Al Teatro alla Scala la terza tappa del Ring di Richard Wagner diretto da Simone Young e firmato dal regista britannico Protagonista Klaus Florian Vogt insieme a Volle e Nylund Appello dei lavoratori a sipario chiuso: Cessate il fuoco
«Cessate il fuoco». Scritta azzurra su fondo nero. Mezzeluci in sala. I palchetti illuminati. Rosso Scala. Rosso sangue. «Stop the war». Stesso colore, azzurro su nero. Poi una frase di Giuseppe Verdi – anche se di lì a poco la musica che invaderà la sala sarà quella di Richard Wagner, anche se il compositore tedesco non ha combattuto (a suon di musica) per la libertà (per l’unità e la dignità…) del suo (nostro) popolo a differenza del nostro «padre della patria». Ancora azzurro su nero, l’invocazione di Simon Boccanegra, «… e vo’ gridando: pace! E vo’ gridando: amor!». Grido inascoltato, oggi come ieri, quello del doge raccontato, in musica, da Verdi. Così il Teatro alla Scala, prima che la musica ipnotica e dilatata di Wagner, tirasse dentro per cinque ore nel racconto delle avventure di Siegfried – avventure di un uomo che cerca la sua identità e la sua libertà – così il Teatro alla Scala ha voluto, ancora una volta dire la sua sull’attualità. Certo, ogni giorno, lo fa la musica, capace, ieri come oggi, di parlare al nostro presente con una forza che è culturale e allo stesso tempo politica, senza che le sia messo in testa uno slogan. Certo, ogni giorno, lo fa la musica, capace, ieri come oggi, di parlare al nostro presente con una forza che è culturale e allo stesso tempo politica, senza che le sia messo in testa uno slogan.
Un presente di guerra in Medioriente e in Ucraina, in Myanmar e in tante (troppe) parti del mondo. Soprattutto in Palestina. Hanno voluto dire i lavoratori scaligeri chiedendo al sovrintendente Fortunato Ortombina di incorniciare il wagneriano Siegfried con questo grido silenzioso. «E vo’ gridando: pace! E vo’ gridando: amor!». Rumoroso, invece, quello andato in scena, sempre prima dell’inizio dell’opera, sulla piazza. Anche questo sotto l’occhio vigile del sovrintendente. Bandiere della Palestina. Ma anche dei sindacati che hanno voluto ancora una volta accendere le luci sul licenziamento di una maschera che, contravvenendo al regolamento, ha lasciato il posto che doveva presidiare per affacciarsi in sala, srotolare uno striscione e gridare «Palestina libera!» durante un concerto privato in occasione dell’incontro annuale dell’Asian development bank al quale era presente anche la premier Meloni.
Fuori le proteste. Dentro un applauso carico di affetto e dolore. «E vo’ gridando: pace! E vo’ gridando: amor!» dice Boccanegra. Siegfried, invece, combatte. Uccide il drago (che è la bestia nella quale si è trasformato grazie all’elmo magico il gigante Fafner per proteggere il tesoro conquistato a caro prezzo, dopo aver costruito il Walhalla e aver ucciso il fratello Fasolt), uccide Mime, il nano che lo ha allevato solo per fargli conquistare l’anello, il Ring forgiato con l’oro che un altro nano, Alberich, ha rubato alle figlie del Reno. Impresa, quella di Siegfried, che riesce perché un uccellino del bosco gli parla e gli svela le trame dei suoi nemici. Una trama da fantasy, anni prima di Harry Potter e de Il Signore degli anelli e di Narnia. E David McVicar ha scelto questa strada, quella del racconto fantasy, appunto, per il suo Der Ring des Nibelungen alla Scala. Arrivato ora alla terza tappa (terza tappa, ma seconda giornata perché la prima è Die Walküre mentre il Rehingold è il prologo a tutta la vicenda) con Siegfried. Il capitolo sinora meglio riuscito. Anche perché i fili del racconto si intrecciano bene, tornano e ti conquistano nel gioco di rimandi (anche con variazioni sul tema… Brünhilde alla fine di Die Walküre si era addormentata, chiusa nel cerchio di fuoco che circonda la roccia dal padre Wotan, con indosso un’armatura e un abito grigio… ora si risveglia sempre con l’armatura – e la maschera d’oro che in Rheingold aveva custodito Freia –, ma con un lungo abito/camicia da notte color glicine) fili del racconto si intrecciano bene, tornano e ti conquistano nel gioco di rimandi tra simboli e oggetti che sono apparsi già dal Rheingold.
C’è la mano gigantesca, che in fondo al mar era la dimora di Woglinde, Wellgunde e Flosshilde, le figli del Reno, ma no che è stata già da Die Walküre il giaciglio di Brünhilde. C’è il mondo, di cui Erda (sempre con i suoi capelli bianchissimi e lunghissimi, ma più piegata… quasi strisciante) porta il peso. Set hollywoodiano per un Siegfried cinematografico. Prima di tutto nella musica, così come la stacca (italiana, melodrammatica più americana che tedesca, più rutilante che austera, quasi proiettata oltre il Novecento anticipato da Wagner… proiettata sulla soglia deg terzo millennio) Simone Young, festeggiatissima ad ogni ritorno sul podio ad ogni inizio d’atto. Cinematografica nello scorrere del racconto visivo, fatto di dissolvenze (laddove Wagner impone più scene che si susseguono in un flusso ininterrotto di musica). Fatto di contaminazione di generi. Una commedia grottesca il primo atto, con lo strepitoso Mime di Wolfgang Ablingher-Sperrhacke che tira la pasta e poi si infila una pelliccia leopardata. Un secondo atto dark, quasi fantascienza, con la bellissima foresta fatta di enormi donne-albero (le scene sono dello stesso McVicar e di Hannah Postlethwaite, i costumi di Emma Kingsbury) dove Siegfried sconfigge il drago. Un terzo atto riuscito, minimalista, esistenzialista, simbolista che svuota il palco (toccante – e visivamente bellissima – la scena di Erda e Wotan benissimo illuminata da David Finn) sino al duetto finale che, però, sembra solo imbastito. Frontale. Detto al pubblico. Poco agito. Anche se McVicar mette, scrupolosissimo, ogni indicazione del libretto. Come in un film. Racconta. Interpreta poco – rispetto a quei Ring dove si rileggevano le vicende di Wotan alla luce del capitalismo, ad esempio, o con la lente di ingrandimento della psicanalisi… qui c’è un racconto, basta quello… e forse è anche il modo “migliore” per restituire una saga che come tutte le fiabe, divertendoti, ti fa interrogare sulla vita.
Certo c’è la musica a scavare nel profondo. E quel pugno allo stomaco che ti prende vedendo che Siegfried conosce la paura non quando si inoltra solo nella foresta, non quando incontra Fafner sottoforma di drago, ma solo quando impara ad amare. Amore e paura. La paura della perdita. La paura di non essere all’altezza. La paura di scommettere, la scommessa della vita. Vertigine che Wagner mette nella sua musica dilatata e sospesa che Simone Young dirige con gusto tutto italiano. Ben assecondata da tutta l’orchestra del Teatro alla Scala (che la sera prima della prima di Siegfried, a proposito di lettura cinematografica, con la casacca della Filarmonica si era lanciata in una carrellata di colonne sonore in piazza Duomo diretta da Riccardo Chailly tra Nino Rota e John Williams), compatta, puntuale, avvolgente nei soli, con una menzione per il corno di Giovanni Emanuele Urso, chiamato poi in placo agli applausi finali insieme agli interpreti. Applausi finali che non hanno visto uscire sul palco McVicar – così le quattro contestazioni piovute dal loggione se le sono prese i suoi collaboratori.
Vertigine, quella musicale, che Klaus Florian Vogt sostiene con la sua voce di cristallo, apparentemente lontana dall’idea di eroe wagneriano, ma che rende Siegfried umanissimo. Una maratona (questa ai limiti dell’umano) quella che Wagner impone al tenore (e sarà così anche nella terza giornata, nella Götterdämmerung dove Siegfried e Brünhilde se la giocano in fatto di vette vocali da scalare…) e che Vogt porta sino al traguardo, calibrando (quasi sempre) bene lo strumento. Impeccabile la Brünhilde di Camilla Nylund, la Brünhilde “piccola” perché ha solo una scena, dopo essere stata onnipresente in Walküre. Strabordante scenicamente, localmente a fuoco (sempre sul filo, ma mai sbilanciato sull’abisso del carattere) il Mime di Wolfgang Ablingher-Sperrhacke, nano come è nano Alberich al quale, come in Rheingold, offre la sua bellissima voce baritonale Ólafur Sigurdarson. E come in Rheingold Fafner è Ain Anger (qui spesso canta microfonato e da fuori) ed Erda ha il colore brunito di Christa Mayer. Le svolazzate verso l’acuto dlle Stimme des Waldvogels sono affiudate a Francesca Aspormonte, look punk (con tanto di cresta) in scena, “doppiata” da un uccellino di carta mosso dai servi muti che contrappuntano l’azione e “animano” i mostri giganti che popolano la scena – bellissimo il drago con la testa a forma di teschio, mosso quasi a passo di danza (coreografie di Gareth Mole, prestazioni circensi curate da David Greeves). E poi c’è Wotan, nascosto sotto il mantello lacero del viandante. Appassionato e commovente Michael Volle che è il Wanderer, io dio che esce di scena. Perché il Crepuscolo degli dei è all’orizzonte. La Götterdämmerung incombe. Ma (forse) può ancora essere fermata.
Nelle foto @Brescia/Amisano Teatro alla Scala Siegfried
Articololo pubblicato in parte su Avvenire dell’8 giugno 2025
Nelle foto l’appello alla pace prima del Siegfried al Teatro alla Scala