L’oratorio sacro proposto in forma scenica dall’Opera di Roma per il debutto in Italia della regista di casa nei teatri tedeschi Niente Vangelo, ma la storia di una famiglia che perde un figlio George Petrou dirige l’Orchestra barocca dei Conservatori
Nero. Perché il colore che non è un colore ti resta dentro. Scava un buco (nero, appunto) nella tua anima. Te lo porti dentro, ma anche sul viso, te lo porti addosso nel caldo soffocante (quasi mezzanotte, ma l’afa non da’ tregua…) dei Fori Imperiali. Roma. Il Colosseo in fondo al viale. Massenzio, imponente, a fare da quinta. Luminosi. Illuminati dalle luci artificiali che ne esaltano forme ed ombre. Ma anche (e forse soprattutto) dal tempo. Quel tempo che si è depositato sulle pietre. E si è fatto speranza. Perché quelle pietre sono state, sono speranza. Speranza (forse illusione?) di eternità. Che, però, stasera non riesci a respirare… e non solo per il caldo.
Nero. Dentro e fuori. Anche se il coro – che poi sono Giovanni, Cleofe, l’Angelo e Lucifero… non Maddalena, perché Maddalene è… morta, si è tagliata le vene su un altare – anche se il coro ha appena cantato «Ch’è risorto oggi alla terra per portar la terra al Ciel!». Nero. Dentro e fuori. anche se la musica che impregna ancora l’aria – e torna, insistentemente, nella testa – è quella di Gerorg Friederich Händel. Del suo oratorio La Resurrezione. Parola di speranza. Certezza, meglio ancora. «Cuore della fede cristiana» come ha “scoperto” (davvero incredibile… poi dicono che il cristianesimo e la cattolicità sono una zavorra alla nostra società…) Ilaria Lanzino. Regista – da leggere al femminile, donna, da sottolineare senza paura di essere tacciati di sessismo, perché in Germania, dove lei lavora, è chiave che apre ogni porta… quasi discriminante al contrario perché se non hai donne in locandina sembra che lo spettacolo abbia una marcia in meno… ma questa è un’altra storia. Regista, Ilaria Lanzino, che spopola in Germania con le sue riletture di classici della lirica – uno su tutti, Lucia trasformata in Luca di Lammermoor per raccontare una storia di omofobia (quella di Enrico che impedisce a Luca di amare Edgardo…). Italianissima. Nata a Pisa, formazione tra Lucca e Venezia, poi via, a fare il classico percorso da direttore di scena sino a regista nei teatri tedeschi.
Lunga militanza. Lunga carriera. Successo in Germania. Mai approdata (fino ad oggi) in Italia, però. L’ha portata il Teatro dell’Opera di Roma, chiamata da Damiano Michieletto al quale la fondazione lirica della Capitale ha dato “carta bianca” per l’estate lirica romana del 2025, quella del Giubileo. Tra sacro e umano il cartellone disegnato dal regista veneziano per dialogare con quello che succede nella Capitale, per quello che una volta tutti chiamavano Anno Santo – definizione politicamente scorretta in una società che (giustamente) vuole essere laica. Tra sacro e umano che è poi, la vera essenza ella fede. Perché il Dio cristiano è un Dio che si fa uomo, nasce, cresce e muore come un uomo – la croce di ieri è il martirio che subisce chi muore mentre è in fila per ritirare un pacco di aiuti… è lo strazio di corpi dilaniati dalle bombe… è l’indifferenza che fa affogare in mare chi cerca una vita migliore… è un’iniezione letale che viene somministrata come monito per chi avesse mai la malaugurata idea di delinquere… Un Dio che si fa uomo, che si fa vicino. Tra sacro e umano, appunto.
Tema che la Lanzino ha declinato in un compito da prima della classe – guardate come si fa una regia “alla tedesca” sembrava dire alla prima, lanciando baci e sorrisi a chi la contestava durante le uscite finali – compito ineccepibile (c’erano tutti gli elementi del regietheater che in Germania, però, ha stufato molti), da dieci… nella sua versione scenica alla Basilica di Massenzio de La Resurrezione di Händel. Tecnica, capacità di racconto, visioni estetiche (certo pop, contemporanee… alcune al limite della blasfemia e del satanismo, anche se è difficile capire se fatte coscientemente o tanto per farle…), passo narrativo, idee potenti e toccanti… ma fuori tema. Perché il tema era La Resurrezione…
Quella di Händel che scrive il suo oratorio proprio per Roma nel 1708 – lo si ascolta la prima volta l’8 aprile, periodo di Pasqua, a Palazzo Bonelli, per la famigli Ruspoli. Un Händel ventitreenne. Già teatralissimo. Come la Sistina di Michelangelo e come tutte le sue opere che verranno, da Alcina a Giulio Cesare. Teatralissimo e allo stesso tempo metafisico, come un affresco di Giotto ad Assisi o agli Scrovegni a Padova, come la Crocifissione di Masaccio in Santa Maria Novella. Capace, con una musica dove il sentimento non è fine a se stesso, ma racconta, evoca, suscita… capace di andare al cuore dell’evento centrale della fede, la Resurrezione, appunto. E di raccontarlo così come è risuonato negli occhi e nel cuore di chi quel momento lo ha vissuto, Giovanni, le donne – che sono Maddalena e Cleofe, non c’è Maria, la Madre. Un racconto in presa diretta, un lungo piano sequenza dal Calvario del Venerdì Santo al sepolcro della mattina di Pasqua. Attraverso gli occhi e il cuore di Giovanni, Maddalena e Cleofe. Che sono poi gli occhi e il cuore di chi anche oggi crede che quell’evento ha cambiato la Storia… gli anni so contano prima e dopo Cristo. Occhi e cuore che ogni domenica fanno memoria… «fate questo in memoria di me»… di quell’evento. Promessa. Certezza. «Scandalo per i pagani» la croce e la Resurrezione, come diceva San Paolo. Perché chi poggia tutto sul pensiero, sul logos che resta parola, ma non si incarna, non riesce a fare il grande salto.
Ed è questo che racconta La Resurrezione di Händel secondo Ilaria Lanzino. L’incapacità del salto della fede. Attualissima, drammaticissima declinazione di un mondo che non sa più fare i conti con la morte… sebbene questa sia dappertutto, nei reportage di guerra, nelle pagine di cronaca nera (troppo nera, nel racconto di bambini uccisi, di donne massacrate, di anziani lasciati soli…), nelle battaglie civili di chi vorrebbe lasciarla decidere a ciascuno, come un diritto. Giusto o sbagliato? Nessun giudizio. La morte è la protagonista della Resurrezione della Lanzino. La morte di un bimbo, avvenuta in seguito a un tragico e fatale incidente: almeno così ti immagini vedendo quella scena, tanto cruda e tanto realistica (Dolci chiodi, amate spine… canta Maddalena) da farti chiudere gli occhi, la scena dell’ospedale, scena quasi caravaggesca (luci bellissime di Marco Filibeck) che si anima raccontando di un bimbo forse annegato (ci sono altri bambini, con braccioli e palloncini, c’è l’animatore vestito da clown) durante una festa in piscina… tutto fu fatto per salvarlo, dice il capo chino del medico di fronte agli occhi imploranti dei genitori. La morte di un bimbo che manda in frantumi una famiglia.
Racconto che la regista fa correre in parallelo, o meglio, sovrappone, al racconto metafisico (perché ci sono anche un Angelo e Lucifero) di Händel. Così, nella Sonata che apre l’oratorio siamo già nel pieno della tragedia, al funerale del piccolo, la bara bianca seguita da mamma, papà e nonna… che sono, nella riscrittura drammaturgica della regista, Maddalena, Giovanni e Cleofe. La piccola bara bianca ricoperta di peluche. Poi un fermo immagine. Irrompe l’Angelo, bianco il vestito, bianche le ali… un microfono in mano e posa da rockstar, come in un concerto di Lady Gaga… con tano di boys vestiti da rugbisti. E uno è Lucifero che si strappa le ali (bellissimo il segno rosso che avrà d’ora in poi sulla schiena), si spoglia e si tra-veste… parrucca, rossetto, abito lungo nero di pailettes… il bene e il male… immagine che stride e non poco per chi ha fatto dell’inclusività una bandiera, etichetta che in tempi di Pride e diritti chiesti a gran voce viene appiccicata alla trans che è, dunque, il male…
Il funerale. Poi la tragedia diventa intima. Un colpo di girevole (le scene efficaci e funzionali sono di Dirk Becker) e siamo nella casa di Giovanni e Maddalena. Si svuota la stanza del figlio, i peluche negli scatoloni, mentre la nonna prega. Tragedia troppo grande da rievocare (altro colpo di girevole ed eccoci in ospedale), troppo dura da sopportare…. non serve nemmeno il tentativo di concedersi una notte d’amore (qui in camera da letto, Giovanni e Maddalena in pigiama), forse di sesso… le visioni attraversano la mente di Maddalena… una Via Crucis con un Cristo che porta la croce e si crocifigge sul letto matrimoniale… mentre un vescovo distribuisce la comunione a tutti i presenti gettando poi, con un gesto che sfiora la blasfemia, le ostie addosso a Maddalena… Perché? I fatti precipitano. maddalena si attacca alla bottiglia. Giovanni la caccia di casa. Trova una nuova moglie. S risposa. Ha un figlio (così il racconto temporalmente circoscritto di Händel qui si dilata), lo battezza… e durante il battesimo irrompe Maddalena, che vorrebbe rapirlo… per far “risorgere” il suo morto. Tentativo fallito. Così si suicida – e qui il rito satanico, la croce al contrario conficcata sull’altare…
Storia drammatica. Attualissima. Come ce ne sono tante oggi. Perché la morte di un figlio tempra o distrugge. Vera, in questo racconto in presa diretta che la Lanzino imbastisce tagliando e cucendo la partitura in funzione della sua drammaturgia, in un copia e incolla di arie e recitativi, sposati avanti e indietro, frammentati, per poter far tornare il suo racconto – sparisce il recitativo dove Maddalena annuncia «Ho veduto in quell’orto il mio Signore», altra rivoluzione cristiana perché Cristo affida l’annuncio della sua Resurrezione alle donne… l’aria (bellissima) Del ciglio dolente viene anticipata all’inizio della seconda perché arriverebbe mente Maddalena si è giù uccisa…. Racconto che lascia il segno, intendiamoci. Che, però, è altro dal racconto di Händel. Potente. Ma altro. Chi risorge? L’uomo. Che è il messaggio, la certezza che con la sua Resurrezione ha dato Cristo. E questo la Lanzino lo racconta. In un finale poetico – perché non giocare questa carta per tutto il racconto, arrivato, invece, con l’estetica pop di una serie tv? Un bambino appare in platea. attraversa le file di sede che guardano i resti monumentali della Basilica di Massenzio. Poi appare sul palco. Sveglia (fa risorgere) la mamma morta. La prende per mano e la porta via con lui… «m’ha chiamata mio figlio… m’ha detto mamma viene in Paradiso…» un po’ Suor Angelica pucciniana, ma sempre efficace.
Spariscono nel nero. Mentre il coro canta «Ch’è risorto oggi alla terra per portar la terra al Ciel!». Mesto… perché in questo racconto la musica cerca di farsi strada, prepotente e caparbia. La musica di Händel che George Petrou dirige (in buca, maglietta nera, perché fa caldo, mentre poi, agli appalusi finali si presenta con giacca e pochette) sul podio dell’Orchestra nazionale barocca dei Conservatori, progetto del ministero dell’Università e della Ricerca. Con i pregi e i difetti del caso, i pregi di coinvolgere giovani talenti, di diffondere il Barocco e la sua prassi esecutiva (Petrou oggi è un riferimento per questo repertorio), il difetto di avere un’orchestra che si forma per l’occasione, con un suono forse poco individuabile… Ostacolo che Petrou, però, aggira con una lettura rifinita e precisa di Händel, attenta ai disegni strumentali e al canto, in un dialogo continuo tra buca e palcoscenico – dialogo che si “assesta” in corso d’opera, trova equilibri sempre più puntuali perché tutti sono microfonati (non certo l’ideale per questo repertorio, ma sarebbe impossibile sentire qualcosa negli spazi all’aperto di Massenzio, mentre in lontananza rombano motori e in cielo passano aerei e gabbiani). Niente ba-rock nella direzione di Petrou, niente suono antico fine a se stesso, ma una continua ricerca di sonorità sulle parole del libretto di Carlo Sigismondo Capece.
Le “dice” Sara Blanch, Angelo da concerto rock, graffiante nella sortita iniziale, poi sempre più morbida, musicale e avvolgente in un canto che si fa tutt’uno con la parola di speranza del testo. Le “dice” con efficacia scenica Giorgio Caoduro, Lucifeo travestito che alla fine è piegato dalla sconfitta. Le “dice” Anna Maria Labin, Maddalena dal canto sofferto (anche contro quello che dice la musica stessa) in totale simbiosi con la lettura scenica della Lanzino. Le “dice” Teresa Iervolino, Cleofe dal colore brunito e dal canto che vola nitido. Le “dice” Charles Workman, cantante di lungo corso, esperienza e intelligenza musicale, per un Giovanni inaspettato (il discepolo prediletto, era il più giovane, giovanissimo sotto la croce di Cristo che racconterà poi nel suo Vangelo) intimo e a suo modo tormentato.
«Sì, col Redentore sorga il mondo redento» gli fa dire Händel. Sigillo di speranza nella musica. Certezza che la Lanzino non mette alla fine del suo spettacolo. Maddalena è sparita con il figlio morto. Chi resta si abbraccia. Ha addosso i segni della tragedia (i costumi di Annette Braun ora cadono sghembi sui corpi in scena). Ma abbassa lo sguardo. E tutto diventa nero. Un nero, il colore che non è colore, che ti resta dentro.
Nelle foto @Fabrizio Sansoni La resurrezione alla Basilica di Massenzio