Puccini a Bologna, nella Manon di Muscato muore (e prima di lei) anche Des Grieux

Il Comunale apre la stagione del centenario pucciniano con una nuova Manon Lescaut diretta da Oksana Lyniv Intensi protagonisti Erika Grimaldi e Luciano Ganci

Lui muore. Mai successo – nella scena, intendiamoci. E muore prima di lei – certo, detta così, la battuta verrebbe facile, perché si dice spesso che «muoiono sempre gli uomini prima delle donne». Ma la cosa è seria. E mai vista, finora, all’opera. Lui muore un attimo prima che lei ceda. «Mio Dio…» la parola che gli si spezza in gola prima di restare immobile, la faccia a terra, un braccio sopra la testa, l’altro lungo il fianco. Muore prima di lei, che pure si era arresa, «donna, debole, cedo…» la sua ammissione di sconfitta – libretto molto politicamente scorretto… diciamolo, nel rimarcare quel «donna» associandolo a «debole». Lui muore (ed è un vero peccato) prima di poter ascoltare il sigillo di eternità di lei, «le mie colpe… travolgerà l’oblio… ma… l’amor mio… non muor…».

Des Grieux muore prima di Manon nella Manon Lescaut di Giacomo Puccini che ha inaugurato (primo tassello delle celebrazioni per il cenetnario dala morte del compositore) la nuova stagione del Teatro Comunale di Bologna con la bacchetta (che però, spesso, lascia da parte per dirigere a mani nude) del direttore musicale Oksana Lyniv – secondo cartellone (mentre la sala del Bibiena in piazza Verdi è in ristrutturazione) nel padiglione fieristico di piazza della Costituzione, ribattezzato Comunale Nouveau, migliorato nell’acustica, continuamente monitorato e bilanciato per restituire al meglio gli equilibri tra suono dell’orchestra in buca e voci in palcoscenico, che è lungo e largo, quasi uno schermo cinemascope. Qui, in un campo lungo un po’ alla Sergio Leone – siamo in un deserto, colori caldi, di sole che scotta e fa bruciare la terra – Des Grieux muore prima di Manon. E non era mai successo che Des Grieux morisse in scena. Perché nel libretto Puccini (sì, il compositore, perché alla fine è lui che lo mette in sesto dopo che è passato più volte di mano da Leoncavallo a Ricordi, da Praga a Illica e Giacosa), nel libretto Puccini fa scendere il sipario sul cavaliere che urla (come Rodolfo che urlerà «Mimì!» o Pinkerton che urlerà «Butterfly!») il suo dolore – e nel romanzo di Prévost Des Grieux dopo la morte di lei nel deserto della Louisiana torna in Francia dove riprende la carriera ecclesiastica… peccato e redenzione. Ma a Bologna Des Grieux muore. E lo fa prima di Manon.

Colpo di coda, sigillo ad uno spettacolo intenso, tutto raccontato e tutto modellato sulla musica, di Leo Muscato. Cinematografico – facendo di necessità virtù, con il palco in cinemascope. Prima film in costume, poi pellicola dal taglio neorealista – e se nei primi due atti l’Ottocento (sì, l’Ottocento, perché il regista sposta al tempo di Puccini e della composizione dell’opera, il 1893, la vicenda ispirata al romanzo dell’abate Prévost, tutto intriso di Settecento), se nei primi due atti l’Ottocento domina, nel precipitare del dramma tra terzo e quarto atto i contorni storici si fanno vaghi, rarefatti, scontornati, per raccontare (vicenda fuori dal tempo che travalica il tempo), con taglio, appunto, neorealista, crudo la morte. Che è quella fisica, certo, ma è anche quella dell’anima di chi parte verso l’ignoto… «partire è un po’ morire…» dice un proverbio – bellissimo il finale tutto in controluce del terzo atto con gli emigrati che salgono sulla nave per andare a «popolar le Americhe», memoria (a volte corta) di un passato che ci appartiene.

Morte del corpo. E dell’anima. E non c’è nessuna morte “romantica” in scena. Nessuna morte trasfigurata. Ma una morte dura, cruda, spietata, ingiusta – come lo è sempre la morte, d’altra parte. Impressionante per verità la morte di Des Grieux e Manon che Muscato mette in scena. Entrambi a terra. Sulla sabbia del deserto. Lei piegata dalla febbre, dalla sete. Lui schiacciato dalla fatica di aver provato sino all’ultimo a cercare un «filo d’acqua» nell’«arida landa», attendendo invano «un soccorso» da quel dio al quale «fanciullo anch’io levai la mia preghiera». Entrambi a terra. Sulla sabbia del deserto. Divisi. Separati. Lontani. Due mondi a sé, che non riescono ad incontrarsi. Anche nella morte – perché, forse, Manon e Des Grieux non si sono mai trovati, non si sono mai incontrati davvero, nemmeno in vita, sempre in fuga da se stessi, dagli altri, dal mondo… Entrambi a terra. Sulla sabbia del deserto – luogo fisico e luogo dell’anima. Distanti. Lui è già morto, ma lei forse non lo sa ancora – e non lo saprà mai. Lei striscia verso di lui. Tende il braccio. Ma quando soccombe la mano di lei cade pesante… a pochi centimetri da quella di lui, senza toccarla. Pugno nello stomaco mentre la musica, prima rarefatta, diventa un urlo. Non più il pucciniano urlo di Des Grieux, ma l’urlo del mondo. Di fronte alla morte.

Dura la Manon Lecsaut di Leo Muscato. Nel terzo atto. Con quell’immagine in controluce dei migranti che partono con le loro valigie di cartone – e invece che spegnere le luci del porto il Lampionaio canta la sua canzonetta «E Kate rispose al re…» frugando tra i bagagli sulla banchina, sciacallo che cerca di campare sulle disgrazie di altri poveri come lui… E per una volta la richiesta di Des Grieux al Comandante di prenderlo come mozzo sulla nave dove Manon è deportata non è un comizio davanti alla folla (che sta salendo sulla passerella), ma la preghiera disperata, intima, quasi detta a denti stretti di un uomo che vuole seguire nel baratro la sua donna. Dura nel quarto atto. Dove i due muoiono. Nel deserto. Dune di sabbia su un orizzonte infuocato dal sole. Visione da film western. Che si allunga su tutto lo spettacolo. Perché il deserto fa da sfondo a tutta la vicenda, presente in ogni quadro, scena fissa sulla quale si innestano di volta in volta elementi (li disegna Federica Parolin) che caratterizzano la taverna, la casa di Geronte e il porto di Le Havre. Anche se il racconto di Muscato non è un flash back, non è una visione allucinata che passa davanti agli occhi dei protagonisti negli ultimi istanti di vita. È piuttosto un’anticipazione profetica di quello che avverrà. O di quello che è. Deserto. Solitudine. Morte.

Dura la Manon Lecsaut di Muscato. Ma anche scanzonata. Un primo atto leggero, con il sorriso. Un secondo che sembra una (tragi)commedia alla De Filippo (e Muscato ha frequentato il teatro partenopeo da attore prima di passare alla regia), una Grande magia… un Non è vero ma ci credo… in quelle atmosfere che il regista sceglie per raccontare la vita annoiata di Manon nella casa di Geronte – qui si scatena la fantasia della costumista Silvia Aymonino. Gravità e leggerezza. Che sono poi i poli opposti della direzione di Oksana Lyniv. Curatissima. Dettagliata. Sinfonica – il cuore di Manon Lescaut, l’Intermezzo (che poi raccoglie temi che si rincorrono in tutta la partitura), è già tutto in Crisantemi del 1890. La direttrice, che spesso mette da parte la bacchetta per affondare le mani nell’aria e nella musica, sbalza tutto lo sperimentalismo che Puccini mette in Manon Lescaut, uno sperimentalismo che è uno sguardo in avanti incredibile che getta le basi di tutto il Puccini che verrà e che trova compimento nel Trittico. La Lyniv restituisce tutta la modernità di questo Puccini che forse in Bohème, Tosca, Madama Butterfly fa un passo indietro rispetto allo sperimentalismo e al coraggio di Manon. La direttrice asseconda (e ne fa la chiave interpretativa della sua lettura, forse la più convincente delle sue prove italiane…) il respiro sinfonico della partitura – bellissimo in questi senso l’Intermezzo, ma intenso e appropriatissimo il “tappeto sonoro” che costruisce, sbalzando una scrittura raffinatissima, (bella la resa dell’orchestra del Comunale) fatta di mille dettagli che rischiano di perdersi tante volte, in tante letture sentimentalistiche di Manon, fagocitati dai puccinismi consolatori.

Certo è davvero impegnativo (per non dire difficile e infatti il coro, sulle prime fatica a “sintonizzarsi”, ma poi decolla…), impegnativo cantare su questi tempi, su queste intenzioni, su questi colori e clangori – che potrebbero sembrare wagneriani, ma che, in realtà, hanno dentro tanta italianità, intrisa della lezione del belcanto e di quella di Verdi. Impegnativo, ma Erika Grimaldi, Luciano Ganci e Claudio Sgura – che sono Manon, Des Grieux e Lescaut –    ne escono alla grande. Erika Grimaldi, alla sua prima Manon, è musicalissima nel restituire la scrittura pucciniana, voce solida, sicura, mai un’incertezza né in acuto (luminosissimi, svettanti, lunghi…) né nei centri (sempre timbratissimi), mai una nota fuori posto o un’intonazione zoppicante, mai un eccesso compiaciuto in una parete che potrebbe suggerirli. Interpretazione misuratissima. Come quella di Luciano Ganci, voce bellissima, che il tenore romano controlla (e con il passare del tempo lo fa sempre meglio) e “usa” teatralmente (tutto in pianissimo l’attacco di Tra voi belle brune e bionde) costruendo da subito un personaggio (alla Carmelo Bene… alla Carlo Cecchi…) annoiato dalla vita, “capitato” quasi per caso, suo malgrado (ecco i riferimenti al teatro di prosa dei mattatori controcorrente Bene e Cecchi) in una vicenda più grande di lui. Claudio Sgura con la sua intelligenza musicale e la sua voce piena sbalza un personaggio che Puccini (rispetto al romanzo di Prévost) tratteggia pallido e quasi di “contorno”, ma che Muscato vuole riportare alla sua essenza torbida e squallida di soldato corrotto che vende la sorella.

Omaggio all’interprete che fu la presenza in locandina di Giacomo Prestia come Geronte di Ravoir, così come quella di Bruno Lazzaretti come Maestro di ballo. Edmondo (che come in tutte le Manon Lescaut fa sempre colpo) ha il bello squillo tenorile di Paolo Antognetti. Musicalissimo (e non è solo un gioco di parole) il Musico di Aloisa Aisembreg che lascia il segno con un canto raffinato e sfumato di mille colori. Cantano tra le dune del deserto. Quelle dove alla fine restano lì, distesi a terra, Manon e Des Grieux. Lui morto. E prima di lei. Corpi bruciati dal sole. Preda delle belve. Mentre il mondo urla.

Nelle foto @Andrea Ranzi Manon Lescaut al Teatro Comunale di Bologna