La Rivoluzione sepolta dalle macerie di Chénier

Al Comunale di Bologna l’opera di Umberto Giordano diretta da Oksana Lyniv con la regia pittorica di Maestrini Cantano Luciano Ganci, Mariapia Piscitelli e Stefano Meo

«Non è giusto!». Ti resta a lungo in gola un grido di rabbia. Esce, però, alla fine, quando la musica (bellissima, sì!, bellissima) di Umberto Giordano si è spenta lasciando il posto agli applausi di una platea gremita, in una recita pomeridiana di metà settimana. «Non è giusto!» che Andrea Chénier sia salito al patibolo, vittima della Rivoluzione che «i figli suoi divora». E pensi che «non è giusto!» anche se Chénier sembra felice, «Viva la morte insiem» canta, perché accanto a lui c’è Maddalena, l’amore di una (breve) vita. È lì (dopo che si è sostituita ad una condannata) a dire che «la nostra morte è il trionfo dell’amore» e che «nell’ora che si muor eterni diveniamo». Esaltazione per «Morte! Amore! Infinito! Amore!». Delirio di fronte alla fine che incombe. Di fronte ad un popolo che, esaltato e delirante di fronte alle teste che cadono e al sangue che scorre, «uccide i suoi poeti».

Una morte che ti fa dire «Non è giusto!». Perché nessuna morte è giusta. Non può esserlo. Nessuna violenza è giusta. Nessuna rivoluzione che uccide è giusta. Che è poi, questo grido, la denuncia che Giordano fa nel suo Andrea Chénier, opera bellissima (che si vorrebbe ascoltare più spesso) in scena al Teatro Comunale, primo titolo d’opera diretto a Bologna dalla nuova direttrice musicale Oksana Lyniv. L’attesa era molta. E (in gran parte) non è stata delusa. Perché Giordano, nella lettura della musicista ucraina, arriva in tutta la sua forza (e bellezza) sinfonica, rifinito, dettagliato… con il canto che non diventa preponderante, ma “voce” tra le “voci” dell’orchestra. Certo, il melodramma è teatro musicale, parola e musica, suono e canto – e la frequentazione assidua della buca d’orchestra non potrà che giovare alla Lyniv che riesce a restituire tutta la profondità della partitura di Giordano. Dove il compositore racconta, “citando” un personaggio storico (ma senza pretese di storicità), il Terrore della Rivoluzione francese, la gestione del potere di Robespierre (che compare in scena, nel secondo atto insieme a Saint-Just e Couthon), le lotte sanguinarie tra Giacobini e Girondini… proprio perché «la Rivoluzione i figli suoi divora». E toglie di mezzo le voci critiche, quella del poeta Andrea Chénier, appunto.

Messaggio, quello che Giordano con la sua opera del 1896 ci consegna (ma prima di tutto ce lo consegna la Storia) attuale. Attualissimo. Messaggio politico, di pace, non certo pacifista alla «mettete dei fiori nei vostri cannoni» o «fate l’amore non fate la guerra» del Sessantotto – nonostante in piazza Verdi a Bologna, davanti al Teatro Comunale, si veda ancora qualche pantalone a zampa di elefante e qualche eskimo e si senta (inconfondibile) l’odore di marjuana… mood del Sessantotto pacifista, appunto.

Messaggio politico, di pace, quello dello Chènier, opera che vista oggi assomiglia tanto ad una serie tv in costume. Storia e sentimenti. Messaggio che si incarna in musica nella figura del poeta idealista, che ha una sua idea di patria e la dice, senza paura (come dice, senza paura, la sua idea di onore e di amore) nel «Fui soldato» e nell’Improvviso. Messaggio politico, di pace che si incarna nella figura (un gigante a vederlo con gli occhi di oggi) di Gerard, il servo divenuto capo della Rivoluzione che sa farsi toccare dalla pietà, che confessa (a se stesso e a noi) di aver «smarrito la fede nel sognato destino», in un ideale che doveva «raccogliere le lacrime dei vinti e sofferenti», ma che ha preferito fare altro. Riducendo l’ideale in macerie. Quelle macerie sparse in proscenio sulle quali si muovono i personaggi dell’Andrea Chénier politico – che denuncia l’inutilità della Rivoluzione che «i figli suoi divora», l’inutilità della guerra (qualsiasi guerra) – di Pier Francesco Maestrini. Macerie fisiche, oggetti anneriti dal fuoco distruttore (perché la gavotta che chiude il primo quadro, ambientato nel 1789 che dà il la alla Rivoluzione, è un grande rogo del Castello di Coigny) messi lì in proscenio a fare da cornice al racconto – le scene di Nicolas Boni sono grandi quadri, incorniciati di oro, mattoni e macerie, dove oggetti fisici e video (dello stesso Boni, realistici, belli e usati intelligentemente) interagiscono in modo efficace con l’azione. Fuoco distruttore, quello che invade la scena sul finale del primo quadro con un effetto assicurato, che brucia i lembi dei costumi (curatissimi e modellati perfettamente sul fine Settecento rivoluzionario, li ha disegnati Stefania Scaraggi) dei personaggi e li contamina, come un virus.

Macerie fisiche. E macerie dell’anima. Fatta a pezzi dalla Rivoluzione. Quello che racconta il cardiogramma musicale dello Chénier di Giordano. Dove Storia e vita privata si intrecciano continuamente in un racconto appassionante e serrato che Maestrini affida tutto alle immagini evocando, nella sua regia, le visioni pittoriche di David, ma anche le istantanee sulla Rivoluzione di Debelle, Couder, Lallemand: ogni quadro (Giordano e il librettista Luigi Illica non scandiscono il racconto in atti, ma in quadri… suggestione pittorica anche solo nel vocabolo usato) ha una sua connotazione, un suo riferimento iconografico e si chiude con un fermo immagine pittorico, che cattura il sentimento in una plasticità ben resa dagli interpreti – i solisti, il coro di Gea Garatti Ansini, gli attori della Scuola di teatro Alessandra Galante Garrone, i danzatori della Scuola Arabesque. Racconto appassionato e serrato che dal podio la Lyniv sbalza restituendo la partitura in tutta la sua bellezza sinfonica (a volte anche a scapito del canto, come la solenne lentezza della Mamma morta), una bellezza raffinata e mai scontata. Che arriva in tutta la sua potenza, magma sonoro, muro di suono – che le voci dei cantanti riescono ad attraversare, anche se non è impresa facile – che non è mai “verista”, urlato, esibito, fine a se stesso, ma sa farsi anche poetico, intimo, rarefatto.

Come poetica, intima, rarefatta (ma anche appassionata e capace di un amore che va oltre la morte) è la storia d’amore tra Andrea e Maddalena. Nata da uno scherzo, cresciuta nell’ombra. Schiva e pudica. Bella. Alla quale sul palco del Comunale (una delle ultime rappresentazioni prima della chiusura per lavori della sala del Bibiena) danno corpo Luciano Ganci e Maria Pia Piscitelli. Corpo e voce. La voce bella di Ganci che affronta con sicurezza e piglio la scrittura di Giordano e fa uno Chénier antieroico, malinconico, sognante. Uno Chénier che alle barricate preferisce la poesia, «arma feroce contro gli ipocriti». Uno Chénier che, dopo tanto soffrire dello spirito, ci consegna (facendoci rispecchiare in esso) il suo disarmante «Vicino a te s’acqueta l’irrequieta anima mia», mai suonato così vero. La voce da belcantista di Maria Pia Piscitelli che affronta con intelligenza musicale (si sentono le Stuarda, le Bolena, le Beatrice di Tenda nella voce melodica e musicalissima, che senza problemi sostiene il ritmo lento della Mamma morta staccato dal podio) la parte di Maddalena, restituendo un ritratto dolente della donna «sola e minacciata» che rinuncia alla vita perché «la morte nell’amarti». La voce pastosa di Stefano Meo, Carlo Gérard dal canto nobile e scolpito sulla parola. Gérard che il baritono romano ben restituisce nella sua evoluzione di servo che diventa capo della rivoluzione, gigante – a dispetto dei Robespierre di turno, di ieri e di oggi – perché sa farsi commuovere da quella «voce di pietà» che i suoi padroni non avevano saputo ascoltare. Toccante, come la Madelon di Manuela Custer, personaggio che “dice” il suo dolore per la morte del figlio e il suo sacrificio nel consegnare alla patria il nipote con un canto intriso di emozione. Cristina Melis e Federica Giansanti ben disegnano Bersi e la Contessa di Coigny. Ottima la pasta vocale del Foquier-Tinville di Nicolò Ceriani, protagonista di una scena breve, ma che lascia il segno. Caricature, più che personaggi, il Pietro Fléville di Stefano Marchisio e l’Abate di Orlando Polidoro. Impastati di umanità, invece, il Roucher di Vittorio Vitelli, l’Incredibile di Bruno Lazzaretti e il Mathieu di Alessio Verna.

Testimoni (a volte attori) di una Rivoluzione che uccide – ma potremmo dire di una guerra (ce lo ricorda dal podio Oksana Lyniv) che uccide. E che ti fa gridare – deve farlo, anche attraverso la musica di Giordano – «Non è giusto!».

Nelle foto @Andrea Ranzi Andrea Chénier al Teatro Comunale di Bologna