Verdi torna a Rimini e Aroldo si ritrova fascista

L’opera al Teatro Galli per il quale fu scritta nel 1857 Vicenda dal Medioevo al Ventennio della guerra d’Eritrea Regia di Sala e Sanchi, Manlio Benzi dirige la Cherubini

Aroldo torna a casa. E non è, questa, solo la prima immagine dell’opera di Giuseppe Verdi, che si apre appunto con Aroldo, un cavaliere, che torna in patria, nel Kent, nel castello del suocero, dalle Crociate, ferito nel corpo e nello spirito. Aroldo torna a casa. Torna a Rimini. Perché nel (da poco ristrutturato) Teatro Galli – ed è uno degli ultimi atti, insieme al recente varo del museo Fellini, del doppio mandato del sindaco Andrea Gnassi – va in scena il melodramma che Verdi scrisse nel 1857 proprio per l’inaugurazione del Galli – che ha riaperto nel 2018 dopo una chiusura di settantacinque anni dopo i bombardamento della Seconda guerra mondiale. Agosto del 1857 in Romagna per il compositore delle Roncole, per seguire le prove di Aroldo, ampio rimaneggiamento (meglio, rifacimento con un atto aggiunto, tanto da essere praticamente un’altra opera, conteggiata a parte nel catalogo verdiano) di Stiffelio, melodramma che nel 1850 fece scandalo a Venezia. Alla Fenice un dramma borghese ambientato ai tempi di Verdi, il tormento di un pastore protestante che scopre l’adulterio della moglie, vuole il divorzio, ma poi (in una scena che solo a raccontarla fa venire i brividi) la perdona. A Rimini, anche per aggirare la censura, una vicenda simile, ma trasportata indietro nel Medioevo, ai tempi delle Crociate. Un po’ più confusa, forse, meno diretta e potente. Comunque sempre parole forti messe in musica, divorzio e perdono. E il senso (dirompente anche oggi) non cambia.

Ora dopo 164 anni Aroldo torna a casa. Ed è sempre agosto, fine mese, in un giorno di pioggia, con gli ombrelloni delle spiagge chiusi e la gente in giro per le strade del centro storico, tra castel Sismondo e il tempio malatestiano. Aroldo ritorna a Rimini e si ritrova, effetto sicuramente straniante, ai tempi del fascismo, in pieno ventennio dove le parole d’ordine sono dovere, sacrificio, audacia, onore. Camicie nere, fez, un «Dio, patria, famiglia» scritto a grandi lettere geometriche sul palco del Galli dove la storia novecentesca di Rimini (compreso il bombardamento, il 28 dicembre 1943, del Teatro Galli) si intreccia, si sovrappone e si confonde con la vicenda dell’opera di Verdi. Lo spiega in un prologo (tra il didascalico e il celebrativo dell’amministrazione comunale uscente) a sipario chiuso l’attore Ivano Marescotti: bicicletta, coppola in testa, racconta di come Aroldo sia nato a Rimini, ma avverte anche che in scena non si vedrà un cavaliere di ritorno dalle Crociate, ma dalla guerra coloniale del 1936 in Eritrea.

E infatti, prima che Manlio Benzi dal podio attacchi la sinfonia (che è la stessa di Stiffelio), si sentono rumori fuori scena, echi di guerra, di bombe e di aerei mentre il sipario scopre il palcoscenico nudo (perché la regia sarà tutto un gioco di teatro nel teatro, di specchi tra palco e realtà). Idea di Emilio Sala ed Edoardo Sanchi, il primo docente di Musicologia all’Università degli Studi di Milano, l’altro scenografo di lungo corso, qui drammaturghi e registi dell’Aroldo, andato in scena a Rimini prima di arrivare prossimamente nei teatri di Ravenna, Modena e Piacenza che coproducono lo spettacolo. Registi e drammaturghi, ma anche tutor di uno spettacolo/laboratorio per artisti come la scenografa Giulia Bruschi, le costumiste Elisa Serpilli e Raffaella Giraldi, il videomaker Matteo Castiglioni ai quali si affianca l’esperienza di Isa Traversi, che firma i movimenti scenici tutti ispirati a icone pittoriche, e quella di Nevio Cavina, autore delle luci. Pubblico nei palchi, orchestra in platea. E sulla piazza davanti al teatro maxi schermo con la diretta che resta caricata per sei mesi sul portale operastreaming.com.

La città si specchia nell’arte. Nel suo teatro. E dunque sul palco niente Inghilterra del 1200, ma una cittadina di provincia (Rimini? appunto), governata da un gerarca fascista (l’Egberto del libretto) la cui figlia Mina ha tradito il marito Aroldo mentre questo era impegnato nella guerra in Abissinia con un altro militare, Godvino. E il perdono finale arriva non nella Scozia del libretto dove Aroldo si è ritirato a vita quasi eremitica dopo il divorzio, ma in un terreno paludoso, un Agro Pontino bonificato dagli operai del Duce che tanto assomigliano agli operai di Metropolis. Immagini sicuramente di impatto. Ma per far tornare i conti con il ventennio Sala e Sanchi intervengono con mano pesante sul libretto di Francesco Maria Piave aggiornando la locandina (dove Egberto, ad esempio, non è più «vecchio cavaliere vassallo di Kenth», ma «podestà della città in cui si svolge la vicenda») e sostituendo i riferimenti al Medioevo con termini come Abissinia, Eritrea, camerata… e, qui, un mezzo sorriso tra l’incredulo e il divertito ci scappa. Operazione discutibile, tanto più in Verdi dove ogni nota è un tutt’uno con la parola, dove la drammaturgia vive di questa simbiosi perfetta che rischia di zoppicare se il minimo meccanismo dell’ingranaggio va fuori asse.

Dunque non tutto funziona in una regia (forse più un’idea, una suggestione, una visione…) dove c’è tanto tra silenzi, rumori fuori scena… che rischiano di imporre improvvisi stop al ritmo teatrale perfetto di Verdi… video. Citazioni e virgolettati. C’è tanto. Forse troppo. Compreso l’eterno gioco di teatro nel teatro con i sipari che riproducono la sala del Galli che vanno e vengono, si alzano e si abbassano – a proposito, resteranno anche negli altri teatri? –; con le sedie di velluto (che rovesciate alla fine del primo atto diventano le tombe del cimitero in cui è ambientato il secondo); con i cambi scena a vista; con il sipario storico del Galli rovinato, ma scampato ai bombardamenti dalla Seconda guerra mondiale che entra sul palco con un muletto attraverso l’apertura sul fondo del palco (ulteriore gancio con la città perché si intravedono il castello Sismondo e le persone che passeggiano) e viene issato dai macchinisti sulle note della sinfonia.

L’effetto teatrale, è garantito. Dirompente. Come il suono (verdiano) che dalla platea si alza e investe gli spettatori seduti nei palchi. L’Orchestra giovanile Luigi Cherubini, guidata con mano salda da Manlio Benzi, restituisce la partitura in tutta la sua bellezza sperimentale (la cabaletta di Mina del secondo atto è sorprendente), un laboratorio (comunque compiuto in sé) che getta le basi per Ballo in maschera (quanto echi di amelia nelle atmosfere musicali che raccontano Mina) e Otello – basta ascoltare la tempesta del quarto atto ben restituita dall’orchestra e dal coro del Municipale di Piacenza. Suono corposo negli assiemi, preziosi interventi dei solisti che dialogano con le voci sul palco.

Lidia Fridman, classe 1996, disegna una Mina tragica grazie alla sua affascinante e magntica presenza scenica e al notevole peso drammatico della sua (ammaliante) voce. Antonio Corianò affronta con impegno la parte di Aroldo (imparentata con la scrittura impervia di Otello), forse ancora troppo complessa per la sua vocalità viste alcune difficoltà che il tenore sembra avere, specie in acuto. Ma anche l’altro tenore, Cristiano Olivieri che è Godvino, fatica e non poco. Lasciano invece il segno (per colore della voce, per la tecnica e per l’interpretazione) Michele Govi che conferisce il giusto tormento di padre verdiano a Egberto e Adriano Gramigni, autorevole Briano, in crescita durante la serata sino al finale dove si impone per presenza vocale mentre cita il paso del Vangelo in cui Gesù, «il Giusto», perdona all’adultera e avverte che «il sasso scagliato sia primo da quegli ch’è senza peccato». Un brivido. «E allor perdonata la donna si alzò». Anche Mina si alza. Si toglie l’impermeabile. Se lo sfila anche Egberto. Aroldo e Briano si tolgono la tuta da lavoro. Spariscono i personaggi dell’opera. Restano i cantanti. In abiti contemporanei. vengono in proscenio. Ci guardano in volto. Quasi negli occhi – se non ci fosse la lontananza imposta dal distanziamento. Per dirci, con la musica potente e senza tempo (che varca il tempo) di Verdi, che tutti abbiamo bisogno di un perdono.