Muti, con la mia Accademia difendo l’opera

Dal 18 al 29 novembre alla Fondazione Prada di Milano lezioni e prove con i giovani direttori sulla Norma di Bellini

Ha in mano la partitura di Norma. La Norma di Vincenzo Bellini che sarà il “libro di testo” dell’edizione 2023 della Riccardo Muti italian opera academy, laboratorio, palestra, scuola di artigianato sul melodramma che quest’anno, dopo esserci stata già nel 2021 con Nabucco, torna a Milano, negli spazi postindustriali della Fondazione Prada – dove il progetto tornerà nell’autunno del 2025 quando Muti lavorerà sul Don Giovanni di Wolfgang Amadeus Mozart «che è un’opera italiana, scritta da un italiano, Lorenzo Da Ponte, un letterato che andrebbe studiato al liceo». Ha in mano la partitura di Norma Riccardo Muti, ma non parla solo di musica. La prima cosa che dice prima di “raccontare” la sua Academy è una impietosa quanto lucida analisi dell’Italia del 2023. «L’Italia sta attraversando un periodo drammatico per la cultura con un livellamento verso il basso che preoccupa» dice il direttore d’orchestra napoletano attraversando con il suo passo deciso il cortile della Fondazione Prada.

Il cinema e il grande deposito (rimodellato ad hoc per accogliere la lirica e per farla risuonare al meglio tra cemento armato e travi di ferro) in zona Porta Romana dal 18 al 29 novembre si riempiranno delle note di Vincenzo Bellini. Per l’Academy 2023. «Detesto gl’inglesismi che stanno che stanno impoverendo la nostra lingua. Però non c’era altro termine, anche perché ci rivolgiamo a direttori da tutto il mondo. E le domande arrivano da tutto il mondo. Termine inglese, ma significato classico perché l’idea è quella di un’Accademia platonica. Dove si pensa e si fa musica insieme» racconta Muti che inaugurerà il progetto sabato 18 novembre con una lezione su Norma, testo sul quale per dieci giorni lavorerà insieme a direttori d’orchestra e maestri collaboratori. Letture, prove, assiemi… come succede in teatro quando si prepara un’opera. Appuntamenti la mattina e il pomeriggio, aperti al pubblico – carnet per seguire tutti gli eventi a 500 euro, biglietti per le prove da 25 a 50 euro (a seconda della formula), concerto finale di Muti da 160 a 200 euro, ma tante sono le formule e gli sconti (ci sono pass a 5 euro) per i giovani che vogliono seguire il progetto.

«Attenzione – avverte subito il maestro – io non intendo rivelare la Norma, perché nessuno ha la verità in tasca. Io non possiedo la verità, nessuno in musica la possiede, nemmeno i critici ai quali viene chiesto di ridurre le loro recensioni ad un voto. Ma come si fa? Come si può fare una pagella di uno spettacolo complesso come l’opera lirica?» si scalda Muti. Che torna poi a Norma. «Non voglio rivelare nulla di inedito, ma aiutare i giovani dell’Academy e il pubblico a scoprire la vera musica sta dentro le note e tra le note stesse. Dopo Verdi, Mascagni, Mozart con l’edizione di quest’anno penso di poter dare qualche spunto di riflessione sul belcanto che ha un suo specifico fraseggio, tocca un climax e poi muore… e questo climax va preparato, inseguito e raggiunto… Bellini è un contemporaneo di Schubert e questo si sente. Come Schubert Bellini ha lo stesso modo di condurre la frase musicale senza compiacimenti e senza induci superficiali» racconta il direttore che sarà sul podio il 29 novembre per la chiusura dell’Academy. «Il fatto che io diriga l’intera Norma non vuole essere una rivelazione, ma il punto di arrivo di un percorso, dopo aver fatto musica insieme per dieci giorni. E sarà una scoperta anche per me perché anche se ho diretto Norma molte volte c’è sempre qualcosa di nuovo da capire di questo capolavoro».

Il soprano Monca Conesa sarà la sacerdotessa druida che ha consacrato la sua verginità agli dei, ma l’ha tradita avendo due figli con il romano Pollione, il tenore Klodjan Kaçani, che l’ha poi tradita con Adalgisa, il mezzosoprano Eugénie Joneau. Ma Norma e Pollione, nel drammatico finale, andranno insieme al rogo sotto gli occhi di Vittorio De Campo (Oroveso), Vittoria Magnarello (Clotilde) e Riccardo Rados (Flavio). Muti, i giovani direttori e i maestri collaboratori lavoreranno con loro, con i musicisti dell’Orchestra giovanile Luigi Cherubini e con il coro del Municipale di Piacenza. Che voce serve per Norma? Muti cita il suo maestro Antonino Votto. «Quando gli proposero una cantante per una Norma che avrebbe dovuto dirigere luichiese: Ha la voce per cantare In mia man alfin tu sei? Non chiese per il Casta diva celeberrimo che tutti associamo a Norma, ma per quella grande scena finale. E Votto sapeva che quello era il culmine dell’opera… perché un direttore, come ripeteva spesso, deve aver respirato la polvere del palcoscenico».

Perché l’opera è un tutt’uno, musica e spettacolo. «Il direttore ha una grande responsabilità. Un tempo se lo spettacolo era un fallimento sul piano visivo la responsabilità era anche del direttore. Oggi leggo che nelle critiche si divide la parte musicale da quella visiva… eppure sono due aspetti che dovrebbero andare insieme. Ma come è possibile che uno spettacolo nasca da un lungo periodo di confronto e prove quando ci sono direttori che hanno due orchestre, un teatro, che in un mese dirigono un’opera e un concerto sostituendo un collega e debuttano la Missa Solemnis di Beethoven? Io ci ho messo cinquant’anni prima di decidermi a dirigerla… la toccavo e la mettevo da parte perché troppo alta, troppo sublime…» dice appassionato il maestro. Che cita ancora Votto. «Diceva: “Il posto più bello in un teatro ce l’ha il direttore d’orchestra. È al centro della sala…”. E se non è d’accordo con la regia o va via lui o fa mandare via il regista, aggiungo io. Che ho avuto la fortuna di lavorare con grandi come Luca Ronconi e Giorgio Strehler. E proprio il fondatore del Piccolo teatro diceva che un vero regista è quello che può anche dirigere l’opera e un vero direttore è quello che può anche fare la regia…».

Sta qui, in queste radici, in queste esperienze, il patrimonio che Muti vuole tramandare con la sua Academy. «Non voglio insegnare, attenzione, ma trasmettere qualcosa che c’era prima di me, che io ho ricevuto e che voglio tramandare perché non muoia. La grande tradizione dell’opera italiana. Voglio trasmettere quello che ho imparato dai miei maestri, ma anche dalle orchestre con le quali ho lavorato, perché dai musicisti con i quali si lavora si impara sempre qualcosa, tanto più se sono i Wiener o i Berliner, i musicisti della Chicago symphony o delle grandi formazioni italiane. Votto, uno dei miei maestri, fu il primo assistente di Toscanini che suonò il violoncello (lo faceva per necessità, per guadagnare) con Verdi sul podio. Io sono parte di questa catena che arriva direttamente da Verdi. Cose che sui libri di direzione d’orchestra non si trovano». È tutta qui l’essenza della Riccardo Muti italian opera academy «nata nel 2015 perché mi sono reso conto di quanto l’opera italiana soffra nel mondo di un atteggiamento di sufficienza rispetto all’opera tedesca, a melodrammi di Wagner, Strauss, Mozart… intoccabili, nei confronti dei quali c’è una ascolto reverenziale, di grande rispetto. Invece sulle partiture italiane si interviene con tagli e modifiche a piacere».

Muti guarda Oltralpe. Alla Germania e all’Austria. «Il pubblico che va a Bayreuth, festival oggi profondamente in crisi, o a Salisburgo è un pubblico che sa o che finge di sapere di andare ad un evento culturale rilevante. Da prendere con rispetto e serietà. E con una certa drammaticità – sorride sornione –. Quando si va a sentire l’opera italiana, invece, l’atteggiamento è quello di andare ad uno spettacolo di intrattenimento. E si va per ascoltare il tenore, il soprano… o addirittura quella nota, la si “aspetta” al varco. Mi ricordo nei miei anni alla Scala che incontrando i loggionisti mi dicevano: “Maestro stasera veniamo a sentire se il tenore ha il do…”. E apriti cielo quando ho tolto quelli della Pira del Trovatore. Noi siamo ancora fermi al loggionismo che è faziosità per tizio e per caio e non passione e amore per la musica. Verdi, Bellini, Donizetti soffrono di tagli e aggiunte di note e acuti non scritti perché il tenore o il soprano devono “fare goal”. Si usano questi autori per un tornaconto personale, per sfoggiare effetti che nessuno si sognerebbe di mettere in Wagner o Strauss. E questo mi irrita parecchio. Da sempre». La battaglia di Muti per difendere il grande patrimonio musicale italiano, perché «abbiamo un passato culturale che nessuno nel mondo ha», si incarna anche nell’Academy. «Io sono frutto della scuola italiana, vengo dai Conservatori di Napoli e Milano, il San Pietro a Majella e il Giuseppe Verdi. I miei insegnanti mi hanno trasmesso l’etica della musica. Votto a noi allievi diceva: “Mai accettare compromessi!” Lo dico anch’io ai giovani».

A loro, quando arrivano in Accademia Muti chiede: «Hai studiato pianoforte? Hai studiato violino? Conosci gli strumenti musicali che poi avrai di fronte quando salirai sul podio? Cosa significa studiare direzione d’orchestra? Studiare come si muove il braccio? In quattro si dirige così: uno, due, tre e quattro… In tre così: uno, due e tre… In due, uno e due… Finito il corso di direzione d’orchestra. Occorre studiare composizione. Occorre studiare uno strumento. Toscanini diceva che il braccio è l’estensione della mente. E il pensiero non richiede grandi esternazioni. Oggi invece ci si agita tanto. E il pubblico pensa che un direttore che si agita tanto abbia tanto temperamento. Ma non è così. Altrimenti avrebbero ragione i giapponesi che si sono inventati un robot che dirige l’orchestra. Ma una macchina così tiene il tempo, uno, due, tre e quattro… stop». Il lavoro del direttore è altro. «Il lavoro del direttore è quello del concertatore. Un tempo in locandina si scriveva: Concertatore e direttore d’orchestra. Oggi questa funzione è sparita. Chi concerta più? La direzione è un fatto culturale, è qualcosa che il direttore, nel lavoro di concertazione, trasmette ai  musicisti: le sue idee, la sua lettura, la sua interpretazione… qualcosa che i musicisti assimilano nelle prove e poi restituiscono nello spettacolo. Ma oggi i cantanti arrivano alla generale… cosa vuoi concertare? Per Don Giovanni alla Scala nel 1987 con la regia di Strehler facemmo quaranta giorni di prove. Era normale. Le prove duravano almeno un mese, oggi i cantanti arrivano due giorni prima, dieci minuti per parlare con il direttore e concordare qualcosa e il direttore così si limita a governare quello che avviene in orchestra e sul palco».

Con la sua Academy Muti vuole trasmettere un altro modello di direttore. «Cosa chiedo ai giovani? Alla prima prova chiedo di mettersi al pianoforte e concertare un’aria con i cantanti. Anzi, prima chiedo loro di leggerla, di suonarla e di cantarla… E poi chiedo se hanno studiato composizione. Io ho studiato dieci anni con Bettinelli. Chiedo lo studio della lingua italiana che è la lingua dell’opera e se non la sai non puoi dirigerla perché ogni parola è verticalmente legata a una nota ben precisa. Se non sai l’italiano non puoi capire nel profondo il testo e dunque il significato di un’opera. Pensiamo al Così fan tutte di Mozart, dove se non conosci la nostra lingua non puoi cogliere le sottigliezze del libretto, anche i doppi sensi che Lorenzo Da Ponte mette nel libretto e che Mozart traduce perfettamente in musica… comprendendone lo spirito, essendo stato a studiare in Italia. Quando Dorabella e Fiordiligi scoprono il travestimento dei compagni e caiscono di essere state ingannate e di non aver riconosciuto i loro amanti dicono “il mio fallo tardi vedo”. Ma se non sai l’italiano pensi solo che le due ragazze si dispiacciono di aver sbagliato e di non essersi accorte dell’inganno… invece… solo un regista che sa l’italiano riesce a comprendere a fondo cosa Da Ponte e Mozart nascondono nelle parole…». Muti divaga. «A proposito di Da Ponte. Vergogna! Mi hanno detto che la sua casa a Vittorio Veneto è in vendita. Dovrebbe interessarsene lo Stato perché Da Ponte è un grande italiano che si è fatto conoscere nel mondo. Non parliamo della casa di Paisiello a Taranto o di quella di Verdi a Sant’Agata… che fine ha fatto la mobilitazione di qualche tempo fa? Nessuno ne parla più… invece sui giornali ci sono paginate sui Maneskin, sui rapper e sui trapper… ma le nostre radici? Chi le ricorda? Chi le tiene vive?».

Muti, dopo lo sfogo, torna ai direttori. «Solo alla fine si vede come si muove il braccio. E si vede come si sta sul podio perché naturalmente una certa attitudine occorre. Sempre Votto diceva: “Vi dovete rompere il naso di fronte all’orchestra”. Oggi la maggior parte dei direttori non suona uno strumento al massimo ha fatto un corso di “analisi” della partitura. E ci sono direttori che non si sono mai seduti al pianoforte con i cantanti» si appassiona Muti che è stato chiamato dai Wiener Philharmonker a dirigere il prossimo 7 maggio la Nona  di Beethoven nel giorno in cui si ricordano i 200 anni dalla prima esecuzione della celeberrima Sinfonia in re minore. «Vado volentieri. Convinto, però, che un teatro è grande non perché ci passa un artista famoso, ma è grande perché ci sono un’orchestra, un coro, un corpo di ballo, una squadra di tecnici che lo fanno grande con le loro professionalità. Sono loro a fare la storia del teatro, non noi artisti che passiamo… Mi fa sorridere quando sento dichiarazioni del tipo: “Siamo onorati di avere nel nostro teatro questo grande artista…” che magari è reduce da una tournée di marchette in Cina… Non dobbiamo inseguire queste cose, ma difendere l’opera italiana che viene vilipesa giornalmente». Stop. Partitura sottobraccio. E si va a fare musica. «Norma viene».

Nella foto @Niccolò Quaresima la Riccardo Muti italian opera academy 2021 alla Fondazione Prada