Parma, Ceretta fa pelo e contropelo al Barbiere

Il capolavoro di Rossini inaugura la stagione del Regio Ottima prova sul podio del giovane direttore milanese Regia del 2018 di Pizzi con Filonczyk, Kataeva e Mironov

Basterebbe il Temporale. Basterebbe la trasparenza impressa alla musica che arriva improvvisa e che si muta dopo poco in opacità grigia, lattiginosa per poi diventare nero pece. L’annuncio del temporale, appunto, quelli che ti colgono improvvisi, in estate. E che è – questo l’effetto più profondo delle folate di note che ti spettinano seduto in platea al Teatro Regio di Parma – è il nero dell’anima (di Rosina, ma non solo), tradita, smarrita, confusa. Basterebbe la luce prima vitrea, ancora incerta e tremula di quando le nuvole aprono squarci di sereno, basterebbe l’atmosfera scaldata dai riflessi oro della sera che ti avvolge – e anche questa è una luce dell’anima, non più tradita? non più smarrita? non più confusa? forse non proprio (infatti nella musica non c’è l’arcobaleno che sa tanto di favola), ma rappacificata sì, pronta ad affrontare ciò che l’attende. Basterebbe questo Temporale, che in nemmeno tre minuti di musica ha dentro tutti i colori della vita, basterebbe questo Temporale a dire la profondità, la compiutezza, la perfetta alchimia del Barbiere di Siviglia di Diego Ceretta. A dire la maturità di una direzione che ha dentro, come quei tre minuti di Temporale, tutti i colori della vita. Basterebbe il Temporale. Ma c’è (e per fortuna) tutto il Barbiere, concertato e diretto da Ceretta minuziosamente, scandagliato nel profondo con un lavoro sul suono e sulla strumentazione (bella l’intesa con la Filarmonica Arturo Toscanini) e poi restituito con una naturalezza che sorprende, con tutti i colori della vita.

Il barbiere di Siviglia di Gioachino Rossini che ha inaugurato la nuova stagione lirica (veloce, tre titoli sino a maggio – dopo Barbiere, Elisir e Tosca prima del ricco Festival Verdi in autunno) del Teatro Regio di Parma. Scommessa vinta quella di affidare l’opera più famosa di tutte le opere – difficile da affrontare già di suo perché Rossini scrive il tragico e il comico allo stesso modo, ancor più difficile perché in quanto famosa tutti credono di sapere “come va fatta” – di affidarla al direttore d’orchestra milanese classe 1996. Tutto sul fronte musicale l’interesse di questa edizione. Perché l’allestimento è quello del 2018 di Pier Luigi Pizzi (e già alla prima al Rof era apparso datato… uguale a tanti altri spettacoli del regista, che siano un Rossini comico o serio, un Verdi, un Puccini…) in arrivo dal Rossini opera festival di Pesaro – sul palco del Regio più che la versione cinemascope della Vitrifrigo Arena, l’allestimento rimodellato per il Teatro Rossini per le repliche in streaming durante l’appendice autunnale del Rof pandemico del 2020. Tutto racchiuso nella direzione di Ceretta, che asseconda ed esalta la scrittura rossiniana, l’interesse per il Barbiere del Regio. Il direttore fa un lavoro minuzioso sulla partitura che propone in versione integrale senza tagliare una parola nemmeno nei recitativi. Scelta vincente per gustare tutta la bellezza e la perfezione del Barbiere rossiniano che Ceretta restituisce intatta negli slanci sinfonici e nel canto. Tempi sempre teatrali quelli staccati dal podio, passo spigliato del racconto che non ha mai cedimenti, perfetto appiombo tra parola e suono per restituire al meglio la “follia organizzata” del Barbiere.

Direzione, quella di Ceretta, sempre attenta al canto, che ha dentro tutti i colori della vita. Quello tutto d’istinto, a briglia sciolta di Andrzej Filonczyk, Figaro che straripa di impeto giovanile, vocalmente e scenicamente – tecnica e musicalità ci sono e si sentono nel personaggio modellato, nel Barbiere a porte chiuse del 2020 dell’Opera di Roma, da Daniele Gatti, e ora lanciato a briglia sciolta. Quello misuratissimo (a volte anche troppo) di Maria Kataeva, una Rosina puntualissima, corretta (non c’è una nota fuori posto, non c’è accento che non sia giusto), ma poco coinvolgente, che non decolla come dovrebbe. Maxim Mironov è ancora una volta Almaviva, squillo verticale, appuntito, affilato di sempre, anche nell’appendice (che si vorrebbe ascoltare sempre) del Cessa di più resistere, smalto forse un po’ da rilucidare per ritrovare il graffio scenico di un personaggio bello e complesso come il Conte (pensiamo a cosa diventerà nelle Nozze mozartiane… e qui i segnali drammaturgici ci sono già tutti). Marco Filippo Romano arrota la erre e stacca, sul modello di rapper e trapper, il sillabato di Don Bartolo. Don Basilio ha la voce bellissima, la tecnica solida e la grande sapienza musicale di Roberto Tagliavini (lui, nato a Parma, gioca in casa ed è giustamente applauditissimo), interprete che sempre lascia il segno – lo f anche qui, perfetta la sua Calunnia con la nota finale tenuta all’infinito… Fiorello e Berta sono William Corrò e Licia Piermatteo, partecipi, presenti, ad hoc (mentre non è così incisivo pe preciso come al solito il Coro del Teatro Regio di Martino Faggiani) per la scrittura rossiniana. Così come musicalissimo è l’Ambrogio, “danzato” in punta di piedi in una coreografia stralunata da Armando De Ceccon.

Un Barbiere in bianco e nero (solo qualche macchia di colore nei costumi pastello di Rosina, nel mantello rosso del Conte, negli abiti viola, alla faccia della superstizione, di Berta e Fiorello ad accendere il palco) che non ha nulla a che vedere con la Siviglia del libretto quello di Pizzi, che veste i personaggi alla moda dell’Ottocento napoleonico, ma li fa ballare come rapper e trapper di oggi. Spettacolo a tratti innocuo, a tratti inutilmente volgare – lo “spogliarello” di Figaro sul Largo al factotum come fosse una qualsiasi Edwige Fenech di una qualsiasi commedia scollacciata con Lino Banfi che guarda dal buco della serratura la bellona di turno che si fa la doccia (Figaro si fa il bagno in una fontana prima di aprire la bottega) – a tratti semplicemente di cattivo gusto (nemmeno la forza di un gesto di rottura, di blasfemia… solo tragicamente comico) come sulla Calunnia con la finta comunione di don Basilio a don Bartolo con una fetta di salame. Per il resto Pizzi rifà sempre se stesso, l’azione immersa nel bianco abbagliante di scene neoclassiche, certo esteticamente perfette, ma nulla di più, nessuno scavo nel racconto musicale. Niente farsa, Barbiere è una commedia l’intento del regista, ma alla fine lo spettacolo funziona solo quando asseconda la farsa, quando si trasforma in musical con coreografie di gruppo e passi rap e trap di Don Bartolo. Ma il pubblico ride. E applaude.

Nelle foto @Roberto Ricci Il barbiere di Siviglia al Teatro Regio