Alla Scala l’opera di Puccini nella versione originale del 1893 Scavo analitico del direttore sui molti rimandi della partitura Contestata (non a torto) la regia. Siri impeccabile protagonista
«Bella senz’anima» cantava Riccardo Cocciante. Un «tu mi rimpiangerai, bella senz’anima» gridato dal cantautore, scelto poi come titolo che ti frulla in testa subito dopo la Manon Lescaut andata in scena al Teatro alla Scala nella versione di Torino del 1893, quella che Giacomo Puccini rimaneggiò otto volte, ma che Riccardo Chailly ha voluto mettere sul leggio come nuova tappa della sua riscoperta delle versioni originali dei melodrammi del musicista toscano. Il 7 dicembre toccherà a Tosca che nell’edizione critica di Roger Parker (lo stesso che ha curato questa di Manon) offre un’inedita chiusura della celeberrima Vissi d’arte. Riccardo Cocciante, si diceva. Perché il titolo-slogan si adatta benissimo alla Manon Lescaut in scena alla Scala sino al 27 aprile. Non per forza con un risvolto negativo, intendiamoci. Anche se ciò che non torna, il «senz’anima», è quello che salta subito all’occhio. O forse all’orecchio stando alla salva di «buu» che sono piovuti addosso alla prima a David Pountney: contestazioni bloccate a mezz’aria per un attimo, quando il regista britannico è caduto nella buca del suggeritore, riprese, però, miste ad una malcelata e feroce ilarità, appena si è capito che non si era fatto nulla.
La Manon Lescaut che si è vista è «bella», per merito dello scenografo Leslie Travers e della costumista Marie-Jeanne Lecca: ambientata in una stazione vittoriana di fine Ottocento, più inglese che francese, con personaggi in costumi filologicamente impeccabili. Un luogo unico dove trovano posto i vagoni lusso di un treno alla Orient Express e la grande nave del terzo atto. Poi ecco la stazione in rovina, sommersa dalla sabbia del deserto, visione alla Magritte con l’orologio che affonda nelle dune. Una Manon «senz’anima», però, per “colpa” di Pountney. Che riempie un bellissimo contenitore di nulla: idee sghembe che non si comprendono, situazioni al limite del ridicolo (il confine tra tragico e comico è sottilissimo, questione veramente di poco… di una caviglia scoperta inopportunamente), scelte che remano contro la musica. Musica che è «bella». Che Manon Lescaut lo sia è un dato di fatto. Bella come, forse in Puccini, solo il Trittico sa esserlo. Musica compiuta e perfetta. Non si potrebbe immaginare una nota in più o una in meno per raccontare la storia dell’adolescente Manon che la famiglia vorrebbe rinchiudere in un convento, che riesce a far saltare il piano fuggendo con lo studente Des Grueux, che attratta dalla ricchezza si concede al vecchio Geronte, che si lascia convincere a fuggire nuovamente con lo studente, che si vede arrestare perché accusata di prostituzione e deportata in America dove morirà «sola, perduta e abbandonata», tragico compimento di un destino già scritto.
La Manon di Chailly è «bella» da togliere il fiato perché suona nuova e inedita. Non solo perché il direttore sceglie la partitura originale con 173 battute in più rispetto alla versione che siamo abituati a sentire (quella compiuta e perfetta), ma perché nella sua concertazione mette in luce gli indubbi legami con il modo di intendere la musica di Wagner, fa sentire lo Strauss (Richard) che verrà (e che Chailly affronterà la prossima stagione propendo la Salome), colora il racconto musicale delle inquietudini novecentesche che già si affacciano all’orizzonte. Così il clima da subito è cupo e grave, il vortice sonoro ti tira dentro in una riflessione sulla vita, quasi una seduta di analisi. Quasi una conferenza attorno al tavolo anatomico.
Perché è (non potrebbe non esserlo) anche «bella, senz’anima», volutamente verrebbe da dire, la lettura tutta cerebrale di Chailly. Radiografia in musica, fredda e lucida come un esame diagnostico sa e deve essere, dei sentimenti dei protagonisti. Un Puccini senza puccinismi quello proposto da Chailly, anche a rischio di congelare le emozioni. Affascinante intellettualmente perché sbalza ogni rimando musicale, specie sinfonico, che Puccini mette nella sua partitura. Musicalmente interessante e prezioso, un manuale sonoro della musica inquieta che ha accompagnato (raccontandoli) i tormenti dell’umanità dalla fine dell’Ottocento sulla soglia del Novecento. «E adesso siediti su quella seggiola, stavolta ascoltami senza interrompere, è tanto tempo che volevo dirtelo» cantava Cocciante. E la Manon di Chailly è da ascoltare in silenzio, sgombrando le orecchie dalle altre Manon, scrutando ogni piega sonora, ogni impasto sonoro che il direttore trova (dopo un inizio più a seguire il metronomo che la bellezza del suono) in orchestra. Che questa versione ha. E non poteva che essere diretta così – Chailly in disco con Kiri Te Kanawa, José Carreras ei complessi del Comunale di Bologna ne ha dato una lettura diametralmente opposta, languida e sentimentale, pucciniana nel senso più diffuso del termine – per metter in luce il suo essere un laboratorio, un terreno di sperimentazione per il compositore che da questo primo nucleo realizzerà ben otto versioni di Manon. Certo il lavoro di cesello è servito e Puccini, da uomo di teatro quale era, è riuscito nell’ultima versione a ottenere la sintesi musicale e drammaturgica perfetta. Il novo (meglio dire vecchio dato che è quello della prima versione) finale del primo atto è impervio per l’ardita polifonia che mette in campo, ma non raggiunge le vette di poesia dell’ultimo. La coda del concertato della lezione di ballo del secondo atto allunga troppo il brodo. La versione extended di Sola, perduta e abbandonata è meno drammatica, mentre funziona la coda meditativa che Puccini chiede all’orchestra sul grido di Manon «non voglio morire».
Aria che Maria José Siri canta respirando insieme a Chailly e all’orchestra. Il soprano, preparatissima e impeccabile tecnicamente come sempre, offre il suo slancio meditativo a Manon che colora da subito di una vena più malinconica che voluttuosa. Ogni nota, ogni acuto è a posto. Manca forse un’intensità che fa diventare vita vissuta il canto. Marcelo Alvarez ha una delle voci più belle degli ultimi decenni per accento e colore. Ha anche tecnica che mette in campo per ovviare agli indubbi problemi che lo strumento mostra: fiati ripetuti, pause prima di ogni acuto che spezzano la tensione musicale, continuo schiarirsi la voce, toccarsi la bocca e il naso, bere acqua… Cosa che va scapito della costruzione del personaggio, che a volte distrae e che soprattutto dispiace ritrovare in un artista che ha regalato serate indimenticabili. Una broncopatia acuta (che forse era già in corso alla prima) ha costretto Alvarez a cancellare (per ora) la seconda recita. Massimo Cavalletti è un corretto Lescaut, Carlo Lepore un concreto Geronte (con tanto di macchina fotografica da voyeur per immortalare le scene porno-soft del secondo atto), Marco Ciaponi si moltiplica nei personaggi di Edmondo, del maestro di ballo e del lampionaio.
Idea registica che fa di questo personaggio una sorta di burattinaio della vicenda. Una delle tante idee messe in campo da Pountney. Una delle poche riuscite, però, di uno spettacolo che, sì, parte bene: quando si apre il sipario Manon è già in scena, su un carrello ferroviario pieno di sabbia, come se in punto di morte rivedesse le tappe tragiche della sua vicenda. Ma che naufraga quasi immediatamente, perennemente incerto tra realismo e simbolismo, macchinoso nel continuo moltiplicarsi di Manon (tutte addomesticate con gli zuccherini dal fratello) dalla bimba all’adolescente che “canta” in playback le prime frasi del primo duetto con Des Grieux doppiata dalla Manon/Siri sul carro. Rapporti inesistenti tra i personaggi, distanze che non si comprendono. «Vivere insieme a te è stato inutile, tutto senza allegria, senza una lacrima» cantava ancora Cocciante, fotografia dello spettacolo di Pountney. Che ha, però, una colpa forse più grave, quella di non fare i conti con la fisicità degli interpreti chiamati a interpretare i personaggi: il regista non mette intelligenza scenica nel dirigerli, nel chiedere loro gesti e mosse adeguate alla loro presenza scenica sino a farli cadere loro malgrado nel ridicolo. A conti fatti è questa, forse, la più grave “colpa” per la quale il regista è stato sonoramente contestato.
Uscendo l’occhio cade sulla locandina che nei corridoi di platea e palchi indica la durata dell’opera. E viene da fare un conto, cronometro alla mano. Manon Lescaut dura due ore e cinque minuti: 75 minuti la prima parte, 50 la seconda. Una ricontrollata alla durata di Attila del 7 dicembre: 73 minuti la prima parte, 47 la seconda, due ore spaccate. Il che vuol dire che nell’arco di una stagione il direttore musicale della Scala, Riccardo Chailly, appunto, dirige in totale quattro ore e cinque minuti di musica lirica (moltiplicate, certo, per le repliche in programma per ciascuno dei due titoli). Sarà così anche il prossimo anno, anzi, anche qualcosa meno: la Tosca che aprirà la stagione dura un’ora e cinquanta, stessa durata, più o meno, a seconda del tempo staccato dal podio, della Salome di Richard Strauss, atto unico che arriverà a metà cartellone con la regia di Damiano Michieletto. Non sarà un po’ poco? ti chiedi. Un po’ poco per costruire un’identità di suono di un’orchestra e di un coro. Identità lirica (Chailly dirige molti concerti sinfonici), certo. Che è, però, la prima “vocazione” del Teatro alla Scala. Oggi più che mai il teatro ha bisogno di figure nelle quali identificarsi. Artisticamente. E, come sempre è stato, socialmente.
Nelle foto @Brescia/Amisano Teatro alla Scala la Manon Lescaut