Il copia e incolla di Pizzi nei Lombardi di Parma

I Lombardi alla prima Cociata inaugurano il Festival Verdi Lanzillotta sul podio, regia piena di déjà vu di Pizzi Protagonisti Michele Pertusi, Lidia Fridman e Antonio Poli

Ti aspetti che dopo quel gesto della donna in bianco, che apre uno squarcio nero nella tela abbagliante (che poi non è altro che un grande ledwall) che vorrebbe (forse) alludere ai tagli “alla Fontana” (ma cosa centra con Verdi e cosa c’entrano i suoi Lombardi con l’artista spazialista non lo capirai nemmeno alla fine), ti aspetti che dopo quel gesto, mentre una violinista elegantissima in nero fa il suo ingresso in proscenio, parta l’inconfondibile musica dell’Orfeo di Monteverdi – la toccata iniziale che è la sigla dei programmi Euroradio, per intenderci. Invece no. Niente Orfeo e nessuna musica. Già immerso, il pubblico, nell’atmosfera dell’opera – che ha un che di rituale, nell’abbassarsi delle luci e nell’attesa della musica – tutto si ferma e tutto riparte. Perché quel prologo resta lì. Sospeso a mezz’aria. La violinista, dal palco, accorda con l’orchestra. Entra il direttore – facendo un piccolo balzo dalla prima poltrona accanto al podio, perché Francesco Lanzillotta è già lì da tempo, con il suo gambone ingessato in seguito a un incidente di moto. Applauso di rito. L’orchestra si alza e si risiede. Come in qualsiasi serata d’opera. E allora, come da copione, parte la musica. Che non è, appunto, quella dell’Orfeo di Monteverdi, ma, inconfondibile, quella di Giuseppe Verdi e dei suoi Lombardi.

Il palco si anima. Soldati, spada e copricapo. Donne, tunica e velo. Visto e già visto. Non si butta via niente… pensi – e non vai avanti nel proverbio anche se siamo a Parma, terra di ottimi e insuperabili prosciutti. Non si butta via niente e così i costumi de I Lombardi alla prima Crociata che ha inaugurato l’edizione 2023 del Festival Verdi del Teatro Regio sono un mix di trovarobato dall’Ecuba di Manfroce del Festival della Valle d’Itria, dal verdiano Macbeth della Rete lirica delle Marche, dal Moise rossiniano del Rof… e il gioco a trovare le similitudini (o il copia e incolla) potrebbe continuare e ci troveresti Barbieri, Marie Stuarde, Otelli, Orfei… tutti griffati Pier Luigi Pizzi tra tuniche dagli stessi tagli e dagli stessi colori (viola portajella in teatro compreso), caftani ampi e morbidi, pantaloni e maglie nere e fascianti, specie per gli uomini, tantomeglio se giovani e palestrati. Ma il riciclo – e qui è il tragico (o il tragicomico) tanto più che lo si propone ad un pubblico, locale e internazionale, che per una poltrona di platea alla prima del Festival Verdi arriva a spendere sino a 288 euro – è un riciclo che non è solo materiale, cosa che in tempi di tagli e conti da far tornare non sarebbe neanche poi male (certo, poi bisognerebbe vedere i costi, se effettivamente scendono…). Il riciclo, e ormai da anni e anni trattandosi di Pizzi, classe 1930, è soprattutto di idee. Intercambiabili, come un copia e incolla, che si tratti di Vespri o Tancredi, Poppea o Powder her face – e dei Puccini che verranno dato che Pizzi è stato nominato direttore artistico del Festival di Torre del Lago e firmerà il cartellone 2024. Linee neoclassiche di scene (laddove ci sono ancora, perché la fase creativa del regista, scenografo e costumista milanese ha imboccato la via dei video, alquanto artigianali e sempliciotti in verità, in epoca di ledwall alla D-Wok che, piacciano o meno, hanno segnato, comunque, uno punto di non ritorno). Costumi elegantissimi, ma per nulla filologici. O meglio, adattabili a qualsiasi titolo.

E zero drammaturgia, nonostante si voglia dire il contrario con “colpi di teatro” come quello iniziale o come quello, straniante (alla Brecht?) del finale con pagano che, come da libretto muore (con un colpo improvviso) e subito dopo si rialza per catare insieme agli altri, tutti ormai usciti dai propri personaggi, il coro finale. Trovate che rischiano, però, di avere solo un effetto tragicomico e antiteatrale. E di più, antimusicale andando contro la drammaturgia sonora che Verdi scrive in partitura (ci sarà un motivo se un coro è fuori scena o se uno strumento si ascolta come se venisse dal paradiso e non in un primo piano che tutto appiattisce) e che è più teatrale di qualsiasi trovata registica. Zero domande sul senso del mettere in scena oggi un testo, musicale e letterario, di (quasi) duecento anni fa, ma attualissimo – vogliamo parlare dell’attualità dei Lombardi, racconto che parte dalle guerre di religione (e se oggi non è la religione della fede a scatenarle è la religione del denaro, del mercato, dell’odio… che detta le regole del gioco…) per denunciare che «dio non vuole… ei sol di pace scese a parlar…»? Non c’è traccia nei Lombardi di Pizzi di cosa significhi oggi parlare di guerra e di pace – e non serve mettere in scena kamikaze o miliziani della Wagner, manifestazioni con le bandiere arcobaleno o veglie di preghiera per farlo capire. Basterebbe lasciar parlare la musica, assecondarla e custodirla per capire che Verdi è nostro contemporaneo.  E merita di più senza copia e incolla di comodo, mascherati da interpretazione.

Che non c’è nei Lombardi di Pizzi, uguali a tanti altri spettacoli del regista (nato scenografo) e dunque intercambiabili perché astratti dal contesto del libretto – tanto più che la pedana centrale su cui si svolge l’azione, le gradinate che la circondano su cui il coro staziona sempre immobile danno l’idea di un’opera in forma di concerto con costumi. C’è, sicuramente, una presta di astrazione di un racconto impastato di storia (certo, molto romanzato, come sempre accade nelle opere) partendo da una suggestione – che ci potrebbe anche stare –, quella  del solo di violino che Verdi, caso unico nella sua produzione musicale, mette a metà del terzo atto, quasi un concerto per violino e orchestra che si svela prima in un toccante preludio e che accompagna poi tutto il terzetto che veder Pagano (cristiano cattolico, nonostante il nome) battezzare Oronte (musulmano aperto alla fede cristiana) che muore tra le braccia di Giselda (che poi lo sognerà beato in paradiso, proprio grazie al battesimo «In cielo benedetto, Giselda, per te sono» canterà).

Così lo spettacolo diventa una celebrazione della musica perché, spiega il regista nel programma di sala, i suoi Lombardi partono dalla «partitura» messa al centro del lavoro – bello, ma l’opera è teatro musicale, musica e teatro. Bello, ma un approccio così andrebbe bene per qualsiasi opera. Sul palco allora compaiono gli strumenti ai quali Verdi affida ruoli da solista, clarinetto e flauto per il Salve Maria di Giselda (quanti echi di Macbeth ci sono dentro!), il violino, nel terzo atto, e l’arpa per il sogno di Giselda con Oronte che sul fondo della scena… Scombinando la drammaturgia musicale e gli “effetti” messi da Verdi in partitura. Portando tutto in un perenne primo piano sonoro e visivo nel quale si risolve lo spettacolo. E anche la musica arriva così. Bidimensionale, tutta in primo piano. Inaspettatamente poco verdiana nella mancanza di scavo e di affondo nei temi, nel magma sonoro che c’è ed è tanto. Lanzillotta, che ha il grande pregio di sbalzare tutti gli echi delle altre opere verdiane che ci sono già nei Lombardi – ci senti Macbeth, Giovanna d’Arco, Trovatore… – ha forse avuto poco tempo per provare (a poche settimane dalla prima era ancora in ospedale…), per scandagliare a fondo una partitura composita come quella dei Lombardi (le diverse quasi sembrano tanti numeri chiusi, a sé…) e ricondurla ad unità. Così ci sono momenti più riusciti e altri che restano in superfice, ci sono momenti di bella intensità musicale e altri in cui è un continuo rincorrersi tra buca e palcoscenico.

Palcoscenico dove c’è una buona squadra vocale, fatta anche di “comprimari” che abitualmente cantano ruoli da protagonisti. Un valore aggiunto per un’opera come Lombardi e per il Festival Verdi, firmato per la prima volta da Luciano Messi. Michele Pertusi è un Pagano di lungo corso, solido e affidabile come sempre, misuratissimo nel disegnare sfrontatezza e tormento di uno dei più bei personaggi verdiani, per la parabola umana che compie nel corso dell’opera. Lidia Fridman offre la sua voce di argento e di ghiaccio, affilatissima e penetrante, a Giselda, ruolo impervio che il soprano affronta con una grinta e un temperamento che le consentono di risollevarsi da qualche piccolo incidente di percorso (ma la scrittura verdiana è terribile…e sicuramente la Fridman, che ha 27 anni, con il tempo e con l’affinamento scrupoloso e continuo della tecnica e con la consuetudine con il palcoscenico e con l’oculata gestione del repertorio potrà essere un’interprete verdiana di riferimento) qualche piccolo incidente di percorso che non screzia una prova che lascia il segno. Cosa che capita anche ad Antonio Poli, tenore dalla voce generosa e piena, che affronta con bello slancio il ruolo di Oronte. L’altro tenore, ben differenziato per squillo e temperamento da Poli, è Antonio Corianò, puntuale e presentissimo Arvino. Giulia Mazzola (Gilda in Arena… ad esempio) è Viclinda, Luca Dall’Amico un ottimo Pirro, William Corrò un incisivo Acciano. Zizhao Chen e Galina Ovchinikova, allievi dell’Accademia verdiana, sono il priore di Milano e Sofia. In locandina compare il nome di Mihaela Costea, primo violino della Filarmonica Arturo Toscanini, bravissima nel solo del terzo atto. Mentre per trovare quelli di Giulia Carlutti, Fabrizio Fadda e Francesca Troilo, flauto, clarinetto e arpa che sono anche loro personaggi in scena, devi spulciare l’organico orchestrale.

Personaggi di un quadro astratto, a due dimensioni. Che non diventano carne, ma restano figure senza corpo, senza spessore. Un quadro che parte con uno squarcio (alla Fontana) in una tela bianca. E si chiude con la stessa immagine. Una grande tela bianca, un taglio in mezzo, il coro (che è quello del Teatro Regio ben preparato da Martino Faggiani) senza più i costumi di scena, ma maglie e pantaloni neri, due bambini (mancavano i bambini… ti viene da dire…) con in mano un violino che vengono in proscenio ad abbracciare Giselda (o meglio, la cantante che fa Giselda, perché a quel punto è uscita dal personaggio per diventare, forse, la Musica). E una domanda. Perché? Buio.

Nelle foto @Roberto Ricci I Lombardi alla prima Crociata al Festival Verdi di Parma