Frizza: Dopo sessant’anni riporto Il pirata alla Scala

Il capolavoro di Bellini mancava da quando lo cantò la Callas Il direttore lo propone in versione integrale con la Yoncheva   E si racconta tra amore per il belcanto e tifo per l’Inter

L’attualità non è la prima cosa che viene in mente pensando a Il pirata di Vincenzo Bellini. Eppure, spiega Riccardo Frizza, «l’opera racconta la condizione di tantissime donne di oggi». Lo fa con la storia di Imogene, costretta a sposare Ernesto per la ragion di stato. Innamorata di Gualtiero, il pirata del titolo, ma trattata malissimo anche da lui che le rinfaccia il matrimonio. «Ci vedo la condizione di molte donne che la cronaca ci racconta, costrette in una condizione di inferiorità e sofferenza che a volte porta a gesti inconsulti come il suicidio» spiega il direttore d’orchestra bresciano, classe 1971, da questa sera e sino al 19 luglio sul podio del Teatro alla Scala per il melodramma che a Milano mancava dal 1958 quando lo cantò Maria Callas. «Ma dimenticatevi quell’esecuzione – avverte Frizza –, non cercate confronti».

L’attesa, maestro Frizza, inutile negarlo, è molta. Per Sonya Yoncheva che sarà Imogene. Per Bellini, che alla Scala manca dal 2004 quando, al Teatro degli Arcimboldi, venne proposta Beatrice di Tenda.

«Il pirata che si ascolterà, però, non ha nulla a che fare con quello a cui siamo abituati e che resta un punto di riferimento imprescindibile nella storia della musica. Ma 1958 si cantava la metà di quello che c’è in partitura, per il gusto dell’epoca, per le prassi esecutive: si tagliava e si aggiustava. Oggi la coscienza filologica che abbiamo raggiunto ci impone di proporre Il pirata in versione integrale. E ne esce un’opera con una sua classicità grazie a pagine, prima tagliate, che richiamano Mozart e Haydn e che se non eseguite danno all’opera un carattere tardo-romantico che, in realtà, non ha. Perché Bellini scrive Il pirata nel 1827, a venticinque anni (i ventisei li compirà qualche giorno dopo la prima alla Scala), ancora fresco di studi e si sente. 

Come suggerisce di ascoltare l’opera a chi sarà in teatro, ma anche a chi si sintonizzerà su Radio tre?

«Con la curiosità di scoprire una pagina nuova. Il pirata è un’opera di rottura con il passato e la sua rottura non sono certo i crescendo rossiniani che pur ci sono, ma pagine come la tempesta iniziale e l’aria finale che apre alle grandi arie di Sonnambula e Norma e a tutto il bel canto che verrà, in primis le grandi pagine di Donizetti. Il classicismo di Bellini e della sua partitura si ritrova nella prima aria di Imogene che, se eseguita integralmente con le sue agilità spinte, fa uscire un personaggio che già dall’inizio ha momenti di bipolarismo (resi musicalmente dalle agilità) che dicono come il personaggio abbia una sua evoluzione e non diventi pazzo tutto d’un colpo, cosa che prima, con i tagli, emergeva. Il trio ha una struttura rossiniana e ricorda l’introduzione di Semiramide (là un quintetto) dove i personaggi si presentano tutti con la stessa melodia. Nel finale primo c’è poi una bellezza che richiama Mozart con una leggerezza che prepara lo stacco della stretta finale. Occorre che il pubblico sia aperto a capire che questo non è il Bellini di Sonnambula e Norma: certo la vena melodica c’è già perché, nonostante i modelli che segue, il compositore ci mette del suo ed è ben riconoscibile la sua cifra».

Come ha lavorato?

«Ho studiato tanto l’opera sulla partitura, non ascoltando le registrazioni del passato perché non trovo utile farsi idee che poi è difficile realizzare. La filologia oggi impone che si presenti la partitura per quello che è, con linee vocali al limite delle capacità umane che ogni cantante deve cercare di risolvere con gli strumenti che ha a disposizione. Per questo non costruisco mai una lettura a tavolino, ma in prova e sul palco perché il mio compito è lavorare sul materiale umano che ho a disposizione. In orchestra ho cercato una tinta leggera e classicheggiante. Ho trovato una grande disponibilità da parte di solisti, orchestra e coro a lavorare e mettersi in discussione».

Il belcanto è un vestito che la va alla perfezione: tutti i teatri la chiamano per questo repertorio. Non inizia, però, a sentirselo stretto?

«Per nulla perché mi piacciono la melodia e il grande peso dato alla voce. Cosa che poi non è lontana dalla concezione di Wagner o di Puccini».

Autori che le piacerebbe dirigere?

«Se me li proponessero non direi di no: per ora li  coltivo e li studio e penso al repertorio francese, a Gounod. Mi piacerebbe il Wagner di Lohengrin, anche per continuare la tradizione che ha visto direttori italiani autorevoli interpreti della pagine del compositore tedesco: penso ad Arturo Toscanini, a Giuseppe Sinopoli, a Claudio Abbado e  Riccardo Muti e oggi a Daniele Gatti. D’altra parte sono pochi i direttori italiani che affrontano con una certa coscienza il bel canto. Visto da fuori il direttore che fa il bel canto rischia di essere percepito come uno che fa quello perché non sa fare nulla, ma non è assolutamente così perché è il repertorio più difficile da dirigere: la partitura è scarna perché i compositori scrivevano le note, ma non il loro pensiero musicale che infondevano alla musica nel momento in cui salivano sul podio a dirigerla. Noi oggi dobbiamo recuperare quest’identità e ricostruire questo pensiero, tirando fuori il teatro da queste note».

Ce ne sarà nello spettacolo di Emilio Sagi, chiamato in corsa a inizio stagione per un allestimento che sostituisse quello, con troppi tagli arbitrari alla partitura, pensato da Christof Loy?

Lo spettacolo è elegante e curato, con costumi spettacolari. Non ha una definizione temporale precisa, gioca sull’astratto. Sagi nei recitativi pretende l’azione, ma non esagera nelle arie. Spesso si pensa che in questo repertorio non accade nulla e quindi i registi tendono a riempire l’opera di gesti. Ma è una musica che deve avere anche dei suoi spazi di ascolto. Dopo Milano l’allestimento andrà a Madrid e a San Francisco riportando nei grandi teatri un titolo che mancava da molto tempo».

San Francisco dove a settembre dirigerà per la prima volta il Roberto Devereux di Donizetti.

Mi mancava questo titolo per concludere il ciclo sui Tudor. Un quadro che si completa con Il castello di Kenilworth che dirigerò a novembre al Donizetti opera festival di Bergamo».

Rassegna di cui da quest’anno è direttore musicale.

«Il festival, che per budget è un festival low cost,  deve crescere poco a poco con l’obiettivo di fare proposte musicali di alto livello, titoli rari, riscoperte e se facciamo un Elisir d’amore dobbiamo farlo come non si fa da nessuna parte. Pensiamo ogni anno a un’opera giovanile di Donizetti, ma anche del suo maestro Mayr, su strumenti originali, l’unica via per capire veramente l’autore perché certe sonorità si possono riprodurre e comprendere solo con gli strumenti dell’epoca e con il diapason riportato a 430hz».

Un bresciano a Bergamo…

«Nessuna rivalità come da tradizione, però. Sono nato a Bagnolo Mella, in provincia di Brescia. Nessuno in famiglia era musicista: sin da ragazzo studiavo pianoforte, ma non conoscevo l’orchestra come strumento. La folgorazione durante una vacanza di Pasqua a Vienna: con i miei siamo entrati in una chiesa dove veniva eseguita la Messa dell’Incoronazione di Mozart. Il direttore catturò subito la mia attenzione, mi affascinò il suo modo di fare musica con tutti quegli strumentisti: ero un bambino e il nome di Herbert von Karajan e dei Wiener philarmoniker non mi dicevano nulla, ma lì decisi che nella vita avrei fatto quello».

Un’altra passione che coltiva è quella del calcio. Lei non nasconde il suo cuore nerazzurro…

«L’Inter è una fede. Stiamo facendo una campagna acquisti incredibile: Nainggolann, l’ipotesi Malcom. Penso che siamo da scudetto e possiamo giocarcela alla pari con la Juventus. Se devo essere sincero all’inizio non ero un sostenitore di mister Spalletti e sono stato critico soprattutto nelle ultime partite di campionato per i cambi sbagliati. Poi nell’ultima partita ha fatto i cambi giusti e ci ha permesso di tornare in Champions league, nella Scala del calcio».

Da quando è interista?

«Da sempre. Quando avevo due anni un parente interista mi regalò un salvadanaio nerazzurro. In quel momento ho sentito l’appartenenza ad una squadra. Durante le scuole superiori, poi, erano gli anni della grande Inter di Trapattoni e ogni lunedì mattina sei arrivata in classe con la gazzetta. Appassionato, ma non calciatore. Ho giocato a basket per 10 anni, ma poi ho lasciato perché mi rompevo troppo e non potevo più suonare il pianoforte».

La musica se la ritrova anche a casa, sua moglie Davinia Rodriguez, è cantante lirica.

«Ci siamo spostai dal 2007 dopo due anni di fidanzamento e abbiamo una bimba di sei anni e mezzo, Sofia. A casa cucino io, perché la cucina è un’altra passione che coltivo. Quando ho conosciuto Davinia lei faceva pop, ma l’ho convinta a lanciarsi nella lirica perché aveva una grande voce. Raramente mi chiede consigli, studia da sola, ha un carattere forte. Facciamo entrambi un lavoro che ci piace e quindi ci capiamo benissimo e anche quando ci capita di essere lontani non ci pesa più di tanto perché sappiamo che l’altro sta facendo qualcosa di importante per la propria vita. Sofia segue spesso la mamma e va in scena in quelle opere dove ci sono ruoli per bambini o dove è previsto il cori di voci bianche. Pensa che il teatro sia una cosa seria e lo fa con molto impegno».

Regia senza tempo di Sagi. Diretta su Radio tre e in Bulgaria

Il pirata di Vincenzo Bellini mancava al Teatro alla Scala dal 1958, quando lo cantò Maria Callas in un’edizione di cui rimane traccia in disco. Il capolavoro del musicista di Catania torna nella sala del Piermarini dal 29 giugno. Sul podio Riccardo Frizza. Sul palco, sino al 19 luglio, il nuovo allestimento firmato dal regista spagnolo Emilio Sagi: un racconto senza tempo, collocato in una grande scatola di specchi che moltiplica amori e paure disegnata da Daniel Bianco. Costumi di Pepa Ojanguren. Nel ruolo di Imogene, che fu della Divina, Sonya Yoncheva e, nelle repliche del 14 e del 19 luglio, Roberta Mantegna. Gualtiero, il pirata del titolo, è Piero Pretti. Ernesto, marito di Imogene, Nicola Alaimo. Lo spettacolo è in coproduzione con il Teatro Real di Madrid e la San Francisco Opera. Il 29 giugno diretta su Radio tre, ma anche in Bulgaria, paese di origine della Yoncheva, e in Serbia.

Nelle foto Merri Cry e Walter Garosi Riccardo Frizza. Nelle foto Brescia/Amisano Teatro alla Scala Il pirata