Le visioni di Michieletto per Il nome della rosa Filidei alla Scala mette in musica Umberto Eco

Successo al Piermarini per la prima mondiale dell’opera ispirata al popolare romanzo del 1980 diventato anche un film Dirige Metzmacher, cantano Kate Lindsey e Luca Meachem Suggestive e visonariele le scene bellissime di Paolo Fantin

In principio erat Verbum. Genesi della Parola. Genesi del logos. Che in Giovanni diventa in-carnazione del pensiero – quello filosofico che, però, era Dio, perché Deus erat Verbum. Genesi che sta all’origine di tutto (anche di una partitura, di una nuova opera). Come nell’In principio della Bibbia. Quando «le tenebre ricoprivano l’abisso». Il buio – il nero lucido e soffocante del palcoscenico cattura subito l’occhio, lo confonde poi con quell’ottagono di veli bianchi, impalpabili, nebbia che sfoca i contorni delle cose – il buio è illuminato dalla Parola che crea. In principio erat Verbum canta il coro sugli scranni che sono (forse) visione moderna dei banchi lignei del coro di un’abbazia medievale… Cluny, una delle tante Morimondo… «Qual è il nome di quest’erba?» chiede, giù nel buio dello spazio ottagonale (la biblioteca labirintica dell’abbazia… forse… o non solo, almeno) evocato dalle pareti di nero lucido e soffocante. «Qual è il nome di quest’erba?» chiede Adso a Guglielmo. Adso da Melk che «nell’anno del Signore 1327 fui affidato da mio padre a un dotto francescano: Guglielmo da Baskerville». Allora, «Maestro qual è il nome di quest’erba?» chiede Adso a Guglielmo. Perché dare il nome alle cose è l’atto del Creatore. È possesso. Fiato che si fa corpo. Parola incarnata. Parola che si fa sangue. E anche dolore. Come la spina di una rosa che si conficca nella carne. Spina nel fianco. Che non riesci più a togliere. Perché «dell’unico amore terreno della mia vita non sapevo e non seppi mai il nome».

Stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus. Voce. Suono. Soffio che come un’eco lontana si perde nell’aria. Sintesi filosofica. Ma struggente sigillo all’impossibilità (forse) di catturare l’essenza delle cose (o degli uomini…). E il cerchio si chiude. Dopo il fuoco purificatore, tutto torna nel buio dell’In principio erat Verbum. Buio sul palco. Buio e silenzio nella musica. Rarefatta e ipnotica. Inizio e fine folgorante de Il nome della rosa, opera che Francesco Filidei ha tratto dal romanzo di Umberto Eco. Commissione al compositore pisano, classe 1973, del Teatro alla Scala dove è andata in scena in prima mondiale il 27 aprile – coproducono Opéra de Paris e Carlo Felice di Genova, in platea sovrintendenti di mezza Europa e molti colleghi di Filidei. Un festival, l’edizione 2025 di MilanoMusica, tutto dedicato al compositore allievo di Salvatore Sciarrino (c’era anche lui in platea al Piermarini) che ruota intorno a questa prima mondiale. Cast (Kate Lindsey, Lucas Meachem, Gianluca Buratto, Daniela Barcellona, Roberto Frontrali, Carlo Vistoli, Owen Willetts, Giorgio Berrugi…) e team (Damiano MIchieletto, Paolo Fantin, Carla Teti, Fabio Barettin…) da 7 dicembre. Dimensioni da kolossal, non solo per la durata dell’opera (90 minuti dura il primo atto, 70 il secondo… ma, alla fine, non c’è un minuto di troppo), ma soprattutto per le risorse messe in campo da un teatro dove hanno debuttato le più grandi opere dei più grandi. Anche questo è il compito della Scala.

Ingo Metzmacher (un nome, una garanzia    quando sul leggio c’è una partitura contemporanea… che lui guarda sempre sorridendo) sul podio di una precisissima e perfettamente “in parte” orchestra della Scala. Così come in parte e a loro agio con il linguaggio di Filidei sono i cori, quello scaligero di Alberto Malazzi e Giorgio Martano e le Voci bianche di Bruno Casoni. Regia visionaria di Damiano Michieletto. Scene, che non sono solo scene, ma sono drammaturgia visiva, parola che si incarna in immagini potenti che restano impresse a lungo, di Paolo Fantin. Costumi dai colori marcati (come i capilettera dei codici miniati) di Carla Teti.

Scene (e regia e costumi) che da subito spazzano via il ricordo “medievale” del film con Sean Connery o della serie tv con John Turturro. Tutto accade in un non luogo dove il Medioevo è quasi reperto, pezzo da museo da mettere sotto una teca. Un luogo dell’anima. O della mente, nel quale veniamo tirati dentro. Dalla musica. Moderna, certo. Perché sa parlare al presente. Perché la sfida (vinta) da Filidei (che ha scritto anche il libretto insieme a Stefano Busellato, Hannah Dübgen e Carlo Pernigotti) è stata quella di dare un nuovo corpo al romanzo del 1980 di Eco – sono passati quarantacinque anni, non sono pochi… Un corpo musicale, certo. Ma non solo. Un corpo che è un impasto di suoni e visioni, di musica e parola. Un corpo che è altro dal romanzo (e dal film), ma che del romanzo, della “parola” di Eco mantiene la forza – e la stratificazione nei molteplici livelli di lettura.

Narrativo (è pur sempre un’indagine su una serie di omicidi… condotta da uno Sherlock Holmes in saio francescano) perché la musica di Filidei è sempre (e intelligentemente, diciamo pure anche furbescamente) fruibile (tanto che ci si può perdere nel labirinto delle citazioni… ma, appunto, si perde tutto il resto). Teatrale la musica di Filidei – spesso tonale e modale nell’evocare, anche troppo facilmente, il Medioevo anche se in modo meno sfacciato dei Carmina Burana. Parola scolpita nel canto (bellissimi gli elenchi cantati, vertigine musicale e filosofica nel suo evocare nomi che sono reminiscenza degli anni di scuola….), canto che nel continuo declamato rende la partitura quasi un pezzo di prosa dove la musica diventa effetto (in questa direzione va l’uso “totale” degli strumenti in orchestra… dove a un certo punto spunta anche un basso elettrico… e delle voci), musica senza struttura sulla quale si innesta, appunto, la parola. Che è “alta”, ma che sa anche “sporcarsi” di un sorriso – Jorge, l’assassino (ma questo non è spoilerare, ormai sanno tutti come va a finire, chi è l’assassino…) vuole bandire il sorriso, uccide chi cerca il fantomatico secondo libro della Poetica di Aristotele, quello sulla commedia – non è mai esistito o forse si è davvero perduto nel rogo di un’abbazia dopo che alcune sue pagine sono state mangiate dal monaco che le custodiva, intrise di veleno.

E Il nome della rosa di Filidei, è (anche) una commedia. Melo-dramma sul modello dei grandi romanzi popolari in musica dell’Ottocento – pensi a La forza del destino  di Verdi (non solo per il moltiplicarsi dei sai in scena), pensi a Boris Godunov di Musorgskij. Ma è anche intriso delle inquietudini se non proprio del Novecento (perché Filidei parte, ma poi si distacca dal linguaggio del suo maestro Sciarrino) certamente di quelle del nostro tempo. C’è il grande bisogno di senso nella musica di Filidei, il bisogno di una risposta. C’è la spiritualità, la sete (di senso) dello spirito.

Opera narrativa, questo Nome della rosa applauditissimo, oltre dodici minuti, contrappuntati anche da qualche dissenso (ma non si capisce a chi fosse rivolto… forse all’operazione nel suo complesso dato che è arrivato quando tutti si sono presentati insieme al proscenio… folklore di tante prime, anche “storiche”). Opera narrativa ed evocativa. Perché procede per visioni. Che sono quelle che danno il nome ai giorni che scandiscono il racconto – vertiginoso il Portale, mistico e ipnotico quello dedicato alla Ragazza del villaggio che chiude il primo atto (scrittura che tornerà, mistica e ipnotica, nel finale dell’opera). Ma sono soprattutto gli squarci onirici e meditativi che Filidei apre nel racconto. Improvvisi e spiazzanti. Anche illuminanti, tutti sul testo di Eco che, nella concitazione delle indagini ti cattura con la vertigine della filosofia e del latino.

Damiano Michieletto coglie questi squarci onirici e speculativi alla perfezione e li fa diventare la chiave di lettura del suo spettacolo. In puro stile Michieletto, quello che il regista veneziano imprime da qualche tempo ai suoi lavori, evocativi, tutti sul simbolo che si impasta alla narrazione e ne diventa chiave interpretativa per una lettura che va oltre il testo stesso. Spettacolo, quello di Michieletto (e di Paolo Fantin) che “accade” tutto nello stesso luogo. Quell’ottagono nero. Che forse non è la rilettura moderna di un coro ligneo di un’abbazia. Ma è un teatrino anatomico. Dove (alla fine, quando la biblioteca brucia) sono messi in fila, su lettini di metallo da obitorio, i cadaveri. Che prima abbiamo visto (visioni, appunto, create da Fantin) in teche bianchissime e abbaglianti, piene di sangue, di inchiostro, di scorpioni… Corpi, come quelli che si staccano dal frontone di pietra dell’abbazia e, sulla soglia degli avvenimenti, circondano Adso come in un incubo. Corpi come quelli che escono dai codici miniati e immergono il racconto in una dimensione fantastica. Corpi come quello della statua della Vergine che invade il palco (la vedi prima quasi rannicchiata e un attimo dopo imponente… magia del teatro…) e al quale Adso si avvinghia, come il Bambino di una Maestà trecentesca. Corpi come quelli dei frati che discutono sulla povertà di Cristo mentre il mondo entra nel buio di un’eclisse di sole…

Teatrino anatomico dove vivisezionare l’anima. Dove evocare quegli «eventi mirabili e tremendi che vidi e udii in gioventù» come dice Adso vecchio (voce narrante che Filidei affida al coro che sfoglia il suo manoscritto, lassù in alto, negli scranni neri, come studenti di medicina che osservano un’autopsia). Avvenimenti che sono gli omicidi, certo. Che sono le indagini di Guglielmo. E l’incendio della biblioteca che «arse per tre giorni e tre notti» (siamo nel tempo pasquale, Cristo è risuscitato, facendo nuovo il mondo, il terzo giorno…). I fatti che ha vissuto (o forse sognato) in gioventù Adso. Gli omicidi, le indagini, l’incendio… e l’amore per quella Ragazza del villaggio, entrata furtiva nell’abbazia, carne che si vendeva in cambio di frattaglie. Senza nome. Perché «dell’unico amore terreno della mia vita non sapevo e non seppi mai il nome».

Corpi che escono dal nero. E nel nero ritornano i personaggi che Adso evoca. Adso che è una efficacissima Kate Lindsey, voce di mezzosoprano (Adso è un ragazzino, forse ci si sarebbe aspettati una voce bianca…) che ben tiene insieme il giovane monaco e il religioso che nella maturità ripensa alla sua vita. Lucas Meachem (baritono) è un Guglielmo di Baskerville autorevole e inquieto. Inquietante, ma non di un’inquietudine truce (e per questo destinato a fare ancora più paura), Gianluca Buratto che offre la sua voce piena e cupa (non un inciampo nonostante l’annuncio, a inizio serata, di una sua indisposizione) a Jorge de Burgos. Filidei ha scelto una voce femminile, di contralto, anche per Bernardo Gui, l’inquisitore nei panni del quale si cala con impressionante immedesimazione Daniela Barcellona. Malachia e Berengario e Severino, uniti e corrotti anche da legami di carne, sono voci maschili, due di controtenore, Owen Willetts efficacissimo e musicalissimo Malachia come musicalissimo ed efficacissimo è il Berengario di Carlo Vistoli (che compare anche fugacemente come Adelmo, il primo morto), mentre Severino ha lo squillo leggero di Paolo Antognetti. Tenori anche Remigio, il Cellario, un puntuale Giorgio Berrugi, e Venanzio, un sempre affidabile Leonardo Cortellazzi. Roberto Frontali imprime misura alla follia (tutta sulla parola) di Salvatore, Fabrizio Beggi è un efficace Abbone, l’abate che soffoca intrappolato nei muri della biblioteca.

Katrina Galka è la Ragazza del villaggio. Quella rosa che non ha nome. Ed è la voce della Statua della Vergine, Rosa Mistica, come viene evocata nelle litanie mariane. Voce che non dice parole, ma vocalizza un suono melodioso. Lo stesso che alla fine Adso sentirà risuonare nella sua mente ricordando la Ragazza del villaggio. Quella rosa che non ha nome. E che forse non è mai esistita. Visione che si moltiplica nello spettacolo di Michieletto, la cantante in rosso, una danzatrice nuda, completamente – così come nuda era uscita dal corpo di un cavallo (il cavallo scosso dell’abate) nella scena d’amore con Adso che chiude il primo atto. Sogno erotico di un amore (forse) non consumato. Così lo vediamo, presi anche noi nella visione onirica di Adso, nella vertigine musicale che chiude, appunto, il primo atto. Amore sublimato. Stat rosa… eccola, eccole alla fine di tutto le “rose” le cui spine si sono conficcate nella carne di Adso. Inginocchiate in proscenio, una di fronte altra. Una in rosso, l’altra nuda. Circondate dai cadaveri purificati dal fuoco. I teli che avvolgevano il tutto in una nebbia che sfocava i contorni delle cose sono caduti. Adagiati a terra, sghembi sui cadaveri freddi. «Fa freddo nello scriptorium, il pollice mi duole. Lascio questa scrittura, non so per chi, né intorno a cosa». Tutto è chiaro. Forse. Stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus.

Nelle foto @Brescia/Amisano Teatro alla Scala Il nome della rosa