Le visioni di Giovanna nella foresta della Dante così la Pulzella di Verdi diventa una fiaba nera

Il Regio di Parma inaugura la stagione con l’opera verdiana Allestimento barocco nello stile degli spettacoli della regista Nino Machaidze e Luciano Ganci diretti da Michele Gamba Grande rivelazione il baritono mongolo Ariunbaatar Ganbaatar

Abita nel tronco di un albero, una nicchia scavata nella corteccia di una quercia. I capelli rossi. Ricci. Lunghissimi. Rosso l’abito, con uno strascico che la segue. Sembra una di quelle principesse inquiete e inquietanti delle Fiabe sonore che ci facevano paura (perché le fiabe devono insegnare la vita) quando eravamo piccoli. Una creatura del bosco. Una ninfa dall’animo ecologista, senza dubbio. Abbraccia le piante. Ama i fiori. Una Rusalka terrestre – e il riferimento allo spirito delle acque non è a caso. Materica. Concreta. Anche se vive in un mondo parallelo. Fatto di visioni angeliche e diaboliche. Un mondo dove dalle ferite della guerra, sui corpi maciullati dei soldati, sbocciano i fiori. Un mondo dove la croce, sotto il peso della quale l’uomo incede a fatica nel cammino della vita, è fatta di quegli stessi fiori… perché la croce di Cristo (croce del martirio, come quello delle Carmelitane, e anche qui il riferimento non è causale) è salvezza, è rinascita, è primavera che rende nuove tutte le cose

Abita in un tronco di un albero Giovanna d’Arco. Un tronco della «fatidica foresta» dove ci appare, visione musicale potentissima, nell’opera che Giuseppe Verdi scrive ispirandosi (ispirandosi, non volendo fare una biografia in musica… tanto che Giovanna, non è spoiler, morirà in battaglia e non sul rogo) ispirandosi alla Pulzella d’Orleans. Ce la presenta così, ninfa ecologista, spirito della terra, ragazza eccentrica – come potrebbe esserlo una delle tante giovani che manifestano nei Fridays for future – Emma Dante. Giovanna, la Giovanna d’Arco verdiana, è una delle tante creature che popolano la mente e la poetica della regista palermitana. Come Rusalka, appunto. Come le donne delle sue favole, Le sorelle Macaluso o La scortecata. Come Anastasia, Rosaspina o Cappuccetto rosso.

E anche la Giovanna d’Arco di Verdi diventa una favola. Inquieta e inquietante. Nella rilettura che Emma Dante immagina per il Teatro Regio di Parma. Apertura di stagione con il musicista di casa – quello al quale la città, ogni anno tra settembre e ottobre, dedica un festival e allora perché mettere Verdi anche in apertura di stagione? si chiede qualcuno. Apertura di stagione con l’opera che Verdi scrive per la Scala nel 1845 ispirandosi a Schiller. Niente fedeltà alla Storia, ma una storia che racconta una donna libera. Fino alla fine. Il “tradimento” è all’origine. In Verdi. Così la Giovanna della Dante può abitare tranquillamente in una foresta con sedili fatti di maioliche siciliane. Funziona. Funziona il Barocco – l’oro, certo, ma anche la cifra estetica delle visioni della Dante, eccessive, ridondanti (le scene di Carmine Maringola, i costumi marcati e pop di Vanessa Sannino) – che la regista sceglie come cornice per il suo racconto.

Parabola del martirio (come quello delle Carmelitane, raccontate con uno degli spettacoli più belli di sempre dalla Dante a Roma con l’opera di Poulenc) martirio di una donna che combatte per liberare il suo popolo, ma che alla fine diventa seme di pace – potente la visione finale, Giovanna che cade morta in un cimitero/giardino perché «se il chicco di grano caduto in terra non muore non porta frutto, se invece muore porta molto frutto». E di quel frutto oggi c’è bisogno nel mondo, in Palestina (potente l’ìimmagine che colloca la scena del campo inglese davanti a un muro tanto simile a quello che in Medioriente divide Gerusalemme dallaCisgiordania), in Ucraina, in Myanmar, in tutti i luoghi dove si combatte e si soffre e si muore.

Parabola, quella di Giovanna, che Verdi racconta in un’opera sperimentale come poche, bellissima, capace di portarci nella mente della protagonista, di mostrarci le sue visioni, di farci sentire le voci che lei sente – i diavoli cantano al ritmo frenetico e seducente di un valzer su parole assurde, «Quando agli anta l’ora canta pur ti vanta di virtù. Tu sei bella tu sei bella! Pazzerella, che fai tu?», gli angeli innalzano un corale che annoia… zampata del Verdi anticlericale. La Dante compie l’operazione opposta, perché i suoi angeli sono quei soldati dai corpi statuari con le ferite fiorite – mettete dei fiori nei vostri cannoni, dicevano gli hippie – e i diavoli creature anfibie, corpo di donna, coda da sirena rosso fuoco, creature informi che si muovono e sembrano fiamme che si alzano al cielo (quelle del rogo sul quale la Giovanna storia muore e che Verdi non racconta – lo evoca, il rogo, solo un passaggio del libretto di Temistocle Solera) nelle coreografie di Manuela Lo Sicco.

Opera raffinatissima Giovanna D’Arco, che ha dentro le inquietudini che esploderanno nel Macbeth. Drammaturgicamente sghemba, d’accordo, ma a fartelo dimenticare è la musica. Echi dei Lombardi, sortite che sembrano quelle di Ernani. Musica che ti prende, ti cattura nella prima parete più incalzante e che pian piano trascolora in un Verdi che ha già in sé il germe della maturità – assoli strumentali, atmosfere cupe, lirismo che ti proietta in una Novecento di là da venire. Musica che Michele Gamba, sul podio della Filarmonica Toscanini, dirige con gusto e gesto verdiano. La prova più bella di sempre del direttore milanese. Che parte cauto, con qualche sfasamento (specie con il Coro del Regio di Martino Faggiani) con il palcoscenico nella prima parte (la più “risorgimentale” tanto che nel da capo delle cabalette Gamba concede le variazioni agli interpreti) e che acquista via via sicurezza (nella seconda parte Giovanna diventa più lirica, più asciutta ed essenziale) restituendo la partitura nella sua profonda compiutezza.

Grazie anche un cast intenso. Nino Machaidze è un’intensa Giovanna, puro belcanto. Acuti sicuri, carisma scenico debordante (e non è per nulla secondario negli spettacoli di Emma Dante, regista di prosa, fisica, che richiede tanto ai suoi interpreti… e se non hai carisma il rischio è di fare la bella statuina). Più composto il Carlo VII di Luciano Ganci, voce tra le più belle di oggi, luminosissima, ma apparsa a tratti (negli acuti poco sfogati e stretti e in diversi passaggi calanti) stanca – il tenore romano, reduce dalle (tante) repliche della Forza del destino scaligera, prima di arrivare a Parma, è volato a Vienna, alla Staatsopre, per un jump in, una sostituzione in corsa, in Cavalleria rusticana.

Krzystof Baczyk è Talbot, Francesco Congiu Delil. Il più applaudito – vera sorpresa di questa Giovanna del Regio – è Ariunbaatar Ganbaatar, baritono della Mongolia, classe 1988 (si sta di recente affacciando alla scena europea) voce torrenziale, sapore antico, tecnica solidissima, dizione italiana perfetta… che restituisce in tutta la sua drammaticità Giacomo, il padre di Giovanna. Che Emma Dante vorrebbe (nelle dichiarazioni alla vigilia della prima) simbolo del patriarcato. Cosa di cui, però, non c’è traccia nello spettacolo. Che è una favola. E, come tutte le favole, basta da sola a spiegare la vita.

Nelle foto @Roberto Ricci Giovanna d’Arco al Regio di Parma

Articolo pubblicato in gran parte su Avvenire del 29 gennaio 2025