Nella tomba di Aida con Mariotti e Livermore

All’Opera di Roma il melodramma di Giuseppe Verdi riletto come un kolossal del cinema muto da Livermore Sorprende e conquista la direzione di Michele Mariotti Cantano Kunde, Stoyanova, Semenchuk e Styanov

Il vento, quello che senti alzarsi pian piano nelle note del preludio, prima lieve e poi sempre più forte e impetuoso, solleva la sabbia. All’inizio lo fa lievemente, quasi fosse una carezza. Poi, in sincro perfetto con la musica, il vortice aumenta, infuria e quasi ti butta negli occhi quella sabbia che riempie l’aria afosa e pesante. La sabbia del deserto. Che si è posata, granello dopo granello, sul tempo. Accumulo di vita che ha sepolto la memoria. Una memoria del passato – un passato senza tempo – che quel vento, però, fa riaffiorare. Una memoria che ha la concretezza di un corpo. Disteso a terra. Imprigionato nella pietra, tomba che emerge (anche lei) dalla sabbia, dal tempo. E rivela quel corpo. Un corpo morto, ma non sfatto. Perfetto nella sua forma. Ideale e idealizzato. Perché nella memoria assume la perfezione di cui lo riveste il ricordo della bellezza. Corpo che in una sorta di rewind, di riavvolgimento del nastro, ritrova la sua forma che il tempo (e la sabbia e la pietra) hanno conservato. «Ricordati che sei polvere e polvere ritornerai» pensi vedendo quel vortice di sabbia, di polvere, dal quale prende corpo il corpo di Radames. Disteso nella tomba, chiusa dalla «fatal pietra» sotto la quale in un tempo fuori dal tempo (quello dell’opera lirica) è stato sepolto vivo. La sua colpa? Amare.

Basta un attimo. E siamo tutti lì, in quella tomba, sotto la pietra che incombe e che qualcuno sta sollevando per liberare la memoria, circondati dal vortice di sabbia alzata dal vento. In quella tomba dove Davide Livermore ambienta la sua Aida, nuovo allestimento del Teatro dell’Opera di Roma con la bacchetta del direttore musicale Michele Mariotti. L’Aida di Giuseppe Verdi che, nella rilettura del regista torinese (che forma anche le coreografie tra danze tribali e richiami alle pitture bidimensionali egizie), diventa un lungo flash back. Che passa nella mente di Radames quando sotto la «fatal pietra» gli manca l’aria. E forse delira prima di morire, perché vede il fantasma dell’unica donna che ha amato – ecco la “colpa” che gli è costata la vita, ha il volto e la pelle scura di Aida. Un flash back tutto racchiuso in un batter di ciglio. In un istante fuori dal tempo. Quando per Radames «si schiude il ciel» mentre davanti ai suoi occhi appare, come un fantasma che prende corpo tra memoria e sabbia, Aida, unico amore (impossibile) della sua vita, già morta da qualche altra parte, ma venuta a prenderlo per portarlo «al raggio dell’eterno dì». Per traghettarlo in un’altra dimensione, senza tempo, quella della luce – sfolgorante il bianco che avvolge il palcoscenico alla fine, firma che Livermore, da qualche tempo mette come sigillo a tutti i suoi spettacoli, quando le immagine vorticose di D-Wok si sgretolano e lasciano il posto a un silenzio immacolato e accecante per gli occhi.

Un flash back tra la vita e la morte, sulla soglia dell’eternità. Un secondo allucinato, lungo come il tempo dell’opera (due ore e mezza di musica), duro come il dramma (tutto privato, la politica colonialista qui è solo lo sfondo, il pretesto per raccontare un amore impossibile) che l’opera racconta: ecco l’Aida di Livermore che parte dalla fine, da quel corpo disteso che vuole raccontarci la sua storia. Urlando. Buttandoci in faccia il suo dolore. Il suo no di fronte alle ingiustizie della vita. Perché lo vediamo così quel corpo, nel rewind che sulle note del preludio ci riporta all’inizio, lo vediamo urlare disperato nella tomba in cui è stato chiuso, imprigionato – come il suo grido che non ha suono – nella concretezza della pietra. Un attimo e siamo lì, nella tomba che è la scena unica immaginata da Giò Forma – con i suoi neon, tic immancabili dello studio di architettura per gli allestimenti di Livermore, che qui hanno la forma piramidale dei lampadari del palazzo del re. La tomba di Radames, che è quell’enorme monolite/lapide sul quale scorrono le immagini, circondata dalla sabbia. Basta un cambio di luce, due pareti che scorrono, muri di pietra squadrati che gettano l’azione tutta in proscenio. E il punto di vista cambia. Non vediamo più la tomba da fuori, ma da dentro. Siamo dentro quelle mura claustrofobiche, a respirare il dolore dei personaggi.

Dolore al quale da’ voce la musica di Verdi che Mariotti dirige (magnificamente) guardando in avanti, mettendo in luce tutta la modernità della partitura verdiana (dentro ci senti Mahler e Strauss) e restituendola in tutta la sua drammatica violenza in una concertazione millimetrica, dettagliatissima, cesellata e rifinita nel più piccolo particolare. L’Aida di Mariotti, bella, bellissima da ascoltare (anche grazie all’orchestra del Teatro dell’Opera), non ti da’ tregua, ti sorprende sempre per invenzione timbrica, per passo teatrale, per capacità di dare corpo (suono) a stati d’animo e sentimenti. Inquiete e sinistre le (bellissime) danze in un Trionfo vuoto (come vuota e senza motivo di festa è la gioia di chi ha conquistato con l’arma della violenza) senza popolo, senza sfilate, senza esibizione di trofei, ma asciato solo alla danza – che è un contorcersi di corpi. Un’Aida dura e ruvida come la vita quella di Mariotti. Fatta di sciabolate di suono (gli strappi dei violoncelli, gli accordi sinistri degli ottoni tanto che anche le trombe egizie non hanno nulla di trionfale, il tonfo secco delle percussioni), ma anche di silenzi impalpabili, di sussurri che carezzano l’anima – incredibile il filo di voce (sempre intonatissimo) che il direttore riesce ad ottenere dal coro (preparato da Ciro Viscovo) nella scena del tempio di Vulcano del primo atto e in quella del giudizio del quarto quando il coro che in partitura è previsto fuori scena canta sul palco, ma sembra a una distanza siderale, come se venisse da un oltretomba.

Che, poi, è quello dove tutto avviene nella regia di Livermore. Che sceglie per il suo racconto di Aida la dimensione intima della tomba, ma anche quella pop del kolossal cinematografico (cosa che funziona sempre con questo titolo e che qui riesce a giustificare anche une regia a tratti abbastanza tradizionale nella recitazione e nella staticità delle masse). E il pensiero va a Cabiria, al cinema muto di inizio Novecento – che già aveva ispirato il regista per il rossiniano Ciro in Babilonia a Pesaro – capace di gettare, se visto con gli occhi di oggi, anche uno sguardo ironico su fatti e vicende che altrimenti risulterebbero eccessivamente ridondanti. Dimensione, quella del kolossal cinematografico, che ben restituiscono i bellissimi costumi di Gianluca Falaschi – difficile scegliere il più bello, ma sicuramente quelli disegnati per Amneris sono ipnotici e catturano subito lo sguardo – abiti preziosi (i disegni dei tessuti, i ricami, gli inserti… i copricapo, i gioielli…) che raccontano uno spaccato di storia del cinema, il fumettone delle pellicole mute (le luci di Antonio Castro sono rosse, blu, giallo ocra e scontornano perfettamente le sagome dei personaggi) e l’epoca d’oro di Hollywood dei kolossal storici. Perché la storia c’è ed quella di due popoli in lotta, egiziani ed etiopi (e per aggirare la questione black face Livermore trucca tutti, anche gli egiziani che il regista fa pallidi… maschere quasi da tragedia greca) che oggi potrebbero essere russi e ucraini, israeliani e palestinesi…

Lo dice quell’uomo disteso a terra. Ideale e idealizzato nella sua forma perfetta. Prototipo di tutti gli uomini che si ribellano alla violenza. Come Radames che Gregory Kunde (arrivato alla prova generale a sostituire l’indisposto Fabio Sartori, calato subito e perfettamente nello spettacolo) restituisce in tutta la sua disarmante verità con una voce che, seppur qua e là segnata dal tempo nel corpo, sa ancora emozionare (il tenore statunitense è sulla soglia dei 69 anni) grazie a un canto limpido e terso e a una tecnica inappuntabile tra acuti sicurissimi e pianissimi da brivido. Solida, solidissima anche Krassimira Stoyanova che fa un’Aida lirica (acuti inappuntabili, fiati lunghissimi…), musicalmente affascinante, ma interpretativamente a due dimensioni. Tutto l’opposto di Ekaterina Semenchuk trascinante Amneris. Che non vuol dire sbracata o debordante, anzi. Il mezzosoprano disegna un personaggio misuratissimo, insinuante, umanamente diabolico (certe mezzevoci, certe parole quasi “parlate” sono da brivido… frutto, anche qui, della concertazione di Mariotti) che (come i costumi che indossa) calamita continuamente l’attenzione, sino alla bellissima scena del giudizio del quarto atto. Lascia il segno (come sempre) Vladimir Stoyanov, nobilissimo Amonasro, mai sopra le righe – e nel terzo atto per Amonasro il rischio “verismo” è sempre in agguato, ma Stoyanov lo evita sapientemente con un canto elegante e verdianamente umano nello scolpire la parola scenica. Riccardo Zanellato è un efficace (e giustamente irritante) Ramfis, Giorgi Manoshvili un nobile Re, Veronica Marini una musicalissima sacerdotessa (anche lei, prevista dalla partitura dietro le quinte, canta in scena) e Carlo Bosi un sempre affidabile Messaggero.

Rivivono tutti nella mente di Radames. Nel tempo di un batter di ciglio. In un istante fuori dal tempo. Un secondo allucinato, lungo come il tempo dell’opera. Il tempo della vita, che riparte ogni volta che riparte la musica.

Nelle foto @Fabrizio Sansoni Aida al Teatro dell’Opera di Roma