La Carmen della Steier tra altare e macello

All’Oper Köln il riuscitissimo allestimento dell’opera di Bizet firmato dalla regista Lydia Steier e diretto da Orozco-Estrada Spettacolo di forte impatto affidato ai cantanti dell’ensemble

Un’apparizione. Carnale. E mistica allo stesso tempo. Ha una rosa in mano. Come una Madonna rinascimentale. La sua prima apparizione – perché di epifania quasi sacra (e non sarà la sola… anzi… ) si tratta, visione tra cielo e terra in un paradiso pop fatto di luci psichedeliche e quarti di bue grondanti sangue – la sua prima apparizione è su un banco di macelleria che spaccia Toro de lidia, una razza che gli spagnoli chiamano anche ganado bravo, bestiame coraggioso. La sua prima apparizione è su un banco di macelleria, tra pezzi di Toro de lidia – come la Lydia, Lydia Steier, che forma lo spettacolo? chissà… Su un banco di macelleria. In piedi. Lo sguardo fisso. Intenso. Perché Carmen è un toro coraggioso. In tuta verde, quasi una mimetica, stivaloni neri a fasciarle le caviglie. Operaia nella manifattura di tabacchi, ma anche soldatessa che combatte una battaglia che – lo sappiamo, non è uno spoiler – la vedrà sconfitta. O forse no… perché la sua morte avverrà per mano di… no, un momento, questo sì che sarebbe uno spoiler. Apparizione tra salsicce e quarti di bue. Perché Carmen è (anche) carne da macello.

Bellissima, folgorante (e illuminante) visione della Carmen di George Bizet ripensata da Lydia Steier per l’Opera di Colonia. Spettacolo (bello, bellissimo, una tra le più belle, se non “la più bella” Carmen di sempre) del 2019. Carmen che torna in scena, Wiederaufnahme che ha però il sapore di una prima perché stilla sudore e lacrime, allo Staatenhaus dell’Oper Köln. Dove era nata. Un tutt’uno con lo spazio fieristico sul Reno dove l’Opera va in scena in attesa di tornare ad Offenbachplatz. Sala uno, dove è stato tolto il palco. Orchestra nascosta su un lato della sala – tanto che quando le luci in sala sono ancora mezze accese non ti accorgi che il direttore è già sul podio e ti lasci sorprendere dal folgorante inizio dell’opéra-comique di Bizet. Ritmato, vorticoso incipit che ti porta subito dentro l’azione. Scena a terra. Sullo stesso pavimento dove cammina il pubblico mentre cerca la sua poltrona in sala. E sei subito, fisicamente, dentro l’azione.

A Siviglia. O chissà dove… perché le storie di violenza hanno (ahimè) cittadinanza universale. Sei subito, fisicamente, dentro l’azione. Anche se un cancello arrugginito, chiuso da una catena pesante, delimita la quarta parete. Quella che in teatro, solitamente, cade. Qui, invece, c’è. Potrebbe essere una sorta di protezione necessaria – perché sai che di lì a poco ti travolgerà la storia di quello che oggi etichettiamo, spesso anche a sproposito, come femminicidio – che significa uccidere una donna solo per il suo essere donna… e Carmen forse cade morta per questo, anche se qui la sua morte avverrà per mano di… No spoiler. Anestetico, quel cancello chiuso, alla crudezza del racconto. Invece quella palizzata di ferro arrugginito paradossalmente spazza via le convenzioni e quasi ti invita ad entrare in un mondo, quello dell’opera, più vero della realtà. Lo puoi toccare. Concreto.

Carmen vive qui. Dietro questo cancello. Un grande spazio vuoto, sembrerebbe un macello per quelle piastrelle bianche imbrattate di sangue alle pareti, per quei finestroni alti che fanno filtrare una luce livida (disegnata, come tutte quelle dello spettacolo, da Andreas Grüter), da obitorio… dove si vivisezionano bestie o uomini, poco importa. Un luogo dove Carmen è preda dei suoi incubi. Lotta con i fantasmi (profezie, visioni di ciò che accadrà…) che affollano la sua mente. Sulle note del preludio – Bizet ne immagina quattro, uno più bello dell’altro, per fare da sipario musicale (e allo stesso tempo volo di avvicinamento, come attraverso un drone,  all’ambiente che si va formando) ai quattro atti dell’opera. Inizia il racconto. E dietro quel cancello chiuso da una pesante catena, che un militare, con una chiave, a un certo punto apre, prende forma un mercato – concrete, dettagliatissime (bellissime) le scene di Momme Hinrichs, quasi teatro di posa di un set cinematografico. La scena si materializza. Entra da una quinta e la magia del teatro ti prende.

Militari ovunque. Entrano da una porta sulla destra. Porta del sogno che si concretizza. Oltre la quale vorresti guardare… perché immagini un mondo… Siamo nella Spagna franchista. Militarizzata. Nel pieno della parabola del regime di Francisco Franco. Regime che opprime e reprime. Anni Cinquanta dicono i bellissimi costumi di Gianluca Falaschi. Le donne chiuse in tailleur colorati. Le sigaraie con tute sbottonate per mostrare il seno, capelli raccolti in un foulard. Generose e ammiccanti. Anche loro arrivano dalla porta del sogno. Il fuoco sotto la cenere. Desiderio represso. Apparenza (quella di una devozione religiosa che sfiora il fanatismo… che tuffo al cuore il secondo atto che invece che nella taverna di Lillas Pastia è ambientato in una chiesa piena di altari, panche e candele…! E di fedeli che bruciano sotto i veli…) apparenza dietro la quale si nasconde un abisso nero – e quanti gli abissi che stanno oggi dietro sorrisi rassicuranti e accomodanti, dietro carriere impeccabili, dietro famiglie modello, dice la Steier con uno spettacolo che è un pugno nello stomaco.

Carmen vive qui. Tra le bancarelle del mercato. Carmen è un Toro de lidia. Visione. Incubo che la perseguita. Perché si vede (profezia destinata drammaticamente ad avverarsi) in quel toro infilzato. Nero il toro, con conficcate nella schiena le banderillas. Allucinazione che le si presenta, prepotente, davanti agli occhi. Visione concreta quel toro buttato su un muletto che attraversa il palco – forse esce dalla Plaza de toro, dove il toro è stato appena infilzato dal torero, e va a buttare la bestia su un cumulo di altri cadaveri. Carne da macello. Come Carmen. Che si vede, anche questa profezia che le mette (e ci mette) un brivido, e si ri-vede (perché la sua è una storia che si ripete quotidianamente nella storia di tante, troppe vittime) in quelle donne, anche loro infilzate dalle banderillas. Donne – i capelli raccolti, la sottoveste bianca, il sangue che cola lungo la schiena – che popolano i suoi incubi. Corrono per il palco. La circondano. La fronteggiano. La sfidano. La guardano negli occhi. E lei si specchia in loro. In quelle donne che in un’altra delle visioni di Carmen sono ammucchiate, dove prima c’era il toro, sul muletto. L’uomo che lo guida le scarica a terra. Infilzate. Come il toro della corrida. Carne da macello. Cadaveri da rovesciare su altri cadaveri. Mentre a guardarle, con uno sguardo di pietà, tante Madonne addolorate. Anche loro trafitte.

Visioni. Che sono, però, concrete. Appaiono tra quarti di bue, altari e roulotte – nel terzo atto non siamo sulle montagne, ma i contrabbandieri vivono in un campo di periferia dove, tra una fila di roulotte, si spaccia, ci si prostituisce (donne e uomini, travestiti e ragazzine… non importa), si gioca a soldi intorno a un fuoco che brucia in un barile di latta… Perché quella che Lydia Steier racconta – insieme a Mark Schachtsiek la regista ha rimesso mano ai dialoghi di Henri Meilhac e Ludovic Halévi… ampie sforbiciate che rendono l’azione più scorrevole… e con i dramaturg Georg Kehren e Birgit Meyer ha tagliato e cucito la partitura… affidando, ad esempio, a una voce bianca, come in una visione allucinata che segna il passaggio in dissolvenza tra primo e secondo atto, il Dragon d’Alcalà che poi intonerà Don José… Perché quella che Lydia Steier racconta è una lunga danza macabra. Scheletri e uomini ballano insieme… come nell’iconografia medievale. Scheletri calati sul volto di bambini con in testa una mitria vescovile. Uno scheletro anche sul volto del trampoliere dalla mani di fuoco (un breve passaggio, ma per lui il nome in locandina, Ralf Peterhänsel, stelzenläufer che assomiglia tanto al Jack Skeletron uscito dalla fantasia di Tim Burton) stelzenläufer, trampoliere che apre la sfilata dei matadores. Lanciano caramelle alla folla che li acclama i toreri… graffio sarcastico, non troppo velato, alla follia che a Colonia prende tutti nei giorni di carnevale, quando il mondo si ribalta… la gente accalcata ai bordi delle strade si accapiglia per prendere al volo una delle caramelle lanciate dai carri.

Una danza macabra. Un mondo a testa in giù quello raccontato dalla Steier nella sua Carmen. E hai l’impressione che a un certo punto l’asse terrestre si ribalti. Come quando risona la Chanson bohème che apre il secondo atto – prima, quella dissolvenza tra sogno e incubo con le voci bianche che cantano il il Dragon d’Alcalà che poi intonerà Don José. Les tringles des sistres tintaient che canta Carmen, contrappuntata da Mercedes e Frasquita, è una preghiera. Colpo di genio della Steier. Non siamo nella taverna di Lillas Pastia, ma in una chiesa dove Carmen è venerata come la statua di una Madonna, (vestita benissimo da Falaschi) di quelle ricchissime vesti che in Spagna mettono addosso alle statue della Vergine nelle processioni della Settima Santa. Donne in nero, con tanto di velo in testa, pregano, inginocchiate sulle panche della chiesa. Gli uomini in piedi. Testa bassa. Basta un attimo, la musica incalza, e tutti si scatenano – in perfetto appiombo musicale e drammaturgico sulla partitura di Bizet – in una follia orgiastica collettiva. Seni al vento. Pettorali scolpiti che strusciano sui corpi. Fuoco che cova sotto la cenere. Represso. Ma pronto ad esplodere. In chiesa. Tra le roulotte – sono sempre quegli uomini e quelle donne apparentemente impeccabili a cercare amori e soldi di contrabbando. Sulle tribune di un carnevale dove prima del sacrificio finale Carmen (questa volta insieme ad Escamillo) è portata in processione su un carro barocco spinto da militari che hanno indosso un elmetto e un grembiule insanguinato… oro, candele, velluti… un abito sontuoso dove sulla gonna c’è dipinta un’icona della Vergine. Ostensione prima del sacrificio. Prima della catarsi.

Perché ha questa forza, la forza della tragedia greca, la Carmen della Steier. Ha la forza disarmante della realtà. Ma ha anche la potenza del sogno. Pop. Colorata come una pellicola in technicolor. O come una soap opera. Raccontata, a tratti, come un musical – azzeccatissimo il duetto tra Don José e Micaela del primo atto, quando la frenesia del mercato si blocca come in un fermo immagine e i due vivono il loro sogno d’amore sui banchi della macelleria che danzano nello spazio, illuminati dai riflessi di una palla specchiata da discoteca… e gli esempi potrebbero essere tanti. Perché non c’è nulla che non funzioni in questa Carmen. Non un gesto, non un movimento, non una visione di troppo… tutto è funzionale al racconto, alla catarsi. «Vous pouvez m’arrêter… c’est moi qui l’ai tuée!» canta Don Josè davanti al cadavere di Carmen. Catarsi, questo grido, di una società che ha perso, perché è eloquentissima l’immagine che Lydia Steier imprime come sigillo al suo spettacolo, ancora più drammatica e cruda di tutte quelle che si sono viste nelle altre Carmen. Proprio perché la sua morte è avvenuta per mano di… Ma… no spoiler.

Danza macabra, cruda e tragica, ma pure pop e leggera come un musical anche la Carmen di Andrés Orozco-Estrada, che da settembre sarà il nuovo Generalmusikdirektor della città di Colonia e dunque dell’Oper Köln e della Gürzenich-Orchester. Primo titolo d’opera a Colonia, una sorta di preludio (o prova generale) alle (ricche) stagioni che verranno (l’anno prossimo Orozco-Estrada inaugura con la pucciniana Manon Lescaut), questa Carmen per il direttore d’orchestra colombiano (che in Italia è la guida stabile dell’Orchestra sinfonica nazionale della Rai). Che, intelligentemente, entra in teatro punta di piedi, con una ripresa. E che trova subito una bella intesa con i musicisti della Gürzenich per un Bizet dai colori caldi, ma non roventi, teatrale, ma non macchiettistico e caricaturale. Drammatico dove la storia lo richiede, sognante a tratti, dal passo spigliato – le sforbiciate ai dialoghi e a alla partitura, insieme al lungo piano sequenza che è la regia della Steier, rendono il ritmo narrativo serrato. Meccanismo teatrale e musicale oliato perfettamente per questa Carmen, Wiederaufnahme che ha però il sapore di una prima.

Wiederaufnahme con un cast da prima, tutto modellato sui cantanti dell’ensemble dell’Oper Köln. A iniziare dalla Carmen musicalissima e scenicamente incisiva di Adriana Bastidas-Gamboa, colore ideale, voce piena, sempre a fuoco in acuto e nella discesa negli abissi musicali del personaggio. Terrena, ma allo stesso tempo trascendente Carmen. Tutto terreno, concreto, appassionato e trascinante il Don José di Young Woo Kim, voce tra le più belle in circolazione (e tecnica solidissima, tanto che tutto sembra venirgli facilmente…) capace di affascinare e rapire come pochi cantanti sanno fare. Canta e non riesci a staccarti da lui. Centratissimo nella fredda compostezza che la Steier impone al personaggio (abito scuro e cappello a tesa larga al posto del tradizionale costume da torero nella sua entrata… in chiesa) l’Escamillo di un sempre più convincente Insik Choi, autentica voce di baritono, sgranata e luminosa. Ivana Rusko palpita e trema insieme a Micaela – personaggio che, come la Liù della pucciniana Turandot, strappa sempre applausi quasi più calorosi di quelli che il pubblico tributa alla protagonista (qui, però, l’applausometro è davvero equo…).

Lucas Singer lascia il segno come Zuniga, puntuale e sempre sul passo del racconto musicale. Nicolas Boulanger è Moralès, Miljenko Turk Le Dancaïre, mentre Le Remendado è affidato ad Armando Elizondo, membro dell’Opernstudio come Maria Koroleva che svetta negli acuti di Frasquita. Regina Richter è una Mercédès di lusso per voce (bellissima), intelligenza musicale, presenza scenica (e naturalmente musicale) sempre appropriata, capace sempre di calamitare l’ascolto e lo sguardo che ogni volta la cerca (trovandola) nella folla che riempie la scena.

Scena che alla fine resta vuota. Le pareti ricoperte di piastrelle. I finestroni alti dai quali entra una luce livida. «Vous pouvez m’arrêter… c’est moi qui l’ai tuée!» canta Don Josè davanti al cadavere di Carmen. Catarsi, questo grido, di una società che ha perso. «Potete arrestarmi, sono io che l’ho uccisa» dice tra le lacrime Don Josè. Ma non entra nessuno ad arrestarlo. Perché è eloquentissima l’immagine che Lydia Steier imprime come sigillo al suo spettacolo, ancora più drammatica e cruda di tutte quelle che si sono viste nelle altre Carmen. Atto d’accusa a un mondo dove sono tante, troppe le vittime di soprusi psicologici. Che a volte fanno più male di quelli fisici. Non entra nessuno ad arrestare Don José perché Carmen si è uccisa. Si è data la morte con la sua stessa mano. Toro de lidia, bestia coraggiosa che ha scelto il suo destino. Per non diventare carne da macello.

Nelle foto @Hans-Jörg Michel Carmen all’Oper Köln