Con Valčuha Tristan canta “in italiano”

Bologna inaugura con il capolavoro di Richard Wagner Intensa e appassionata la lettura del direttore di Bratislava Un’installazione d’arte moderna la regia di Pleger e Polzin

Potrebbe essere tutto un sogno. Di quelli che, un volta sveglio, non riesci a capire quanto sia durato, se qualche minuto o tutta la notte. Perché nel sogno il tempo assume una dimensione tutta sua che non riesci a ingabbiare negli ingranaggi di un orologio. Una dimensione dell’anima. Ma potrebbe essere anche un’allucinazione, forse. Di quelle che prendono in preda alla febbre e che non capisci se sia frutto (solo) della mente o se (in qualche modo) quello che vedi (o pensi di vedere) avvenga ad occhi aperti. Vita trasfigurata. Che sicuramente ha i contorni distorti, sghembi e apparentemente incomprensibili perché (nel sogno) fai gesti che nella quotidianità (forse) non faresti mai, lasci libero sfogo a quell’inconscio che, nel sogno appunto, è lui a dettare le regole. Contorni simbolici, tutti da decifrare. E rivelatori della vita.

Arriva così il Tristan und Isolde di Richard Wagner che ha inaugurato la stagione del Teatro Comunale di Bologna. Teatro a vocazione wagneriana – nel 1871 fu qui la prima volta in Italia di un’opera del compositore tedesco, era il Lohengrin – che il sovrintendente Fulvio Macciardi rilancia proponendo da qui ai prossimi quattro anni un titolo di Wagner a stagione (non per forza in apertura, il cartellone 2021 si aprirà con un nuovo Rosenkavalier di Strauss firmato da Damiano Michieletto): dopo Tristan toccherà a Lohengrin, Parsifal (nell’allestimento di Graham Vick che in questi giorni ha aperto la stagione del Massimo di Palermo), Tannhäuser e Olandese volante.

Un Tristan onirico quello che ha aperto la stagione del Comunale (coproduzione con La Monnaie di Bruxelles dove è andato in scena lo scorso maggio) affidato alla bacchetta di Juraj Valčuha e all’idea registico-scenografica di Rafal Pleger e Alexandr Polzin. Onirico e astratto, quasi un’installazione artistica. Che è poi (provocazioni tedesche a parte, tipo le regie che si vedono al Festival di Bayreuth) una delle vie dell’interpretazione registica wagneriana degli ultimi anni: o la versione da salotto, da commedia borghese (magari facendo intravedere dietro le vicende raccontate nell’epica anglosassone la biografia di Wagner e di Cosima e di Mathilde Wesendonck) o, appunto, l’astrazione. Che nello spettacolo di Bologna è totale: alcune stalattiti che pian piano calano dall’alto e ingabbiano la scena nel primo atto (dovremmo essere su una nave che porta Isolde, scortata da Tristan, da Re Marke), una grossa radice di albero intrecciata fatta di cartapesta e corpi dei danzatori nel secondo (ambientato nel giardino del castello del re), una parete piena di  buchi dai quali escono fasci di luce nel terzo (siamo nella rocca di Tristan in Bretagna). Nessun altro elemento, niente ampolla con il filtro d’amore (o di morte?), niente lampada da infrangere. Solo la luce (un po’ alla Bob Wilson).

Il racconto procede allucinato, sospeso tra sogno e realtà. Tutto fatto di simboli. Gestualità quasi da teatro kabuki, nessun contatto fisico (o quasi) tra i personaggi, monadi che fluttuano in uno spazio dove sono destinati a non incontrarsi (quasi) mai, monoliti dove i sentimenti raccontati dalle parole del libretto scorrono in superfice, su volti imperturbabili, impenetrabili, diresti, dall’emozione. Che è tutta nella musica che avvolge i grandi oggetti, come in una galleria d’arte moderna dove si aggirano i personaggi: Isolde prima costretta in un abito-gabbia e poi rivestita di strass viola e azzurri,  Tristan con il viso ricoperto di foglie d’oro. Simboli. Che regista e scenografo chiedono al pubblico di decifrare perché la loro lettura, a tratti anche esteticamente bella, resta, appunto, in superfice, non scandaglia l’animo dei personaggi.

Cosa che, invece, fa magnificamente dal podio Valčuha. Il direttore di Bratislava, sin dal celeberrimo accordo iniziale – che torna poi a spirale lungo tutta la storia per rimanere alla fine quasi in sospeso, come un sogno interrotto dal risveglio – offre un colore tutto italiano alla partitura di Wagner, che arriva cantabile e morbida, impastata di sentimenti che la regia raffredda in un perenne ed estenuante rallenty. Valčuha ha tempi e dinamiche sempre drammaturgicamente a fuoco e trasfigura l’orchestra del Comunale che suona compatta, avvolgente.

Ann Petersen è un’Isolde intensa in perfetta sintonia con il podio, Stefan Vinke un Tristan ripiegato su se stesso (ma a tratti, specie nel secondo atto, ai limiti dell’intonazione), Ekaterina Gubanova una perfetta Brangäne, Albert Dohmen un dolente Marke. Convincenti Martin Gatner (Kurwenal), Tommaso Caramia (Melot), Koldjan Kaçani (il marinaio e il pastore) e il coro di Alberto Malazzi.

Articolo pubblicato in gran parte su Avvenire del 25 gennaio 2019

Nelle foto @Rocco Casaluci Tristan und Isolde al Comunale di Bologna