati almeno vent’anni in un secondo e a Lucrezia non resta che indossare un nuovo travestimento, tutto nero, per provare a ritrovare quel figlio: pantaloni e stivali da uomo, maschera sul viso, in testa una cuffia di strass e via a una festa a Venezia dove pensa  ci sia il suo Gennaro.

Cuore di mamma nella Lucrezia Borgia che con la regia di Andrea Bernard e la bacchetta di Riccardo Frizza ha portato al DonizettiOpera di Bergamo l’edizione critica di Roger Parker e Rosie Ward della versione del 1840 del melodramma adattata da Donizetti per Parigi sull’originale andato in scena nel 1833 al Teatro alla Scala. Scelta interessante – e giustissima per un festival che mette sotto la lente di ingrandimento il lavoro dell’autore di casa nella prospettiva di una rinascita donizettiana sul modello della Rossini renaissance lanciata da Pesaro – perché fa ascoltare una cabaletta di Lucrezia, Si voli il primo a cogliere bacio d’un sordo amore, alla fine dalla su prima aria Com’è bello! Quale incanto, l’aria (bellissima) di Gennaro Anch’io provai le tenere smanie d’un puro amore e offre un finale più teatrale e conciso – pare che Donizetti preferisse questo rispetto all’originale – con un arioso di Gennaro e senza il da capo del Era desso il figlio mio di Lucrezia. Lavoro scientifico (nell’edizione viene conservato il duetto tra Gennaro e Maffio Orsini della prima versione) che vede fianco a fianco Casa Ricordi e la Fondazione Donizetti insieme al DonizettiOpera che (ri)dà vita, portandole in scena, a queste edizioni.

La scommessa a Bergamo è stata quella di affidare lo spettacolo, in scena al Teatro Sociale in città alta, al trentaduenne Andrea Bernard che di idee ne ha. Anche molte. Forse troppe (e non tutte immediatamente leggibili) da far stare insieme. Il regista altoatesino legge il dramma di Lucrezia fuori dal tempo: scena spoglia (disegnata da Alberto Beltrame) con due colline di terra, un soffitto a cassettoni sospeso – che girandosi diventa la parete del palazzo di Ferrara dei Borgia con la scritta che Gennaro sfregerà – e tante culle, moltiplicarsi (nella mente della protagonista) di quella dalla quale le è stato sottratto il figlio; costumi (i figurini elegantissimi sono di Elena Beccaro) che filtrano con gusto moderno il Rinascimento della storia e lo immergono in un nero che opprime. Una cornice che Bernard riempie di violenza e brutalità (sputi, schizzi di sangue pulp, sadismo a volontà), raccontando un mondo primitivo dove sono gli istinti a dominare: quelli di Gennaro e dei suoi compagni che oggi sarebbero giovani di un gang di periferia che compie per noia atti di vandalismo; quelli di Alfonso che gioca a fare la guerra e gestisce il potere attraverso il sopruso e la menzogna; ma anche quello materno di Lucrezia sempre pronta ad offrire il seno, oggetto sessuale, certo, ma soprattutto strumento e veicolo di vita per il bambino, seno che si trapasserà uccidendosi nel drammatico finale.

Bernard dà alla vicenda un peso etico da tragedia greca per riflettere sulla maternità negata, violata, derisa, tradita, ma anche ritrovata e donata. Una didascalia, tratta dal secondo capitolo della Didaké, accoglie gli spettatori sul velo nero che fa da sipario: «Non ucciderai, non commetterai adulterio, non fornicherai, non praticherai la magia, non userai veleni, non farai morire il figlio per aborto né lo ucciderai appena nato». La colpa che tormenta Lucrezia come le pesa il nome che porta, quello dei Borgia. La donna proverà a riscattarsi, dando a Gennaro (che non sa che lei è sua madre), avvelenato dal marito Alfonso d’Este, l’antidoto che lo salverà. E che non è altro che la fiala con il latte di un tempo, bevanda che nutre e ridà la vita. Gesto che commuove ed emoziona.

Ma è un attimo perché dopo una prima parte tesa e serrata (correndo anche il rischio di sovraccaricare di gesti e azioni la musica tra partite di golf con le palline che finiscono nella bocca di Rustighello o il fantasma che ogni tanto appare come presagio della mente di Orsini) lo spettacolo si sfalda, diventa di impianto più tradizionale, abbandona una certa compostezza estetica (perché orsacchiotti e chupa chups nel coro che apre il secondo atto?) e perde in potenza di significato quando calca la mano sul rapporto tra Gennaro e Maffio Orsini (aver conservato il duetto tra i due dell’edizione milanese è anche funzionale a questa drammaturgia). E questo non perché ipotizza un amore omosex – nessuno scandalo –, ma perché così facendo, spostando il tutto su un piano affettivo-sessuale sembra mettere da parte il valore dell’amicizia per il quale Gennaro, nella scena finale in cui Lucrezia ha avvelenato tutti, rifiuta l’antidoto per morire con i propri amici: un grande valore quello dell’amicizia, del dare gratuitamente la vita in tempi (i nostri) di rapporti regolati da un do ut des economico o sessuale – vedi la corruzione o gli scandali alla #metoo.

Resta indelebile nella regia di Bernard il gesto forte di Lucrezia, quello della maternità affermata ad ogni costo, anche oltre la morte, in quell’abbraccio che unisce madre e figlio mentre la scena, sino ad allora nera, viene invasa da una luce abbagliante. Che non c’è nella musica di Donizetti che si chiude su un mesto pessimismo dopo aver raccontato la speranza e le disillusioni, l’amore e l’odio. Sentimenti, colori che ci sono tutti nella direzione  nitida e chiarificatrice di Riccardo Frizza sul podio dell’orchestra giovanile Luigi Cherubini (lo spettacolo andrà a Piacenza – il coro è quello del Municipale diretto da Corrado Casati – e Ravenna, sedi abituali della formazione musicale voluta da Riccardo Muti, ma anche a Reggio Emilia con diversi cambi di cast). Il musicista bresciano, direttore musicale del DonizettiOpera, ha la grande capacità di restituire la partitura nella sua disarmante verità (e bellezza), di offrirla nella sua compiutezza sperimentale e insieme nel suo essere ancorata alla tradizione. Frizza sa raccontare non facendo mai venire meno la tensione emotiva sbalzando ritmi e melodie, assecondando le atmosfere che in varie forme Donizetti crea. Il direttore accompagna e sostiene sempre i cantanti alle prese con una scrittura impervia, fatta di belcanto e virtuosismo, che richiede la capacità di restituire la parola teatrale del libretto di Felice Romani.

Carmela Remigio è esemplare nel restituire la dimensione umana di Lucrezia, madre tormentata e donna mai piegata dalla vita seppur disincantata nel giudicarla: acuti, fiati, agilità sono al servizio del personaggio che esce teatralissimo nel modo di scolpire la parola del soprano abruzzese il cui canto, dolcissimo e dolente, sa farsi anche duro, secco e tagliente mano a mano che il dolore (alla fine le lacrime sul volto sono vere) prende il sopravvento. Percorso che il Gennaro di Xabier Anduaga compie nella direzione opposta trasformandosi da ragazzo ribelle che prende la vita per i capelli a figlio che una volta ritrovata la madre deve subito perderla. Il tenore spagnolo, classe 1995, ha tecnica (unico neo le doppie mancanti, ma la pronuncia italiana si sistema facilmente) e voce bellissima fatta di acuti luminosi e svettanti che offre generosamente al personaggio che restituisce modernissimo nel suo essere in qualche modo estraneo alla vita.

Muscolare e tutta in attacco la prova di Marko Mimica, Alfonso dalla voce tornita e limpida e dalla presenza scenica sempre dominante e fascinosa. Vardhui Abrahamyan è un appassionato e palpitante Maffio Orsini, trascinatore di una folta e puntuale squadra vocale dove spicca il Rustighello di Edoardo Milletti. Neri, tutti, nel carattere e nel costume. Solo Lucrezia alla fine muore vestita di bianco. Redenta. Un bianco che si sporcherà del rosso del sangue. Segno di vita, come quel latte – bianco, appunto – che è il nutrimento (la vita) che una madre consegna a un figlio.

Nelle foto @Gianfranco Rota Lucrezia Borgia al DonizettiOpera