Fate l’amore (con Schubert) non fate la guerra

Fierrabras per la prima volta al Teatro alla Scala con Harding Peter Stein racconta in bianco e nero i paladini di Carlo Magno

A suo tempo, forse, Franz Schubert era un po’ figlio dei fiori. Prendete Fierrabras. Dopo tante battaglie, dopo i dolori e le violenze della guerra quello che trionfa è l’amore. Il messaggio è chiaro: sa tanto del fate l’amore non fate la guerra degli hyppies. D’accordo, spesso nell’opera il lieto fine fa trionfare amore e buoni sentimenti. Ma qui il sapore è diverso. Dice una volta di più l’inutilità della violenza, dello scontro di civiltà. E lo fa con la leggerezza riflessiva tipica di Schubert.

C’è tutto nella musica. Tanto che, forse, non era così necessaria nel finale la sottolineatura kitsch di un grande cuore rosso, unica macchia di colore nel racconto tutto in bianco e nero fatto dal regista Peter Stein per l’opera del compositore austriaco. Datata 1823, riscoperta a fine anni Ottanta da Claudio Abbado, ma mai ascoltata al Teatro alla Scala dove martedì 5 giugno è arrivata per la prima volta in un allestimento del Festival di Salisburgo. Che sulla carta prometteva bene. Un direttore “sinfonico” come Daniel Harding. Un regista, Stein appunto, che raccontando la storia (qui il libretto di Josef Kupelweiser attinge all’epica cavalleresca) ha realizzato spettacoli impeccabili all’opera e nel teatro di prosa. Un cast di specialisti di un certo repertorio – che va dal Beethoven vocale a Mozart – che è quello al quale ha guardato Schubert per la sua avventura nel melodramma. Lo senti nella musica, nelle melodie e nella costruzione della partitura. Ma anche nella concezione drammaturgica.

Eppure nel Fierrabas scaligero qualcosa non torna. Manca forse quella leggerezza, quella voglia di “fare l’amore”, appunto, con una musica talmente bella che dovrebbe farti venire voglia di ascoltarla continuamente, in loop. Invece l’effetto noia è sempre in agguato. Perché il modo di Harding di raccontate dal podio gli amori (e le guerre) tra Emma ed Eginardo, tra Florinda e Rolando – amori prima contrastati, ma poi benedetti dai rispettivi padri, uno il principe dei Mori Boland, l’altro nientemeno che re Carlo, quello dei paladini di Francia – è sempre lo stesso. Il passo non cambia mai. Poco schubertiano, verrebbe da dire. Perché la melodia e la cantabilità del compositore restano sullo sfondo. Accennati, ma mai afferrati nella loro profondità. Restano in superficie senza far diventare vita, passione le note. Che arrivano austere nella lettura di Harding, pur cesellata e meditata. Spesso restituita a mani nude, appoggiando la bacchetta. Perché Schubert ha qualcosa di sacrale.

Avrà pensato così, forse, anche Peter Stein che ha scelto la via della tradizione, fedele alle indicazioni del libretto, con una regia (anche se in realtà ce ne è poca o nulla) a due dimensioni e a due colori. Il bianco e il nero delle incisioni. Perché fanno questo effetto le scene disegnate da Ferdinad Wögerbauer (sulla stessa linea i costumi di Anna Maria Heinreich, bianchi per i francesi, neri per i mori), stampe che raccontano come in un fumetto d’arte le avventure dei paladini di Francia di re Carlo. Cantanti – con potenzialità da attori – che, con una regia bidimensionale (Stein ha affidato la ripresa scaligera ai suoi assistenti Bettina Geyer e Marco Monzini) che non scava nei personaggi fanno solo i cantanti. Alcuni in modo più schubertiano come Markus Werba e Dorothea Röschmann, Rolando e l’amata Florinda, come Bernard Richter, il Fierrabras del titolo, l’unico a restare senza amore. Altri in modo più melodrammatico come Anett Fritsch e Peter Sonn, Emma ed Eginardo, o Tomasz Konieczny, Carlo dalla voce quasi wagneriana. Repliche sino al 30 giugno.

Fierrabras al Teatro alla Scala nelle foto Brescia/Amisano

 

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