Michieletto, la mia Aida a Monaco di Baviera sepolta dalla cenere e dalle macerie della guerra

Nuovo allestimento del regista alla Bayerische Staatsoper Niente piramidi e sfingi per l’opera di Giuseppe Verdi ambientata in una palestra distrutta da una guaerra civile

Una palestra. Una grande aula. In un angolo, appoggiato a terra il tabellone di un canestro, senza più la rete. Una trave di legno. Tante sedie accatastate. E le righe del pavimento, quelle che delimitano il campo da basket e quello da pallavolo, sgualcite. «Una palestra che un tempo era il luogo di ritrovo di una comunità, la palestra di un oratorio o di un centro civico. Un luogo dove si era felici prima che una guerra lo devastasse. Oggi, in questa palestra si distribuisce cibo a chi ha fame, si aprono brandine per far dormire chi non ha più una casa, si accumulano bare in lunghe e strazianti file». Qui, in questo luogo simbolico ed evocativo, che parla del nostro presente, Damiano Michieletto ambienta Aida. Il regista veneziano, classe 1975, mette in scena l’opera di Giuseppe Verdi alla Bayerische Staatsoper di Monaco di Baviera: debutto il 15 maggio, sul podio Daniele Rustioni, protagonisti Elena Stikhina (Aida), Brian Jagde (Radames), Anita Rachvelishvili (Amneris) e George Petean (Amonasro). Scerne di Paolo Fantin, costumi di Carla Teti. «La mia prima Aida in oltre vent’anni di carriera. Anche se tempo fa per il Teatro Verdi di Trieste avevo realizzato un progetto di allestimento, poi messo in un cassetto». Di quell’idea oggi non resta più nulla. «Perché fare regia – dice Michieletto – significa trovare un linguaggio, un’estetica per una musica che appartiene al passato, ma vive nel momento presente in cui viene messa in scena, con interpreti sempre nuovi che la rendono diversa ogni volta».

E oggi come e dove Damiano Michieletto fa rivivere la musica che Verdi scrisse nel 1871?

«La porto in uno spazio dove un tempo le persone si incontravano per giocare, per divertirsi, trascorrendo insieme il loro tempo libero. Ora questa grande aula è stata distrutta dalla guerra e in questo luogo, tra le macerie, una comunità piange e prega per i morti. Il Messaggero che annuncia l’invasione dell’Egitto entra in scena portando il cadavere di un bambino che viene chiuso in una bara sulla quale la mamma mette un peluche, una scena di fronte alla quale tutti gridano: Guerra! Una palestra, ma anche uno spazio astratto dalla realtà, un luogo della memoria che nel terzo e quarto atto si riempirà di cenere, un deserto di cenere. D’altra parte il libretto di Ghisalnzoni colloca le vicende in Egitto, anche se io non mi sono concentrato sulle didascalie “egizie”, ma, come faccio sempre, sui rapporti tra i personaggi. Aida racconta, come sempre in Verdi, complesse dinamiche familiari, padri che con il loro comportamento scatenano la tragedia: Aida ama Radames, ma è costretta dal padre Amonasro a tradirlo per la sua patria. E la patria, per me, è quel luogo dove si era felici prima della guerra, quando c’era ancora la madre di Aida. La patria sono la famiglia, l’infanzia, le radici, che oggi si ricordano con nostalgia. Il mio spettacolo, allora, non è una cronaca militare, ma il racconto di quello che accade ai civili durante una guerra».

Popoli fratelli che si combattono… come non pensare alle guerre di oggi?

«Racconto Aida come una guerra civile, una delle tante, senza riferimenti precisi al nostro oggi. Racconto storie di persone che non sono preparate alla violenza. Racconto come la morte ha un effetto così devastante perché irrompe nella quotidianità, nelle famiglie, e non risparmia i bambini. Secondo René Girard i conflitti interpersonali non sono causati dalle nostre differenze, ma piuttosto da ciò che abbiamo in comune. Amonasro e il Faraone sono simili tra loro e si combattono. E chi sfugge a questa logica e cade nel ruolo di vittima diventa un capro espiatorio. Pensiamo a Romeo e Giulietta che si sottraggono alla contrapposizione tra le loro famiglie e dunque non c’è posto per loro nella storia. Aida e Radames sono fuori dalla razionalità della guerra e quindi non hanno futuro. Radames, non discolpandosi durante il processo, sceglie di morire. E anche Aida sceglie di seguirlo nella tomba, anche se avrebbe potuto fuggire. E per me non muoiono, ma si uniscono per l’eternità e la rassegnazione che la storia potrebbe suggerire si trasforma in speranza».

Come lo racconta in scena?

«Aida e Radames saranno nella parte alta del palco, dove, in un’atmosfera di festa, il sogno d’amore che hanno inseguito nella vita si realizza nell’eternità. Nella parte bassa del palco la storia continua: Amonasro è morto, il popolo etiope è stato sconfitto, i sacerdoti hanno trionfato e Ramfis, il loro capo, sposa Amneris, la figlia del faraone, completando il suo disegno politico».

Una storia che si muove sullo sfondo della Storia…

«Aida è un po’ con una fisarmonica con momenti in cui esplode e si allarga e altri in cui si restringe, come fa il mantice della fisarmonica. Ci sono momenti bombastici che tutti conosciamo e amiamo e altri più intimi e cameristici tanto che Aida è un’opera che inizia e finisce in pianissimo. Penso che oggi sia necessario e doveroso raccontare queste piccole storie mettendo una lente d’ingrandimento su un microcosmo per capire il macrocosmo. L’Opera è sempre qualcosa di maiuscolo e i plachi sui quali la portiamo in scena sono sempre grandi. Questo certo è un bene perché ci consente di lavorare al meglio, ma è anche un limite perché crea sempre l’aspettativa di qualcosa di grandioso. Eppure i libretti delle opere parlano di storie piccole, quotidiane non sempre di dei ed eroi».

Un racconto incarnato nel presente, ma anche  un’astrazione delle vicende, un uso del simbolo molto forte, questo il segno che imprime alle sue regie.

«Scelgo sempre di tenere insieme queste due dimensioni. Come tutti sono in un percorso che non deve ripetersi, ma evolversi. Esploro sempre strade nuove partendo sempre dalla tradizione. L’Italia è una fonte inesauribile di tradizione e per me la tradizione è come un fontanile: l’Italia è un grande prato sotto il quale c’è tanta acqua, che è la tradizione, e noi viviamo su questo prato e abbiamo il dovere di fare sgorgare questa acqua, di non lasciarla stagnare, ma di farla sgorgare per farci rinfrescare dal suo spirito vivifico. Fare fare regia significa rinnovare questa tradizione, rendendola acqua sorgente e creare le condizioni perché si possono fare anche nuove opere, come nel tempo i teatri hanno sempre fatto. Penso che noi registi abbiamo la grande responsabilità di stimolare i teatri a commissionare opere nuove».

Da qualche anno ha esplorato anche il linguaggio del cinema, per ora, portando sul grande schermo titoli lirici, da Rigoletto a Gianni Schicchi. Ci sarà un film originale, con una sua sceneggiatura?

«Il cinema mi ha sempre affascinato come spettatore e mi sono ispirato al suo linguaggio per il mio lavoro. Per una sceneggiatura, forse, non sono ancora pronto. Ho progetti e sto cercando le persone giuste per realizzarli insieme perché l’arte non deve essere la messa in scena di un’idea egocentrica, ma deve essere qualcosa che sappia comunicare un messaggio al pubblico».

Sulla soglia dei cinquant’anni le capita di fare bilanci della tua carriera?

«Sono uno che non guarda indietro, a casa mia non c’è nulla che dice che faccio regista, non ho foto, locandine, libretti degli spettacoli che ho fatto. Non conservo nulla. Guardo avanti. E adesso, dopo tanto repertorio, sento la necessità di fare cose nuove, opere contemporanee, come Animal farm che ho messo in scena di recente ad Amsterdam, e il cinema. E magari avere qualche incarico gestionale anche perché a volte mi pesa fare la valigia e partire».

Come uomo e come padre e come vive questo tempo di crisi e di guerra?

«La guerra, non lo nascondo, la vivo un po’ ipocritamente perché tutti noi, non nascondiamocelo, la viviamo come se la cosa non ci riguardasse, ne parliamo, ci scaldiamo per un attimo, ma alla fine pensiamo che è una cosa lontana. Pensiamo di essere tanto informati per via i giornali e televisione, ma in realtà non sappiamo nulla delle vere cause della guerra. Con i miei figli cerco di essere onesto, su questo come su tutti gli altri temi della vita. E forse mettere in scena le conseguenze della guerra in Aida può aiutarmi e aiutarci a guardare ai conflitti con una consapevolezza diversa».

Intervista pubblicata in gran parte su Avvenire del 13 maggio

Nella foto @Stefano Guindani Damiano Michieletto

Nelle foto @Wilfried Hösl/Bayerische Staatsoper Aida a Monaco di Baviera